Intervento riferito a: Campania, aumenti ai politici: altro che casta

 

 

13 dicembre 2007
Campania: classe dirigente inadeguata
Gianluca Aceto

 

 

 

Caro Ezio,

ti scrivo un po' di giorni dopo il tuo intervento sulla casta campana, non per disattenzione ma per impegni fagocitanti. Spero di poter dare un contributo utile, anche se un po' lungo.

La nostra regione ha una classe dirigente inadeguata. Non che manchino le risorse per fare le cose: la programmazione europea ne mette a disposizione abbastanza, almeno fino al 2013. C'è dell'altro. Mancano idee qualificate, e soprattutto manca la capacità di metterle in pratica senza necessariamente costruire, per questo, la rete di clientele e di interessi che la politica si porta appresso, e che diviene talmente esorbitante da surrogarla del tutto.

Eppure la nostra regione, a cominciare da Napoli, potrebbe fare tanto, sull'idea di un Mediterraneo di pace e cultura, di dialogo e di sviluppo autocentrato, che non riproduca i guasti di un'industrializzazione forzata, peraltro oggi improponibile anche per il mutato quadro economico e istituzionale. Invece non riusciamo nemmeno a capirci fra noi campani: la metafora della polpa e dell'osso, introdotta alcuni decenni fa dall'economista Manlio Rossi Doria, non dice nulla ai conterranei napoletani, che ancora oggi amministrano la regione come se finisse alle porte di Napoli. Si tratta di aree diverse: diversa è la storia, diversi i popoli, le dimensioni, le necessità, le aspirazioni.

Quando poi qualcuno dei rappresentanti politici sembra intraprendere la strada giusta   - fatta di ricerca, innovazione tecnologica, sostenibilità ambientale, qualità dello sviluppo - ecco che ti ritrovi con un decisionismo autoritario incomprensibile, sotto al quale si cela la medesima incapacità di dare concretezza e consequenzialità al predicato. Il caso del liceo di Telese è emblematico.

L'aumento delle indennità che tu ci hai fatto notare è solo l'ultima - in ordine di tempo - delle crepe che si sono aperte nell'assetto democratico. Ciò che indigna è che tutto questo si perpreti mentre un vasto movimento di opinione, non scevro di qualunquismo e antipolitica, chiede esattamente il contrario, tanto è vero che il legislatore nazionale non può fare a meno di intervenire con il taglio dei costi della politica. Misure insufficienti, per carità, introdotte quasi per costrizione, ma che perlomeno assumono il senso di rigurgito che le istituzioni e certa politica stanno inducendo nel Paese.

Come può accadere tutto questo? Scusa la scarsa originalità, ma ancora una volta bisogna richiamare il caso dei rifiuti, che ci fa ha fatto balzare ai disonori della cronaca mondiale. E se parlo di rifiuti - questa è la novità - dobbiamo intendere anche energia, come abbiamo ben imparato dalla vicenda delle dannate centrali a biomasse previste a San Salvatore e Reino, ma come dobbiamo altrettanto imparare dallo stoccaggio delle balle previsto a Morcone (forse scongiurato).

Schematizzando, io la penso così. Dopo la caduta del muro di Berlino una parte della sinistra, incapace da decenni di leggere i processi in corso, ha visto nel libero mercato il nuovo sol del nuovo avvenire. Talmente era grave il suo ritardo di analisi che nemmeno si accorgeva che la "mano invisibile" del mercato non esisteva, né era mai esistita. Poi però il gioco ha incominciato a piacere, a questi neofiti, che ci si sono buttati a capofitto. Non tutti erano in malafede. Alcuni guardavano alla fine del mondo bipolare come se si fosse trattato della fine della storia, e questo mentre l'indignazione popolare  (anche allora!) portava sugli scudi l'elezione diretta di sindaci e presidenti di regione e provincia, da un lato, e il sistema maggioritario, dall'altro.

