Nicola Sparano, dal Canada, mi ha inviato un
altro racconto ove sintetizza come trascorrevamo
il tempo quando non c'era ancora la televisione.
Ragazzo apparentemente burbero e risoluto,
Nicola cavalcava, come si evince dai suoi
scritti, qualsiasi forma di contestazione che
nasceva a Telese. Ma è sorprendente scoprire,
dopo tanti anni, che dietro quella "scorza" si
nasconde un nostalgico sentimentalone, anche lui
innamorato di Telese. Per chi avesse voglia di
leggere i suoi articoli può andare su
www.corriere.com e cliccare su opinioni sulla
parte sx. della home e poi su "controsport".
Nicola pubblica il Sabato.
Riccardo Affinito
Telese prima della televisione
Nicola Sparano
"Trasévano tutti aggratis". Tutti quelli che
erano ammanigliati ai Minieri, al sindaco don
Gerardo, al segretario comunale, a don Mario,
insomma tutti coloro che avevano conoscenze
altolocate, ai Goccioloni non pagavano. E non
pagavamo nemmeno noi, i ribelli senza santi in
paradiso. Come siamo entrati per anni? Semplice,
andavamo dalla parte del monte, dove c’era una
specie di serra e la cucina di una pizzeria
durata uno o due anni. Da quella parte non c’era
mai nessuno, quindi zompare attravero la
mezzaluna che caratterizza le cabine delle
piscine era come fumare una sigaretta . Il salto
ci portava in uno dei due gabinetti, quando non
erano occupati, naturalmente. Poi si andava
fischiettando in modo noncurante verso le cabine
vicino al finestrone, dove ammucchiavano la
marmaglia. Un spinta e, zacchete, eravamo dentro
anche noi, aggratis, come tutte le persone
importanti. Allora i Goccioloni chiudevano verso
le due. E noi ragazzi dopo una corsa a casa per
"soppontare" lo stomaco, si tornava alle terme.
In quelle ore, quando il sole spaccava anche le
pietre, noi stavamo al fresco nel salone dove
sperimentavamo con il pokerino.
A
questo punto, debbo puntualizzare che il ragazzo
piu’ fortunato della nostra banda era Eduardo
detto Smith perche’ la buonanima del padre, don
Gennaro al quale portavo le tenghe del lago
quando era malato, aveva un cane da caccia che
si chiamava appunto Smith. Dunque Eduardo-Smith
faceva tutto bene, senza sforzo e con
grande…fondo del sedere. Per esempio, quando si
giocava " 'o trix" , un gioco che consisteva nel
far entrare le monete in un quadrato disegnato
per terra, lui tirava come mai nessuno aveva
fatto prima. Metteva l’indice alla base del
police e, zacchete, il soldo fascista entrava
sempre. Utilizzava lo stesso tiro indice-pollice
anche nel Giro d‘Italia con le palline e nove
volte su dieci vinceva sempre lui.
Tornando al poker, una volta prese due carte e
chiuse…una scala reale. Veramente, fece scala
reale con due carte: parti’ con dieci, jack e
regina a cuore e prese l’asso e il king. Da
quella volta in poi ci rifiutammo di farci
spennare ancora e abbandonammo il poker. Eduardo
era un mancino, in campo aveva il numero 11. Era
piccolo, tosto, veloce. Segnava parecchi gol.
Essendo nato con quell’affare grosso, a volte
superava i limiti contando, forse, sulla
fortuna, per trarlo d’impiccio. Una volta che
sul campo Meomartini di Benevento, mentre
stavamo vincendo per 1-0 (rete di Salvatore
Bartone, di stinco, su rimpallo) ci diedero un
rigore contro. Smith disse: se mi giro di
spalle, quello sbaglia. E il rigorista spedi’
alle stelle. Smith, con un sorriso smagliante,
gli corse incontro e accenno’ a dargli la mano.
L’ebbe la mano, ma sul naso chiusa a cazzotto.
