18 aprile 2006
Telese prima della televisione
Riccardo Affinito

 

 

Nicola Sparano, dal Canada, mi ha inviato un altro racconto ove sintetizza come trascorrevamo il tempo quando non c'era ancora la televisione. Ragazzo apparentemente burbero e risoluto, Nicola cavalcava, come si evince dai suoi scritti, qualsiasi forma di contestazione che nasceva a Telese. Ma è sorprendente scoprire, dopo tanti anni, che dietro quella "scorza" si nasconde un nostalgico sentimentalone, anche lui innamorato di Telese. Per chi avesse voglia di leggere i suoi articoli può andare su www.corriere.com e cliccare su opinioni sulla parte sx. della home e poi su "controsport". Nicola pubblica il Sabato.

Riccardo Affinito


 

Telese prima della televisione

Nicola Sparano

"Trasévano tutti aggratis". Tutti quelli che erano ammanigliati ai Minieri, al sindaco don Gerardo, al segretario comunale, a don Mario, insomma tutti coloro che avevano conoscenze altolocate, ai Goccioloni non pagavano. E non pagavamo nemmeno noi, i ribelli senza santi in paradiso. Come siamo entrati per anni? Semplice, andavamo dalla parte del monte, dove c’era una specie di serra e la cucina di una pizzeria durata uno o due anni. Da quella parte non c’era mai nessuno, quindi zompare attravero la mezzaluna che caratterizza le cabine delle piscine era come fumare una sigaretta . Il salto ci portava in uno dei due gabinetti, quando non erano occupati, naturalmente. Poi si andava fischiettando in modo noncurante verso le cabine vicino al finestrone, dove ammucchiavano la marmaglia. Un spinta e, zacchete, eravamo dentro anche noi, aggratis, come tutte le persone importanti. Allora i Goccioloni chiudevano verso le due. E noi ragazzi dopo una corsa a casa per "soppontare" lo stomaco, si tornava alle terme. In quelle ore, quando il sole spaccava anche le pietre, noi stavamo al fresco nel salone dove sperimentavamo con il pokerino.

A questo punto, debbo puntualizzare che il ragazzo piu’ fortunato della nostra banda era Eduardo detto Smith perche’ la buonanima del padre, don Gennaro al quale portavo le tenghe del lago quando era malato, aveva un cane da caccia che si chiamava appunto Smith. Dunque Eduardo-Smith faceva tutto bene, senza sforzo e con grande…fondo del sedere. Per esempio, quando si giocava " 'o trix" , un gioco che consisteva nel far entrare le monete in un quadrato disegnato per terra, lui tirava come mai nessuno aveva fatto prima. Metteva l’indice alla base del police e, zacchete, il soldo fascista entrava sempre. Utilizzava lo stesso tiro indice-pollice anche nel Giro d‘Italia con le palline e nove volte su dieci vinceva sempre lui.

Tornando al poker, una volta prese due carte e chiuse…una scala reale. Veramente, fece scala reale con due carte: parti’ con dieci, jack e regina a cuore e prese l’asso e il king. Da quella volta in poi ci rifiutammo di farci spennare ancora e abbandonammo il poker. Eduardo era un mancino, in campo aveva il numero 11. Era piccolo, tosto, veloce. Segnava parecchi gol. Essendo nato con quell’affare grosso, a volte superava i limiti contando, forse, sulla fortuna, per trarlo d’impiccio. Una volta che sul campo Meomartini di Benevento, mentre stavamo vincendo per 1-0 (rete di Salvatore Bartone, di stinco, su rimpallo) ci diedero un rigore contro. Smith disse: se mi giro di spalle, quello sbaglia. E il rigorista spedi’ alle stelle. Smith, con un sorriso smagliante, gli corse incontro e accenno’ a dargli la mano. L’ebbe la mano, ma sul naso chiusa a cazzotto. Una volta a Campagnano, o forse era Campolattaro, ci avevano invitato per un’amichevole in onore del santo patrono. Il campo non aveva spogliatoi. I nostri avversari andarono a cambiarsi a nella masseria di un contadino, a noi dissero di arrangiarci. C’era molta gente, anche ragazze. Disponemmo degli asciugamani a quadrato, per proteggere il…nostro pudore. Smith la penso’ diversamente. Disse che ad arrangiarsi dovevano essere gli altri, quindi si cambio’ davanti tutti. Pensate, si cambio’ restando in mutande sulle quali indosso’ il pantalocino da gioco. Ma allora spogliarsi in pubblico era indecente, un’offesa alla morale. E le donne di Campagnano si misero a starnazzare come galline e ci tocco’ scappare a gambe levate.

