24 novembre 2007
Cerreto, la lezione di Anna
Giovanni Pio Marenna - da "La voce del Silenzio"

 

 

POLITKOVSKAYA, UN ANNO DOPO

 

Anna, un anno dopo. L’esempio intrepido e il ricordo indelebile della giornalista russa Anna Politkovskaya, ammazzata un anno fa davanti casa sua mentre stava scoperchiando il pentolone delle torture dei soldati russi, comandati dall’attuale presidente ceceno Kadyrov, uomo fidato di Putin, sui civili ceceni è servito da trampolino per l’avvento di altri? In teoria sì, in pratica non proprio. In teoria chi, all’epoca, da tutto il mondo non espresse cordoglio e solidarietà, magari auspicando che ci vogliono più giornalisti come lei? In pratica chi ha seguito il suo esempio? Qualcuno, anche in Italia, sicuramente sì.

Ma sono sempre pochi, troppo pochi i giornalisti che, con schiena e penna dritta, svolgono seriamente il proprio lavoro. Pochi i giornalisti che hanno voglia di imitare Anna e quelli che come lei hanno subito minacce e rischiato la vita pur di raccontare la realtà che ci circonda, pur di ripristinare la verità. Qualche buona inchiesta, ogni tanto, viene fuori. Merito di coraggiosi giornalisti ed intuitivi direttori. Ma questa è solo una larga minoranza. Non solo. Spesso quei pochi sono banditi e additati come un cancro da estirpare. Proprio perché il loro inchiostro dà fastidio.

L’inchiostro di Anna creava talmente problemi, dava così ai nervi che l’hanno bloccato con il sangue. Quel sangue rafforza il ruolo preminente del giornalista, indicando a tutti gli addetti ai lavori una strada. Fare i giornalisti significa soprattutto essere delle voci scomode, fuori dal coro. Significa dare fastidio a quei poteri forti che perseguono la via delle illegalità. Significa denunciare le istituzioni che non assumono comportamenti trasparenti, anche a costo di essere minacciati e della stessa vita.

L'omicidio della giornalista richiamò l'opinione pubblica internazionale sulla libertà di stampa in Russia, dove le voci critiche della carta stampata sono costrette a tacere, dove la maggior parte dei media è sotto il controllo dello Stato. Nel mondo i giornalisti uccisi perché svolgono il loro dovere sono, purtroppo, ancora tanti. Non che per essere bravi e valenti giornalisti, bisogna per forza essere assassinati. Non che per essere ritenuti capaci, bisogna per forza passare prima a miglior vita via proiettile. Però bisogna anche dimostrare di esserlo.

Rispetto alla Russia, dove la libertà d’informazione raggiunge livelli piuttosto scarsi, in Italia dovremmo sulla carta essere messi meglio. Solo sulla carta, però. Non sempre quella stampata, che accoglie dentro di sé anche un buon numero di giornalisti compiacenti, a servizio di questo o di quello. Rispetto alla Russia, abbiamo sicuramente molta più libertà. Ma non totale informazione perché non viene sempre sfruttata correttamente quella libertà che si ha. Sono pochi, infatti, coloro che aprono armadi pieni di scheletri, che decidono di vederci chiaro su certe faccende. Inoltre la stessa categoria giornalistica italiana, spesso, si copre di ridicolo.

Preferendo usare il termine scandalo più quando si parla di Paris Hilton che di Callisto Tanzi (attendendo, nel frattempo, ancora di capire cosa ci sia di scandaloso in un filmino hard rispetto ai miliardi truffati ai risparmiatori dall’ex patron della Parmalat); preferendo parlare in tutte le salse più della Spears senza mutande che non di Lirio Abbate, un giornalista di Palermo sotto scorta perché minacciato dalla mafia per aver scritto il libro “I complici” con Peter Gomez (che, giustamente, per i più è un perfetto sconosciuto perché raramente nominato in giornali e telegiornali); preferendo ricostruire nel dettaglio più le giornate di Corona dentro e fuori dal carcere piuttosto che quelle di pluriomicidi ed ex brigatisti che, rimessi in libertà dall’indulto, tornano a commettere crimini (dando più importanza al primo, per amore del dio audience, che ai secondi, per paura di mettere troppo il dito nella piaga di quel provvedimento politico). Sono questi tre semplici esempi, gli indicatori del termometro dell’informazione nostrana. Che in media, a quanto pare, è parecchio febbricitante.

Come spesso accade, la situazione è grave, ma non seria. Tutti hanno elogiato la Politkovskaya, pochissimi ne hanno imitato l’esempio. Un esempio sull'importanza della verità e del coraggio nel giornalismo. Con i suoi reportage sugli orrori della guerra in Cecenia e sugli abusi compiuti dalle truppe federali, Anna ci ha dato una lezione di vita sull’amore per la giustizia e la libertà d’informazione. Ma ridurre solo noi giornalisti a destinatari di questa lezione, significherebbe sminuire il suo sacrificio e la sua dedizione per quella che lei riteneva essere una missione. Anna e quelli come lei devono essere di esempio non solo per i giornalisti, ma per tutti. Perché insegnano che per cambiare le cose, non basta solo parlare e lamentarsi. Serve a poco. Occorre, invece, agire. Ognuno secondo le proprie competenze e capacità. Se ci si lagna solamente, non cambierà mai niente. Proprio chi crede che le cose possono e devono cambiare, invece, deve per primo fare tutto il possibile per cambiarle in meglio. Iniziando con il denunciare e contrastare quelle che, in quel momento, rappresentano il peggio.

 

Giovanni Pio Marenna

 

     

 Valle Telesina


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