Ti ricordi le argomentazioni? Ci parlavano della necessaria semplificazione del sistema, ci dicevano che troppi partiti e partitini costituivano un ostacolo alla democrazia rappresentativa ed un freno allo sviluppo del paese, etc. etc. etc. Perdinci: le stesse cose che dicono oggi che vogliono ritornare al proporzionale! Sia chiaro: ero per il proporzionale allora e lo sono oggi (con le opportune correzioni per garantire la necessaria chiarezza politica e la stabilità istituzionale). Proprio per questo non mi convincono quelli che mi accusavano di passatismo quindici anni fa. Sbagliavano clamorosamente allora, sbagliano tragicamente oggi: la democrazia non è solo un fatto procedurale. Non basta una legge elettorale a cambiarne la qualità.

Il nuovo assetto istituzionale, l'investitura diretta, dava la legittimazione popolare alla singola persona rispetto ad un sistema partitocratrico malato e corrotto (sia detto sottovoce: da Tangentopoli abbiamo ereditato anche il Di Petro politico). La fine del socialismo reale, e dunque la vittoria del paradigma occidentale, suggeriva la strada della "razionalizzazione", dell'efficienza, del decisionismo: più mercato e meno stato, per usare uno slogan semplificatorio.

Quelli in buona fede a tutto questo ci credevano davvero, ritenendo che i mali del Paese fossero esclusivamente nell'eccessiva presenza dell'attore pubblico nella vita economica. Di qui le liberalizzazioni e le privatizzazioni. Si è così insinuata l'idea che si dovesse assecondare un processo necessario, ineludibile, considerato quasi un fatto "naturale".

Torniamo alla Campania. Ad un certo punto della storia, ai neoliberali di sinistra è parso di trovare la soluzione ideale. A mano a mano che il pubblico si ritirava dall'economia, dismettendo investimenti e "capitale umano" (operai, quadri, ricercatori), lo spazio lasciato libero veniva occupato da soggetti privati, magari con capitale misto. Fioccavano così consulenze, società e agenzie che avrebbero dato - secondo i neofiti - efficienza al sistema, liberandolo dai vincoli e dalla burocrazia elefantiaca del pubblico.

In più, come manna dal cielo, la nuova legislazione in tema di mercato del lavoro avrebbe messo a disposizione uno strumento formidabile: attraverso le agenzie interinali i soggetti pubblici (comuni, province, regioni e quant'altro) potevano aggirare il vincolo costituzionale del concorso per le assunzioni, introducendo di fatto la chiamata diretta di parenti, accoliti, clientes. Le cose non cambiano di molto se guardiamo ai contratti a tempo determinato. Alla fine, nel bando per il concorso a tempo indeterminato, i giorni (cioè gli anni) di servizio prestati attraverso la "chiamata diretta" daranno diritto ad un punteggio di partenza talmente alto da garantire la vittoria - guarda caso - proprio agli ex interinali.

In questo quadro, ogni discorso meritocratico, ogni tentativo di qualificare la pubblica amministrazione, ogni aspirazione ad un minimo di giustizia va a farsi benedire.

In breve: la politica, ritraendosi, dimostrava la sua intrinseca debolezza, alla quale rispondeva non con uno scatto in avanti (analisi autocritica e proposta di rilancio) ma con la clientelizzazione più sfacciata. Una pratica, questa, dal fiato cortissimo. Non che in passato il fenomeno non si fosse presentato. Esso, tuttavia, si sviluppava in un contesto in cui anche i partiti che erano al governo (per esempio la DC) serbavano una certa visione delle istituzioni, considerate cose distinte dagli stessi apparati di partito. C'era una dialettica, si sarebbe detto un tempo, un equilibrio difficile su cui si è tenuto il gioco democratico repubblicano.

La responsabilità maggiore è della sinistra, che ha scelto di seguire l'avversario sul suo terreno e ha ceduto le armi senza nemmeno combattere.

