25 ottobre 2009
Telese, Riccardo Affinito racconta Gigino Cappelletti
Riccardo Affinito

 

 

                                                         

 

Cari amici di ViviTelese,

 

innanzitutto ben ritrovati e spero che abbiate trascorso un’estate allegra e spensierata.

 

Questa volta vi racconterò di Gigino Cappelletti, personaggio simpatico ed estroverso che ha contribuito a rendere la vita telesina degli anni 50/60 più interessante e gradevole.

 

Era piccolo di statura, “sicco comm’’a  nu’ chiuovo” e certo non si poteva dire che fosse bello; ma nonostante ciò, rimane uno dei più agguerriti “sciupafemmene” di quel tempo. Faceva il filo a tutte le ragazze e quando entrava in concorrenza con qualche altro “sciupafemmene”, era solito rivendicare la sua primogenitura dicendo “ l’aggia vista primm’ i’.

 

Era un gran damerino: sempre “azzimato”, vestiti e scarpe alla moda,  ben pettinato,  fazzoletto nel taschino, occhiali da sole, foulard al collo. Veniva spesso scoperto a specchiarsi nelle vetrine, insomma un vero viveur. Ma nonostante ciò, per “quagliare” con una ragazza doveva faticare parecchio,                      

 

Per rendere meglio l’idea, prendo in prestito alcuni versi di quella meravigliosa canzone di anonimo napoletano che è “ Lo Guarracino”

 

Tutto pòsema e steratiello,

jeva facendo lo sbafantiello,

gerava de ccà e de llà,

la nnamorata pe’ se trovà.

 

Ma Gigino era soprattutto un grande intrattenitore. Non c’era festa rionale ove non venisse invitato e a volte si siamo esibiti insieme dallo stesso palcoscenico.

Suonava l’armonica a bocca, cantava, raccontava barzellette e soprattutto ballava il charleston. Fu lui ad introdurre questo ballo a Telese. Oggi sarebbe un grande show man!                                                                                                              

 

Un’altra prerogativa di questo nostro amico era l’agilità. Si muoveva come un gatto e, pur non avendo mai frequentato alcuna palestra, lottava e tirava di boxe alla grande prevalendo su giovani che fisicamente pesavano “justo  ‘o ddoppio”. 

 

Quando cominciò a circolare la voce che Gigino Cappelletti era imbattibile nella lotta e nella boxe, la cosa sembrava impossibile date le sue caratteristiche fisiche,  molti giovani lo sfidavano con quel classico atteggiamento: “Mo’ te faccio vedé i’”. Ma non c’era verso, ci provavano a turno tutti, ma alla fine Gigino Cappelletti “ ‘e schiava tutte quante cu’ ‘e rine nterra”.

 

Vi voglio raccontare alcuni aneddoti che l’hanno visto protagonista.

 

Molti anni fa fu invitato ad un matrimonio ed il pranzo nuziale si tenne in un ristorante ubicato sulla via Domiziana. Finita la cerimonia religiosa si diresse alla volta del ristorante e, dopo aver parcheggiato l’auto, si apprestava ad attraversare la strada che in quel momento era molto trafficata.

 

Aspettò per un poco, ma poiché la fila di macchine era interminabile, si stancò e improvvisamente strabuzzò gli occhi, storse le mani e le gambe, “ e abbiaje a passà ‘a via camminanno tutto sturzellato” . Sembrava uno storpio vero e proprio. Le macchine cominciarono a frenare ed in breve si fece una fila chilometrica sia in un senso che nell’altro. Quando fu dall’altra parte della strada, si girò e fece:

 

Tèèèè!!, accompagnando con il gesto dell’ombrello.

 

Non vi dico quello che successe! Strombazzate, insulti, minacce, bestemmie e qualcuno addirittura scese dall’automobile per acciuffarlo; ma Gigino era anche molto veloce e in poco tempo si mise in salvo.

 

                                           

 

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Un’altra volta andò a vedere allo stadio del Vomero un famoso  Napoli-Milan, in compagnia del fratello Mario e Guido Pilla detto “mamélla”. Ad attenderli alla stazione c’era Goffredo Macolino, che a quel tempo risiedeva a Napoli per ragioni di studio,  con il quale avevano organizzato l’evento.

Prima dell’inizio della partita, come concordato,  “ ‘ se jetteno a fa na’ pizza” in un elegante ristorante che si trovava nelle vicinanze dello stadio.

 

Una volta seduti, Goffredo cominciò a chiedere che tipo di pizza desideravano: Mario “margherita”; mamella “margherita”.

 

-          E tu, Giggì, comme ‘a vuớ?

 

-          Comm’ è – è…Tengo na’ famme ca me magnasse pure ‘e prrete…na’ cosa sulamente: a mme… ‘a muzzarella…. nun me piace!

 

Quando arrivò il cameriere per prendere le ordinazioni, prima che Goffredo parlasse, Gigino precisò:

 

-   Goffré, arricuordete bbuono! A mme…. ‘a mozzarella…. nun me piace!