Del lago, sul lago e dentro il lago ne avrei di storie da raccontarvi. Il primo fucile subacqueo lo aveva Giovanni Zotti. Per anni prese tenghe e tengoni. Poi si scoccio’ e mi regalo’ il fucile perche mio padre era amico suo. Io con quel fucile non ho mai preso tengnoni giganteschi, ma tenghe di media stazza, tenghetelle, trottoloni e qualche anguilla (erano le piu’ facili da infilzare). Una volta che ero dentro per poco quel "fetente" di Salvatore Bartone non mi "schiatto’ ncuorpo", letteralmente. Sapeva che ero li’ prima di lui, ma butto’ lo stesso una bomba (mezza stecca di dinamite, percussore e piccola miccia, il tutto costava cento lire) , lo spostamento d’acqua per poco non mi fece fare la fine dei pesci. Quando mi ripresi, lui stava li’ a ridere. Io mi tolsi le pinne, staccai la corda che teneva l’arpione legato al fucile e gli corsi appresso per sparargli. Ma lui era uno scattista e si dileguo’.

Un’altra volta io stavo in acqua sotto il canneto dove stavano i trottoloni. Riccardo, il futuro Cantastorie, aspettava il suo turno. Io mi misi ad inseguire una tenghetella a una decina di metri di profondita’ dove vidi girare in tondo una ventina di quelli che ancora credo fossero una specie di delfini. Schizzai fuori dall’acqua come una freccia e quando Riccardo mi chiese cosa avessi visto, io gli mollai fucile, pinne e maschera facendogli cenno di buttarsi. Lui lo fece, ma torno’ fuori in un lampo ,bianco come un lenzuolo. Madonna, disse, che erano quei pesci? Io risposi che erano delfini, ma forse sbagliavo. In ogni caso quando al lago cominciarono a pescarci i vigili del fuoco, ne tirarono su di roba, ma nessuno mi ha mai detto se ci fossero anche delfini. Allora il Lago era collegato al Calore, il calore andava nel Volturno che a sua volta finiva in mare. I pesci, le anguille e forse i delfini, che risalivano i due fiumi arrivavano nel lago dal quale poi, forse, tornavano al mare. Con gli anni il livello del lago scese, si sarebbero dovuti fare dei lavori per tenere aperto il canalone di collegamento, vitale per ricambiare le acque. Invece nada, niente. Nessuno ebbe la lungimiranza di capire che senza quel canalone il lago diventava uno stagno, dove negli anni hanno riversato rifiuti e milioni. I rifiuti erano della gente incivile che non utilizzava i bidoni delle immondizie. I milioni erano quelli che si strappavano alle varie istituzioni governative per progetti che avrebbero dovuto valorizzare il lago, che invece e’ peggiorato in tutto e per tutto. L’ultima volta che mi sono fatto il bagno nel lago sara’ stato 15 anni or sono: l’acqua puzzava. Or quando torno non ci vado piu’. Atrimenti mi viene da piangere. Ho detto, "en passant", della dinamite. I bastoncini venivano dalla cava dietro Grassano. Qualcuno li contrabbandava. Comunque con una “stecca” di dinamite si facevano due bombe: con percussori e miccia il tutto veniva appena piu’ di cento lire. Cento lire. Investivamo quella gigantesca somma per due bombe che confezionavamo da soli (chissa’ come ce la cavammo senza farcele esplodere addosso). Comunque, quelle bombe artiginali le facevamo scoppiare nel fiume. Se eravamo fortunati pigliavamo poco e niente. Ma se azzecavamo il posto, il fiume si quagliava di pesci. E noi li barattavamo con carne, salsicce e compagnia bella per cene che sono rimaste nella storia di Telese.

