BREVI NOTE SU: “ARCHITETTURE
E CITTA’. Antologia meridionale:Calabria e
Campania” , di Gregorio E. Rubino
Il Prof. Arch. Gregorio E.
Rubino insegna Storia dell’Architettura presso
l’Università degli studi “Federico II”, e
Archeologia industriale presso l’Università
degli studi “Suor Orsola Benincasa”. Ha scritto
tantissimo. Ed ha anche ricevuto premi. Premio
di altra natura ha voluto dare prima a me,
regalandomi la sua amicizia e la sua stima, e
poi a Cerreto, dedicando alla nostra “città
pensata” tanto spazio prima su Repubblica
(4/10/2007), poi nell’ultima sua fatica
letteraria: “ARCHITETTURE E CITTA’. Antologia
meridionale:Calabria e Campania” Giannini
editore.
”…Se
anche servisse, il mio modesto
intervento, a rilanciare il dibattito
interno sulla conservazione della
memoria ed il rispetto delle
preesistenze, sarebbe comunque un fatto
positivo e personalmente mi sentirei già
soddisfatto e ripagato…”
così mi scriveva,
meno di un anno fa, dopo essere stato
ospite nella nostra splendida città che
voleva conoscere
“…Sagre,
canzonette, notti bianche e caleidoscopi
sono ormai dappertutto
ed il "gioioso" atteggiamento di
modernizzazione è arrivato ad inficiare
anche i restauri importanti…. Quando la
politica diventa spettacolo c'è poco da
fare, quanto poi tutto questo sia
giustificato, lo ignoro. In Italia, per
ragioni storiche, borghesia o meno, a
farne le spese è soprattutto il
Mezzogiorno… Cerreto, per me una
scoperta, è allo studio. Avrei
intenzione infatti di arrivare ad una
monografia che copra i miei interessi
(architettura e archeologia industriale)
e non tutto mi è chiaro. Fra l'altro,
vorrei vedere i resti delle gualchiere
ed anche visitare i dintorni. Se un
torto hanno avuto gli storici cerretesi
è stato quello di pescare tutti nello
stesso mare e se uno va a tonni, mi
lasci dire, solo i tonni prende…”
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In particolare alcuni
concetti sono da estrapolare dalla sua opera:
due perché sono a me cari : l’influenza dei
Gesuiti sulla educazione dei Carafa e quindi
sulla ricostruzione di Cerreto prima, dei paesi
della Val di Noto poi, e la particolarità del
nostro barocco, estremamente legato al
territorio; l’altro che, riprendendo le
considerazioni del caro amico nonché bravissimo
architetto Nicola Ciaburri, definisce Cerreto
“città fabbrica”. Accenniamoli un po’.
I Gesuiti, il trionfante
ordine che dal 500 affiancava la Santa Sede
nelle corti cattoliche europee e nei paesi
d’Oltremare con la sua penetrante opera di
educazione delle menti e delle coscienze
dell’epoca, entrarono infatti sia nella
educazione di Marzio Carafa, sia nella
ricostruzione di Noto e Grammichele. Il
ricostruttore di Cerreto Marzio Carafa viene dal
ramo dei Carafa della Stadera, e il suo bisnonno
fu Diomede IV (morto l’ 8-3-1572), fratello di
Papa Paolo IV, e fu cugino di Vincenzo Carafa,
settimo generale della Compagnia di Gesù
(Gesuita dal 1604, fu generale dal 1646).
Noto fu ricostruita a partire
dal 1693, cinque anni dopo Cerreto, con tanti
punti in comune con l’urbanistica sannita,
mentre Grammichele, la città “stellare”, voluta
da un altro Carafa, il principe Carlo Maria, fu
disegnata dal frate-architetto Michele da Ferla,
gesuita. Il barocco dell’architettura cerretese,
infine, è estremamente diverso da quello
siciliano, io lo definisco “dialettale”,
intendendo con questa espressione uno stile che
si è adattato alla cultura, ai materiali, alla
memoria della Cerreto medievale appena distrutta
dal sisma del 5.6.1688.
Un barocco che risente, e
tanto, della diversità della pietra utilizzata:
molto duro il nostro brecciato, multicolore, ad
effetto “mortadella” , da non confondere con
l’onnipresente, bianco perlato, pietra estranea
alla nostra cultura ed introdotta “inopinatamente”
nei nostri restauri. La nostra pietra è molto
meno lavorabile del più tenero calcare di
Noto, di colore uniforme giallo-oro,
correttamente ancora utilizzato nei lavori di
recupero della città, patrimonio mondiale
dell’Unesco. (essa si, noi no!). Ma vediamo
qualche passo dell’ottimo lavoro del Prof.