 

 -   Aggia capito, ca te cride ca sớ scemo? E rivolgendosi al cameriere ordinò: quattro                   

     margherite!

 

Mentre aspettavano le pizze, Goffredo, Mario e Guido ridevano pregustando la scena alla quale da li a poco avrebbero assistito, mentre Gigino ignaro continuava a dire che aveva fame e di tanto in tanto, afferrava il braccio di uno degli amici e diceva:

 

- Tengo na famme ca me magnasse stu’ vraccio!

 

Quando arrivarono le quattro pizze, mentre gli altri tre cominciarono a mangiare sempre ridendo, Gigino affondava la forchetta nella mozzarella e tirava su, riaffondava la forchetta e tirava su e mentre gli altri continuavano a ridere, lui con malcelata calma diceva:

 

- E nun t’’avesse ditto…e t’’aggia ditto pure quanno è arrivato ‘o cameriere…” Goffré…., a   

   mme ‘a muzzarella nun me piace…e chesta che è?

 

-  E i’ nunn’ ‘o sapevo che ‘a margherita è  cu’ ‘a mozzarella…tu fa na cosa…lèvace ‘a

   muzzarella  e  te magne chello ‘e sotto!  

 

E intanto Gigino continuava a filare la mozzarella e guardava  Goffredo, filava la mozzarella e guardava Goffredo, poi con calma sfilò la pizza dal piatto, se la mise in mano e alzandosi con una scatto improvviso esclamò ad alta voce:

 

E i’ invece sa che facesse??  T’’a chiavasse nfaccia!!! E misurò la pizza in faccia a Goffredo, tra le risate generali.

 

Gli fecero portare un’altra pizza.

 

                        

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Molti anni fa, in una stradina di campagna sulla strada che da Telese conduce alla stazione di Solopaca, accadde un famoso episodio di sangue: un Appuntato dei carabinieri ferì a morte un uomo perché trovato in flagranza di reato.

 

Quando si sparse la voce, molti si recarono sul luogo per curiosare e, fra questi, anche Gigino Cappelletti insieme a Goffredo Macolino ed altri.

 

Non c’era molto da vedere perché il corpo dell’uomo era completamente coperto da un lenzuolo, ma tanto bastò a turbare i sonni di Gigino.

 

A quel tempo egli abitava nel casello ferroviario che si trovava non molto distante dal luogo ove avvenne il fatto e giornalmente raggiungeva Telese in bicicletta. Il giorno dopo, con la luce del sole, non ci furono problemi a raggiungere Telese; il problema si pose la sera, anzi per dire meglio la notte, quando dovette fare ritorno a casa.

 

-          E si chillo mentre i’ passo c’’a bicicletta, certamente m’afferra?

 

-          Ma non dicere fessarie, quann’uno è muorto, nun po’ fa cchiù niente. Tu t’’e mettere paura d’’e vivi, no de’ muorte.

 

-          Noh…i’ già ‘o ssaccio…quanno passo llà nnanze, chillo m’afferra.

 

E con questi angosciosi presentimenti, partì alla volta di casa mentre i suoi amici andarono a dormire. Goffredo e Ninuccio Macolino avevano fatto appena in tempo a mettersi a letto, quando videro precipitarsi nella loro stanza Gigino Cappelletti in preda ad una crisi isterica che “ tutto sudato e cu’ ll’uocchie a fòre alluccava:

 

-          M’ha afferrato!!…m’ha afferrato!! Madonna d’o Carmine e che paura!

 

-          Chi t’ha afferrato?

    

-          ‘O muorto m’ha acchiappato mentre camminavo c’’a biciclette…i’ aggia caduto   

-          nterra e me ne vulevo fuje…ma chillo me manteneva e i’ alluccavo: Lassame!...lassame!.

 

-          Ma che cazzo dici?! ‘O muorto ca te mantene, spiegate bbuono.

 

-          Mentre passavo llà nnanze,  m’aggia aizato ncopp’’e pedale a m’aggia mise a correre. All’intrassatte m’aggia sentuto  afferrà e so’ gghiuto nterra cu ‘a bicicletta e chillo me manteneva.

 

Ninuccio e Goffredo lo squadrarono bene e si accorsero che aveva un lembo del soprabito stropicciato e unto del grasso della catena della bicicletta. Il soprabito si era incastrato nella ruota ed aveva provocato la caduta di Gigino.

 

Quella notte dormì lì. Ninuccio e Goffredo “azzeccarono ‘e liette” e Gigino dormì in mezzo a loro.

Nel dormiveglia, di tanto in tanto strillava: Lassame!...lassame…me vuò lassà o no!?

Da quella sera tornò a casa solo ed esclusivamente in treno.

 

 

 

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Un’altra volta Gigino aveva conosciuto una ragazza e la voleva portare a cena. Ma siccome “ stéva sempe disperato”, si rivolse all’amico Tonino ‘e Girardo:

 

-          Tengo na’ guagliona pè mmane e me serveno duemila lire p’’a purtà a magnà na’ pizza;   prestammelle, ca po’ quanno ‘e faccio, t’’e dớngo.