Una volta a Campagnano, o forse era Campolattaro,
ci avevano invitato per un’amichevole in onore
del santo patrono. Il campo non aveva
spogliatoi. I nostri avversari andarono a
cambiarsi a nella masseria di un contadino, a
noi dissero di arrangiarci. C’era molta gente,
anche ragazze. Disponemmo degli asciugamani a
quadrato, per proteggere il…nostro pudore. Smith
la penso’ diversamente. Disse che ad arrangiarsi
dovevano essere gli altri, quindi si cambio’
davanti tutti. Pensate, si cambio’ restando in
mutande sulle quali indosso’ il pantalocino da
gioco. Ma allora spogliarsi in pubblico era
indecente, un’offesa alla morale. E le donne di
Campagnano si misero a starnazzare come galline
e ci tocco’ scappare a gambe levate.
Del lago, sul lago e dentro il lago ne avrei di
storie da raccontarvi. Il primo fucile subacqueo
lo aveva Giovanni Zotti. Per anni prese tenghe e
tengoni. Poi si scoccio’ e mi regalo’ il fucile
perche mio padre era amico suo. Io con quel
fucile non ho mai preso tengnoni giganteschi, ma
tenghe di media stazza, tenghetelle, trottoloni
e qualche anguilla (erano le piu’ facili da
infilzare). Una volta che ero dentro per poco
quel "fetente" di Salvatore Bartone non mi "schiatto’
ncuorpo", letteralmente. Sapeva che ero li’
prima di lui, ma butto’ lo stesso una bomba
(mezza stecca di dinamite, percussore e piccola
miccia, il tutto costava cento lire) , lo
spostamento d’acqua per poco non mi fece fare la
fine dei pesci. Quando mi ripresi, lui stava li’
a ridere. Io mi tolsi le pinne, staccai la corda
che teneva l’arpione legato al fucile e gli
corsi appresso per sparargli. Ma lui era uno
scattista e si dileguo’.
Un’altra volta io stavo in acqua sotto il
canneto dove stavano i trottoloni. Riccardo, il
futuro Cantastorie, aspettava il suo turno. Io
mi misi ad inseguire una tenghetella a una
decina di metri di profondita’ dove vidi girare
in tondo una ventina di quelli che ancora credo
fossero una specie di delfini. Schizzai fuori
dall’acqua come una freccia e quando Riccardo mi
chiese cosa avessi visto, io gli mollai fucile,
pinne e maschera facendogli cenno di buttarsi.
Lui lo fece, ma torno’ fuori in un lampo ,bianco
come un lenzuolo. Madonna, disse, che erano quei
pesci? Io risposi che erano delfini, ma forse
sbagliavo. In ogni caso quando al lago
cominciarono a pescarci i vigili del fuoco, ne
tirarono su di roba, ma nessuno mi ha mai detto
se ci fossero anche delfini. Allora il Lago era
collegato al Calore, il calore andava nel
Volturno che a sua volta finiva in mare. I
pesci, le anguille e forse i delfini, che
risalivano i due fiumi arrivavano nel lago dal
quale poi, forse, tornavano al mare. Con gli
anni il livello del lago scese, si sarebbero
dovuti fare dei lavori per tenere aperto il
canalone di collegamento, vitale per ricambiare
le acque. Invece nada, niente. Nessuno ebbe la
lungimiranza di capire che senza quel canalone
il lago diventava uno stagno, dove negli anni
hanno riversato rifiuti e milioni. I rifiuti
erano della gente incivile che non utilizzava i
bidoni delle immondizie. I milioni erano quelli
che si strappavano alle varie istituzioni
governative per progetti che avrebbero dovuto
valorizzare il lago, che invece e’ peggiorato in
tutto e per tutto. L’ultima volta che mi sono
fatto il bagno nel lago sara’ stato 15 anni or
sono: l’acqua puzzava. Or quando torno non ci
vado piu’. Atrimenti mi viene da piangere. Ho
detto, "en passant", della dinamite. I
bastoncini venivano dalla cava dietro Grassano.
Qualcuno li contrabbandava. Comunque con una
“stecca” di dinamite si facevano due bombe: con
percussori e miccia il tutto veniva appena piu’
di cento lire. Cento lire. Investivamo quella
gigantesca somma per due bombe che
confezionavamo da soli (chissa’ come ce la
cavammo senza farcele esplodere addosso).
Comunque, quelle bombe artiginali le facevamo
scoppiare nel fiume. Se eravamo fortunati
pigliavamo poco e niente. Ma se azzecavamo il
posto, il fiume si quagliava di pesci. E noi li
barattavamo con carne, salsicce e compagnia
bella per cene che sono rimaste nella storia di
Telese.