Il caso dei rifiuti in Campania ci parla esattamente di questo. Il decisore politico appaltò tutto il sistema dei rifiuti all'impresa privata, sostanzialmente la Fiat e l'Impregilo (attraverso le due società FIBE e FISIA), a cui diede la facoltà di stabilire tutte le modalità del gioco. La partita è così sintetizzabile:

·   io ti metto in mano qualcosa come 10.000 (diecimila) miliardi di lire per gestire la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti in Campania (la cifra è superiore a quella prevista per il famigerato ponte sullo Stretto di Messina, per fortuna abbandonato);

·   io ti delego a prendere tutte le decisioni in merito (modalità e sistema di raccolta e smaltimento, tecnologia, localizzazione delle aree su cui sistemare gli impianti);

·   tu mi togli tutti i pensieri, compresa la rogna del dissenso della popolazione, considerata, in quest'ottica, un conglomerato di trogloditi a cui imporre la nuova via;

·   in cambio io ti suggerisco come e dove indirizzare le ingenti risorse, e magari chi assumere o a chi dare consulenze.

I risultati li consociamo tutti, per cui non mi dilungo. Due miliardi di euro è la cifra già spesa per produrre il disastro di questi anni, per unire il peggio del privato e il peggio del pubblico in un connubio pressoché perfetto.

Non si tratta di corruttela e illegalità, che pure ci saranno ma spetta alla magistratura indagarle (senza nemmeno aprire il tema della criminalità organizzata che anche sui rifiuti costruisce il suo impero). Cerco di guardare al fondo delle cose, nel grumo di un processo che è maturato in questi ultimi anni, per capirne le cause. Poi magari sbaglio.

Il nostro Paese, anche al di fuori dei confini regionali, non va bene. Le famiglie faticano e i giovani hanno poche certezze per il futuro. Alcuni elementi sono impressionanti: i salari e gli stipendi che valgono 1.900 euro in meno di cinque anni fa, sono i più miserevoli dell'ex UE 15; gli ulteriori rincari già annunciati; la povertà relativa che colpisce quasi 13 milioni di persone; la precarietà del lavoro e delle vite, per giovani che spesso non possono spendere utilmente il titolo di studio e avranno una pensione da fame; il dramma della casa; il pericolo del razzismo.

E poi il nostro Mezzogiorno. In dieci anni 800.000 giovani, soprattutto laureati e diplomati, sono emigrati. Le migliori e più formate intelligenze vanno altrove, spoliando ulteriormente le nostre terre di speranza e di futuro. Quelli che rimangono, anche col titolo di studio, spesso non sono in grado di leggere e far di conto. Non lo dico io ma i rapporti PISA dell'Unione europea.

In questa macelleria sociale, l'accordo tra il Governo e le parti sociali, tra cui i sindacati, prevede l'ulteriore taglio delle pensioni e altri due miliardi di sgravi contributivi per le grandi imprese. Lo chiamano, per tragica ironia terminologico-politica, «Protocollo welfare». È vero, ci sono anche alcune cose buone, ma è poca roba rispetto alla linea di direzione. E parlano ancora delle pensioni come se fosse un problema reale, senza dire che l'INPS ha i conti in attivo, che sui soldi messi da parte dai lavoratori e dalle lavoratrici per la pensione grava una parte considerevole di assistenza sociale (caso unico in Europa), che la famosa "gobba" prevista per il 2033 probabilmente sarà un foruncolo. Senza dire che ogni anno il fondo pensionistico dei dirigenti perde un miliardo e duecento milioni di euro: insomma, i contributi dei lavoratori "normali", dipendenti e autonomi, pagano le pensioni ai ricchi. Che vergogna.

A volte bisogna fare i nomi, che non sono "puri accidenti", come voleva il buon Manzoni. Prima di tutti ci metto quello di Lamberto Dini, uno che non esita a passare da uno schieramento all'altro in cambio di una poltrona giusto un po' più grande. Chissà tra quanto tempo succederà di nuovo? Nel 1994 era ministro delle Finanze del primo governo Berlusconi, che durò pochi mesi. L'otto agosto del 1995, Dini, da Presidente del Consiglio sostenuto da una maggioranza diversa, varò la draconiana legge 335, la cosiddetta riforma delle pensioni, con l'unico obiettivo di tagliarle.