 

-          Técchete ‘e duemila lire, ma senza ca me ddaje…quanno ce ncuntrammo, me pave ‘o        ccafè.

 

Gigino accettò, e commise l’errore più grande della sua vita. Tonino si mise d’accordo con il barista e tutte le volte che arrivava Gigino a prendere il caffè, il barista lo mandava a chiamare e dopo poco arrivava e pronunciava le due storiche frasi:

 

- T’arricuorde chelli duimila lire ca te prestaje?...e pàveme stu ccafè!

 

E dopo aver bevuto, tanto per non infierire:

 

- Tiéne ‘e spicce,  o pave tu?

 

Dopo diversi anni, il teatrino si arricchì di una scenetta supplementare che andava in onda, in pratica, tutte le volte che si incontravano al bar, e alla quale io ho assistito qualche volta:

 

      - T’arricuorde chelli duemila lire ca te prestaje?...e pàveme stu ccafè!

 

E dopo aver bevuto:

 

       - Tiéne ‘e spicce, o pave tu?

 

Gigino abbuttava ncuorpo, po’ antrasatte sbuttava:

 

-          Ma pè quant’anne ancớra t’aggia pavà stu ccafè?  A bòtte ‘e te pavà cafè, chelli duemila lire so’ diventate dduje meliune. Nun te  ll’avesse maje cercate. Cu’ tutti sti’ sòrde, a chest’ora m’avesse fatto nu’ palazzo ‘e  casa.

 

E Tonino rideva!

 

 

 

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Chiunque dei nati negli anni 35/40, ricorderà certamente quelle scenette comiche che improvvisavano Gigino e mio fratello Gino, altro indimenticato protagonista di quegli anni, a volte in mezzo al quadrivio e a volte nelle terme.

 

Quando si incontravano e nei dintorni c’erano dei forestieri, i famosi “bagnanti”, si lanciavano un’occhiata di intesa e poi Gigino dava inizio alle comiche. La cosa andava più o meno così:

 

-          Aggia saputo che vaje runzianno attuớrno a chella guagliona ‘e Foggia. Leva mane ca chella ll’aggia vista primm’i’.

 

-          Ma quanno maje! Ajeressera ha ballato cu’ mme, e cchiù ‘astrignevo e cchiù chella se steva.

         

       -    Nun me fa tuccà ‘a nervatura! Ca po’ tu ‘o ssaje ca si me parte ‘a capa, t’abboff’‘e   

            mazzate e te manno a ricorrere a pàteto.

 

A questo punto le persone cominciavano ad incuriosirsi perché vedevano un giovane piccolo e magro minacciare un altro giovane che fisicamente era “justo ‘o ddoppio”. Cominciavano a spintonarsi e all’improvviso mettevano in opera i famosi schiaffi teatrali: Gigino tirata schiaffi e mio fratello Gino batteva le mani senza farsi vedere. Per chi non conosceva il trucco, sembravano schiaffi veri e quello che accadeva appariva del tutto verosimile anche perché, gli attori in campo, erano di alto livello.

 

A questo punto, mentre  mio fratello cominciava a piangere e minacciava Gigino dicendo

“ mớ che vaco ‘a casa ‘o ddico a papà”, entravano in gioco gli amici che assistevano che fingevano di dividerli  e dicevano:

 

      -    Jammo, perduonalo, ca chillo nun ‘o ffa cchiù; è overo ca nun ‘o ffaje cchiù?

 

-          Sine, nun ‘o faccio cchiù!

 

      -     Allora pè sta’ vota, te perdono!

 

Una volta nelle terme di Telese, tra gli spettatori, c’era una signora chiatta-chiatta che rimase molto contrariata nel vedere che mio fratello le prendeva da uno molto più piccolo di lui. Mentre Gino piangeva lacrime amare, ‘a chiattớna con voce alterata gli disse:

 

-          Ma po’ essere maje ca sì accussì gruosso e te faje vàttere a nu’ franfellicche comm’’a chisto? Mo  si nun ‘a fernesce, ce donco i’ nu’ pare ‘e paccare nfacci’’o musso!

 

Gigino guardo mio fratello ed esclamò:

 

      -     Nuje pazziammo, e ca fernesce ca i’ abbusco overamente.

 

Caro amico, ci hai fatto ridere con la tua innata comicità, ci hai fatto sorridere con il tuo genuino candore, ci hai resi tristi quando sei precipitato in quel buio tunnel dal quale non sei più ritornato. Ma hai vissuto una gioventù alla grande, allegra e spensierata tra l’affetto degli amici, in una Telese che non sarà mai più la stessa. E nel firmamento telesino, sei stato una delle stelle più luminose.

 

Riccardo Affinito.

 

 

Desidero ringraziare mio fratello Gino Affinito da Caserta, Goffredo Macolino da Padova e Tonino Tanzillo e Giovanni Ceniccola da Telese, per la cortese collaborazione.

 

 

     

  Il Cantastorie  Riccardo Affinito


Per intervenire: invia@vivitelese.it