Una volta che ero con il solito Riccardo,
prendemmo molti, tanti pesci. Non ricordo con
precisione come finimmo a casa di Turuccio 'o
chianchiere la cui moglie non avvinceva a
friggere che il nostro piatto era gia’ vuoto.
Che tempi erano quei tempi. Felice ‘e Mingone,
pace all’anima sua, ci introdusse all’arte di
gustare " 'e pummarole". Guaglio’ – diceva –
ncoppa na' pummarola ca cresc'i' (aveva un
giardino su Grassano), ce abbasta nu' filo d'uoglio
e na' ndecchia 'e sale” e po' uno se magna 'o
sole, ll’aria e 'o còre 'e Telese…. Mastu Peppe
"scuppetta" ‘e San Salvatore, altro personaggio
epico delle bocce di Scialone – c’erano ache
Peppe ‘a Riccia, Macchiulella ‘o Capufficio e
altri – soleva raccontarci la storia del
furastiero capitato nel ristorante di Rosina che
aveva due piatti nel menu’: pasta e faggioli,
faggioli e pasta. Mentre lo straniero si sbafava
il solito piatto, un personaggio locale che
poteva essere Zi Lavo, ordinava pollo con la
menta. Un giorno, due, tre di giorni di fila con
‘sto pollo alla menta. Il forastiero si incazzo’
con la padrona e pretese il pollo alla menta.
Non alla mente, rise la Rosina, ma con la mente,
cioe’ con la fantasia. Di fantasia ne aveva da
vendere Gianfranco, e non solo la fantasia.
Innanzitutto era l’unico che aveva due nomi in
uno, poi era figlio di un insegnante, mentre la
madre parlava e parla, beata lei e tanti auguri,
in romanesco . Gianfranco assurse agli onori
della gloria quando era adolescente. Il padre lo
aveva sequestrato sul balconcino al secondo
piano per punirlo di qualcosa. Lui prese un
ombrello e usandolo come paracadute si getto’
dal balcone. Atterro’senza farsi male e solo
qualche anno dopo capimmo che era piu’ duro del
cemento.
La
storia che sto per raccontavi e’ vera, lo giuro
e come dice un mio amico “se non dico la verita’
"ca nun putesse piscia’ cchiu’". Insomma una
volta eravamo a vedere un film ad Amorosi. Era
un western in cui le scazzottate si sprecavano.
Mentre uscivamo, Gianfranco ebbe a che dire con
un giovane guappo locale. Una parola tira
l’altra e i due si sfidarono a cazzotti. Uno
alla volta. Si tira a turni e nessuno deve
scansarsi: questo era l’accordo. Gianfranco
magnanimo, concesse: comincia tu. Si mise in
posa e ricevette un cazzottone sul naso (e’
storto, fateci caso) che scoppo’ a sangue. Poi
tocco’ a Gianfranco. Lui miro’ alla bocca.
Zacchete, un destro a calare da ncoppa a sotto:
tre denti finirono sul marciapiede e il guappo
si mise a piangere. Non ricordo se fu
Gianfranco, oppure l’onore tocca a Filippiello,
ma una volta Carletto Franco si becco’, a
tradimento, un bottiglione (vuoto) in testa per
un torto che non mi viene in mente. Carletto era
cresciuto di fronte al sottoscritto, ncoppa i
bagni. Ragazzo serio sin da quando era bomboccio
divenne capitano del Telese. Giocava terzino ed
una volta fece autogol. Quando io mi mangiai il
gol del pareggio, lui disse che ero una
schiappa. Io gli risposi che stavamo perdendo
per colpa sua. E mi beccai un sgrugnone in
faccia. Restando in tema pallonaro, una volta
portammo a Telese un ragazzo somalo, nero nero,
che doveva rafforzare la nostra squadra. Andammo
a prenderlo alla stazione come si faceva una
volta, a pedi. Camminando camminando ci
accorgemmo che Antimino ci seguiva nascondendosi
da platano a platano (allora erano quelli
originali, quelli grandi che hanno fatto la
storia di Telese). Quando cercammo di farlo
avvicinare, di camminare con noi, Antimo sbotto’
: cu' cazz, chillo mi magna.
