POLITKOVSKAYA, UN ANNO DOPO
Anna, un anno dopo. L’esempio intrepido e il
ricordo indelebile della giornalista russa Anna
Politkovskaya, ammazzata un anno fa davanti casa
sua mentre stava scoperchiando il pentolone
delle torture dei soldati russi, comandati dall’attuale
presidente ceceno Kadyrov,
uomo fidato di Putin, sui civili
ceceni è servito da trampolino per l’avvento di
altri? In teoria sì, in pratica non
proprio. In teoria chi, all’epoca, da tutto il
mondo non espresse cordoglio e solidarietà,
magari auspicando che ci vogliono più
giornalisti come lei? In pratica chi ha seguito
il suo esempio? Qualcuno, anche in Italia,
sicuramente sì.
Ma
sono sempre pochi, troppo pochi i giornalisti
che, con schiena e penna dritta, svolgono
seriamente il proprio lavoro. Pochi i
giornalisti che hanno voglia di imitare Anna e
quelli che come lei hanno subito minacce e
rischiato la vita pur di raccontare la realtà
che ci circonda, pur di ripristinare la
verità. Qualche buona inchiesta, ogni tanto,
viene fuori. Merito di coraggiosi giornalisti ed
intuitivi direttori. Ma questa è solo una larga
minoranza. Non solo. Spesso quei pochi sono
banditi e additati come un cancro da estirpare.
Proprio perché il loro inchiostro dà fastidio.
L’inchiostro di Anna creava talmente problemi,
dava così ai nervi che l’hanno bloccato con il
sangue. Quel sangue rafforza il ruolo preminente
del giornalista, indicando a tutti gli addetti
ai lavori una strada. Fare i giornalisti
significa soprattutto essere delle voci scomode,
fuori dal coro. Significa dare fastidio a quei
poteri forti che perseguono la via delle
illegalità. Significa denunciare le istituzioni
che non assumono comportamenti trasparenti,
anche a costo di essere minacciati e della
stessa vita.
L'omicidio della giornalista richiamò l'opinione
pubblica internazionale sulla libertà di stampa
in Russia, dove le voci critiche della carta
stampata sono costrette a tacere, dove la
maggior parte dei media è sotto il controllo
dello Stato. Nel mondo i giornalisti uccisi
perché svolgono il loro dovere sono, purtroppo,
ancora tanti. Non che per essere bravi e valenti
giornalisti, bisogna per forza essere
assassinati. Non che per essere ritenuti capaci,
bisogna per forza passare prima a miglior vita
via proiettile. Però bisogna anche dimostrare di
esserlo.
Rispetto alla Russia, dove la libertà
d’informazione raggiunge livelli piuttosto
scarsi, in Italia dovremmo sulla carta essere
messi meglio. Solo sulla carta, però. Non sempre
quella stampata, che accoglie dentro di sé anche
un buon numero di giornalisti compiacenti, a
servizio di questo o di quello. Rispetto alla
Russia, abbiamo sicuramente molta più libertà.
Ma non totale informazione perché non viene
sempre sfruttata correttamente quella libertà
che si ha. Sono pochi, infatti, coloro che
aprono armadi pieni di scheletri, che decidono
di vederci chiaro su certe faccende. Inoltre la
stessa categoria giornalistica italiana, spesso,
si copre di ridicolo.
Preferendo usare il termine scandalo più quando
si parla di Paris Hilton che di Callisto Tanzi
(attendendo, nel frattempo, ancora di capire
cosa ci sia di scandaloso in un filmino hard
rispetto ai miliardi truffati ai risparmiatori
dall’ex patron della Parmalat); preferendo
parlare in tutte le salse più della Spears senza
mutande che non di Lirio Abbate, un giornalista
di Palermo sotto scorta perché minacciato dalla
mafia per aver scritto il libro “I complici” con
Peter Gomez (che, giustamente, per i più è un
perfetto sconosciuto perché raramente nominato
in giornali e telegiornali); preferendo
ricostruire nel dettaglio più le giornate di
Corona dentro e fuori dal carcere piuttosto che
quelle di pluriomicidi ed ex brigatisti che,
rimessi in libertà dall’indulto, tornano a
commettere crimini (dando più importanza al
primo, per amore del dio audience, che ai
secondi, per paura di mettere troppo il dito
nella piaga di quel provvedimento politico).
Sono questi tre semplici esempi, gli indicatori
del termometro dell’informazione nostrana. Che
in media, a quanto pare, è parecchio
febbricitante.
Come spesso accade, la situazione è grave, ma
non seria. Tutti hanno elogiato la Politkovskaya,
pochissimi ne hanno imitato l’esempio. Un
esempio sull'importanza della verità e del
coraggio nel giornalismo. Con i suoi reportage
sugli orrori della guerra in Cecenia e sugli
abusi compiuti dalle truppe federali, Anna ci ha
dato una lezione di vita sull’amore per la
giustizia e la libertà d’informazione. Ma
ridurre solo noi giornalisti a destinatari di
questa lezione, significherebbe sminuire il suo
sacrificio e la sua dedizione per quella che lei
riteneva essere una missione. Anna e quelli come
lei devono essere di esempio non solo per i
giornalisti, ma per tutti. Perché insegnano che
per cambiare le cose, non basta solo parlare e
lamentarsi. Serve a poco. Occorre, invece,
agire. Ognuno secondo le proprie competenze e
capacità. Se ci si lagna solamente, non cambierà
mai niente. Proprio chi crede che le cose
possono e devono cambiare, invece, deve per
primo fare tutto il possibile per cambiarle in
meglio. Iniziando con il denunciare e
contrastare quelle che, in quel momento,
rappresentano il peggio.
Giovanni Pio Marenna
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