Una volta che ero con il solito Riccardo, prendemmo molti, tanti pesci. Non ricordo con precisione come finimmo a casa di Turuccio 'o chianchiere la cui moglie non avvinceva a friggere che il nostro piatto era gia’ vuoto. Che tempi erano quei tempi. Felice ‘e Mingone, pace all’anima sua, ci introdusse all’arte di gustare " 'e pummarole". Guaglio’ – diceva – ncoppa na' pummarola ca cresc'i' (aveva un giardino su Grassano), ce abbasta nu' filo d'uoglio e na' ndecchia 'e sale” e po' uno se magna 'o sole, ll’aria e 'o còre 'e Telese…. Mastu Peppe "scuppetta" ‘e San Salvatore, altro personaggio epico delle bocce di Scialone – c’erano ache Peppe ‘a Riccia, Macchiulella ‘o Capufficio e altri – soleva raccontarci la storia del furastiero capitato nel ristorante di Rosina che aveva due piatti nel menu’: pasta e faggioli, faggioli e pasta. Mentre lo straniero si sbafava il solito piatto, un personaggio locale che poteva essere Zi Lavo, ordinava pollo con la menta. Un giorno, due, tre di giorni di fila con ‘sto pollo alla menta. Il forastiero si incazzo’ con la padrona e pretese il pollo alla menta. Non alla mente, rise la Rosina, ma con la mente, cioe’ con la fantasia. Di fantasia ne aveva da vendere Gianfranco, e non solo la fantasia. Innanzitutto era l’unico che aveva due nomi in uno, poi era figlio di un insegnante, mentre la madre parlava e parla, beata lei e tanti auguri, in romanesco . Gianfranco assurse agli onori della gloria quando era adolescente. Il padre lo aveva sequestrato sul balconcino al secondo piano per punirlo di qualcosa. Lui prese un ombrello e usandolo come paracadute si getto’ dal balcone. Atterro’senza farsi male e solo qualche anno dopo capimmo che era piu’ duro del cemento.

La storia che sto per raccontavi e’ vera, lo giuro e come dice un mio amico “se non dico la verita’ "ca nun putesse piscia’ cchiu’". Insomma una volta eravamo a vedere un film ad Amorosi. Era un western in cui le scazzottate si sprecavano. Mentre uscivamo, Gianfranco ebbe a che dire con un giovane guappo locale. Una parola tira l’altra e i due si sfidarono a cazzotti. Uno alla volta. Si tira a turni e nessuno deve scansarsi: questo era l’accordo. Gianfranco magnanimo, concesse: comincia tu. Si mise in posa e ricevette un cazzottone sul naso (e’ storto, fateci caso) che scoppo’ a sangue. Poi tocco’ a Gianfranco. Lui miro’ alla bocca. Zacchete, un destro a calare da ncoppa a sotto: tre denti finirono sul marciapiede e il guappo si mise a piangere. Non ricordo se fu Gianfranco, oppure l’onore tocca a Filippiello, ma una volta Carletto Franco si becco’, a tradimento, un bottiglione (vuoto) in testa per un torto che non mi viene in mente. Carletto era cresciuto di fronte al sottoscritto, ncoppa i bagni. Ragazzo serio sin da quando era bomboccio divenne capitano del Telese. Giocava terzino ed una volta fece autogol. Quando io mi mangiai il gol del pareggio, lui disse che ero una schiappa. Io gli risposi che stavamo perdendo per colpa sua. E mi beccai un sgrugnone in faccia. Restando in tema pallonaro, una volta portammo a Telese un ragazzo somalo, nero nero, che doveva rafforzare la nostra squadra. Andammo a prenderlo alla stazione come si faceva una volta, a pedi. Camminando camminando ci accorgemmo che Antimino ci seguiva nascondendosi da platano a platano (allora erano quelli originali, quelli grandi che hanno fatto la storia di Telese). Quando cercammo di farlo avvicinare, di camminare con noi, Antimo sbotto’ : cu' cazz, chillo mi magna.