Tonino ‘o sceriffo ha recitato una parte
importante nella mia giovinezza. Innanzitutto ci
univa la passione per i western – io diventai o’
pistolero perche’ di sceriffo ce n’era gia’ uno,
lui – e poi eravamo avidi lettori di tutto, dai
giornaletti, ai romanzi gialli e di
fantascienza. Inoltre lui abitava di fonte al
cimitero e le campagne del circondario
diventavano per noi le praterie del far west.
Andavamo anche a caccia – e una volta lo quasi
ammazzai quando mi scappo’ una botta mentre
andavamo a malvizzi – ma il massimo del massimo
era l’ uva a menna di vacca che ci fregavamo
dalla vigna del padre. La madre, buonanima, ci
preparava cene che erano la fine del mondo,
sempre con caccia e roba di campagna. Una volta,
la sera di un capodanno andai a fare un bisogno
all’aria aperta. E al lume delle stelle riuscii
a leggere il giornale che mi ero portato per
ovvi motivi. A proposito di cene, una volta ne
imbadirono una con il mio gatto. E’ vero, lo
giuro. Per conferma chiedete a Ndunuicco
Ceniccola e a tutta "chella banda 'e muorte 'e
famme" dell’acqua fetente che si sbafarono l’animaluccio
in una delle case di fronte al genere alimentare
- di zi Luigi? - che allora serviva la zona.
E
per chiudere questo flash back, fatevi
raccontare di quanti telesini ho incontrato a
Toronto, uno dei quali era addirittura
mio…fratello. La natura della mia professione mi
porta ad essere enternamente in giro per la
citta’ e quando sento un accento vagamente
familiare, chiedo sempre: ma lei da che parte
d’Italia viene? Dalla domanda esce un dialogo
che generalmente prosegue su questa falsariga.
Di dove sono? Di Napoli. - Napoli, proprio
Napoli. No, di Benevento. - Di Benevento? quale
paese. Non lo conosce, e’ un paese piccolo,
Telese. - Telese?, ma lei e’ certo di essere di
Telese? Perche’ lei lo conosce quel pease? - Ci
sono stato soltanto i primi 24 anni della mia
vita. Se mi dice il suo cognome, magari
scopriremo che abitavamo vicino. Non credo, io
in effetti vengo da Puglianiello ma dico sempre
che sono di Telese, cosi’ mi sento piu’
importante. *** Una puntualizzazione: qui a
Toronto, per quanto ne sappia, di Telese ci
siamo soltanto io e Franco d’Angicco,
attualmente pendolare transoceanico. Di
Puglianiello e di Faicchio ci sono alcune
famiglie e c’e’ anche qualche solopachese. Non
ho mai sentito un accento di Castelvenere , di
Cerreto o di Guardia. Ed ora torniamo al
fratello che non ho mai saputo di avere. Una
volta, ad una raccolta fondi per la lotta al
tumore, mi si avvicina un signore che mi chiede.
Lei e’ Nicola Sparano? Io rispondo di si e lui
mi stringe in un abbraccio (cosa non facile
vista la mia mole) e con le lacrime agli occhi
afferma: Piacere, sono Salvatore Mongillo e sono
suo fratello. Io lo guardo e senza parlare mi
divincolo cercando di capire se il tizio e’
mbriaco oppure svitato. Lui insiste: siamo
fratelli, fratelli di latte. Sua madre, la
signora maestra mi ha allattato nel ’45 quando
veniva a fare scuola "copp'‘a Chiana.Io che di
sta cosa non ne ho mai saputo nulla, dico al
presunto fratello che debbo informarmi prima di
allargare la mia famiglia includendo anche la
sua. Era vero, aveva ragione lui il Mongillo di
Puglianello. Per telefono la gran vegliarda mi
ha confermato che mentre allattava mia sorella
Mariapina, il surplus lo dava a ‘nu bardascio
che manco mi ricordo come si chiama. Quando io
le chiesi come mai a me non aveva mai detto del
fatto, lei rispose papale papale: a quei tempi
era una cosa normale, la mamma con il latte
aiutava la mamma senza. E poi, guaglio’,
ricordati del vecchio detto: fa del bene e
scordatene.
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