Lamberto Dini percepisce due pensioni, una dell'INPS (13 mensilità da circa settemila euro) e una della Banca d’Italia (13 mensilità da circa ventimila euro). In tutto, il solo reddito da pensioni si aggira sui 400 mila euro all'anno, a cui vanno poi aggiunte le rendite derivanti dagli incarichi politici (ministro degli esteri e poi parlamentare). Un senatore come lui, oggi, porta a casa circa 21 mila euro lordi al mese. Non oso immaginare quale sia stata la sua buonuscita da direttore della Banca d'Italia. Sono in grado di dire, tuttavia, che entrambe le domande di pensionamento, avanzate nel maggio e nel giugno del 1994, quando era ministro della finanze, gli furono accolte nel giro di poche ore.

Per fare un confronto, ricordo che Carlo Azeglio Ciampi, poi divenuto Presidente della Repubblica, dopo essere andato in pensione da direttore generale della Banca d'Italia, ha rifiutato prima l'appannaggio di governatore (nonché un benefit rilevante, come la sontuosa residenza in cui invece si precipitò Lamberto Dini) e poi lo stipendio di premier e ministro.

Lamberto Dini è ancora tra noi, a imperversare contro precari e pensionati: monumento assoluto a quest'inizio di millennio.

 

In ultimo, ancora un'amara considerazione. Solitamente la politica è espressione della società, almeno nelle democrazie. Per questo l'antipolitica e il qualunquismo sono pericolosi: sbagliando l'analisi, l'uno e l'altra si condannano a risposte fuorvianti, prendendo vie malferme che non si sa dove conducano. Non pochi di coloro che oggi hanno la bava alla bocca, in fondo, invidiano quello che "non sa fare la 'O' col bicchiere" ma è riuscito ad arrivare ad un incarico politico, alla presidenza di un ente strumentale, o magari sta facendo il galoppino per il potente di turno aspettando che dall'alto cadano le briciole. Parecchi invocano diritti ma si acconciano sul privilegio, qualora siano essi a beneficiarne.

Caro Ezio, quante e quanti, a Telese - la nostra Telese - alle prossime elezioni si manifesteranno come autentici attori della politica e negheranno il loro voto all'ing. Giuseppe D'Occhio e ai suoi fedeli alleati? Quante e quanti, tra quelli che dicevano e dicono di non poterne più, eserciteranno il diritto alla libertà che il sangue di tanti morti oggi garantisce a noi tutti e chiuderanno con un presente da spettatori passivi? Quante e quanti, sottraendosi alla vischiosità collosa del presente, cercheranno davvero di portare un pezzetto di futuro sulle proprie spalle? Io non provo nemmeno ad abbozzare una risposta.

Non spetta alla destra cambiare il mondo, la sua missione è di gestirlo. Una buona destra è quella che lo gestisce nel modo migliore. Ma se giro la testa a 360 gradi di amministratori saggi non ne vedo.

A cambiare il mondo deve provarci la sinistra, e non quella neoliberale, che sta studiando da amministratrice di condominio ma arriva con un secolo di ritardo. Però si impegna duramente e presto recupererà: intanto è già "democratica".

Cambiare il mondo è un compito spetta a chi crede che la storia non sia tutta qui, e che non si tratti di prendere con le armi il Palazzo d'inverno. È compito di quelle e quelli a cui non basta di dire «io non ero ancora nato» per sottrarsi al peso di un cammino che voleva essere di liberazione e si è spesso volto in tragedia. Certi rassicuranti argomentazioni le lascio a Gianfranco Fini che si scosta dal Fascismo con tale nonchalance.

Il compito è durissimo. Mi piace pensare che nella densa piattezza del presente si aprano, di tanto in tanto, degli interstizi, delle segnature, forse solo dei graffi. È da lì che bisogna partire perché i solchi si aprano e si arrivi alle profondità. Mi verrebbe da dire che occorre lo scavo della vecchia talpa, un animale paziente che ha camminato il cammino del Novecento e ora annusa l'aria in cerca della nuova strada.

 

Un caro e forte abbraccio,

Gianluca.

 

13 dicembre 2007

 

 

 

     

 Valle Telesina


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