Tonino ‘o sceriffo ha recitato una parte importante nella mia giovinezza. Innanzitutto ci univa la passione per i western – io diventai o’ pistolero perche’ di sceriffo ce n’era gia’ uno, lui – e poi eravamo avidi lettori di tutto, dai giornaletti, ai romanzi gialli e di fantascienza. Inoltre lui abitava di fonte al cimitero e le campagne del circondario diventavano per noi le praterie del far west. Andavamo anche a caccia – e una volta lo quasi ammazzai quando mi scappo’ una botta mentre andavamo a malvizzi – ma il massimo del massimo era l’ uva a menna di vacca che ci fregavamo dalla vigna del padre. La madre, buonanima, ci preparava cene che erano la fine del mondo, sempre con caccia e roba di campagna. Una volta, la sera di un capodanno andai a fare un bisogno all’aria aperta. E al lume delle stelle riuscii a leggere il giornale che mi ero portato per ovvi motivi. A proposito di cene, una volta ne imbadirono una con il mio gatto. E’ vero, lo giuro. Per conferma chiedete a Ndunuicco Ceniccola e a tutta "chella banda 'e muorte 'e famme" dell’acqua fetente che si sbafarono l’animaluccio in una delle case di fronte al genere alimentare - di zi Luigi? - che allora serviva la zona.

E per chiudere questo flash back, fatevi raccontare di quanti telesini ho incontrato a Toronto, uno dei quali era addirittura mio…fratello. La natura della mia professione mi porta ad essere enternamente in giro per la citta’ e quando sento un accento vagamente familiare, chiedo sempre: ma lei da che parte d’Italia viene? Dalla domanda esce un dialogo che generalmente prosegue su questa falsariga. Di dove sono? Di Napoli. - Napoli, proprio Napoli. No, di Benevento. - Di Benevento? quale paese. Non lo conosce, e’ un paese piccolo, Telese. - Telese?, ma lei e’ certo di essere di Telese? Perche’ lei lo conosce quel pease? - Ci sono stato soltanto i primi 24 anni della mia vita. Se mi dice il suo cognome, magari scopriremo che abitavamo vicino. Non credo, io in effetti vengo da Puglianiello ma dico sempre che sono di Telese, cosi’ mi sento piu’ importante. *** Una puntualizzazione: qui a Toronto, per quanto ne sappia, di Telese ci siamo soltanto io e Franco d’Angicco, attualmente pendolare transoceanico. Di Puglianiello e di Faicchio ci sono alcune famiglie e c’e’ anche qualche solopachese. Non ho mai sentito un accento di Castelvenere , di Cerreto o di Guardia. Ed ora torniamo al fratello che non ho mai saputo di avere. Una volta, ad una raccolta fondi per la lotta al tumore, mi si avvicina un signore che mi chiede. Lei e’ Nicola Sparano? Io rispondo di si e lui mi stringe in un abbraccio (cosa non facile vista la mia mole) e con le lacrime agli occhi afferma: Piacere, sono Salvatore Mongillo e sono suo fratello. Io lo guardo e senza parlare mi divincolo cercando di capire se il tizio e’ mbriaco oppure svitato. Lui insiste: siamo fratelli, fratelli di latte. Sua madre, la signora maestra mi ha allattato nel ’45 quando veniva a fare scuola "copp'‘a Chiana.Io che di sta cosa non ne ho mai saputo nulla, dico al presunto fratello che debbo informarmi prima di allargare la mia famiglia includendo anche la sua. Era vero, aveva ragione lui il Mongillo di Puglianello. Per telefono la gran vegliarda mi ha confermato che mentre allattava mia sorella Mariapina, il surplus lo dava a ‘nu bardascio che manco mi ricordo come si chiama. Quando io le chiesi come mai a me non aveva mai detto del fatto, lei rispose papale papale: a quei tempi era una cosa normale, la mamma con il latte aiutava la mamma senza. E poi, guaglio’, ricordati del vecchio detto: fa del bene e scordatene.

 

 

     

  Il Cantastorie  Riccardo Affinito


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