Rubino:…
Non si può escludere
che la rinascita della Val di Noto ed in
particolare di Grammichele, feudo di
Carlo Maria Carafa, Principe di Butera e
di Roccella - vista la stretta
frequentazione dei Carafa fra di loro -
abbia attinto in qualche misura
all'esempio di Cerreto, per poi
indirizzarsi verso schemi idealizzati,
mentre circa un secolo dopo, alla luce
delle note teorie di Rousseau, il tema
del "contratto sociale" ricompare nella
ricostruzione della Filadelfia calabrese
e quello sul "primitivismo" nell'utopia
della Colonia di San Leucio. Ma
l'originalità di Cerreto - che ne fa una
città di fondazione di singolare
interesse nel panorama europeo - fu
l'esatta negazione di tutto questo.
Il suo fu un impianto urbano
ispirato al pragmatismo e con un occhio
attento alle necessità materiali di una
città fabbrica che intendeva rigenerarsi
nel rispetto della tradizione e senza
nulla concedere alle mode
intellettualistiche, se non sul piano
degli adeguamenti tecnici: dalla cautela
sismica (vedi Billy Nuzzolillo: Cerreto
Sannita: un modello di ricostruzione
post-sismica.), al risanamento igienico,
alla pratica edilizia. Né mancò il
rinnovo del macchinismo, dal recupero
delle gualchiere alla nuova Tinta -
anch'essa verosimilmente opera di Giovan
Battista Manni, allora particolarmente
attivo nel rifacimento delle fabbriche
feudali - mentre nella pianificazione
del lavoro dei lapicidi già si avverte
la rivoluzione incipiente dei modi di
produzione.
L'opificio della
Tinta, unico del suo genere nel nostro
mezzogiorno, rinacque poco distante al
mulino feudale e dunque ai piedi della
catena delle gualchiere, un posto
obbligato per la massima disponibilità
di acqua e snodo importante di traffico.
Oggi si presenta su pianta rettangolare
a corte e limitato al solo piano
terraneo, con ambienti a volta, murature
di pietrame a vista, ma niente possiam
dire sull'organizzazione degli spazi
lavorativi, in assenza di una
prospezione specialistica sulle
canalizzazioni idrauliche (ancora
esistenti? saranno recuperate?).
Com'è naturale per una
struttura di vecchio regime, i caratteri
della città-fabbrica sono leggibili solo
in trasparenza; I pascoli sono lontani,
i mulini, le forge e le gualchiere sui
torrenti, la Tinta al di fuori della
composizione urbana, le officine ed i
telai in casa. La mimesi è totale perché
la macchina produttiva è la città
stessa, con i suoi riti quotidiani e le
sue feste di precetto… . Una città che
fabbrica tessuti (altro che civiltà
contadina!) ma sempre e comunque legata
alla terra, da cui trae la sua linfa
vitale e nella quale ogni volta, dopo
ogni disastro, trova la forza per
rigenerarsi e ricominciare. Di lì a
poco, la rivoluzione industriale metterà
fine a tutto questo.. .
A fine
Seicento, in definitiva, considerata la
perdita di peso delle motivazioni
militari e la posizione geografica
marginale rispetto alle grandi strategie
territoriali, il nuovo disegno urbano di
Cerreto appare essenzialmente improntato
alla difesa del potere economico e
culturale delle classi mercantili ed
imprenditoriali ed alla necessità di
evitare ingerenze esterne in grado dì
nuocere o vanificare l'impresa
manifatturiera, confermando nel contempo
le vecchie abitudini e la volontà della
borghesia locale di evitare soluzioni
spaziali di marcata differenziazione
classista.
Una grande piazza
attrezzata, dove tenere le fiere annuali
dei tessuti, sarà l'unico segno visibile
della città-fabbrica, mentre la
scacchiera urbana si adeguerà
razionalmente ai canoni classici, senza
tuttavia perdere le connotazioni
democratiche della città medievale.
…Come tutti i vecchi opifici, mai
evoluti alla civiltà delle macchine,
Cerreto conserva intatte e sue tracce
originali, in parte misconosciute dalle
stratificazioni della modernità,
caratterizzate da totale assenza di
gusto, ma sostanzialmente immuni da
significative contaminazioni.
Dall'alto del Monte Sant'Angelo, quasi
una sfinge italica, l'imponente "murgia"
della Leonessa di Cerreto - inizio della
via pastorale che si saldava al tratturo
regio - custodisce nel proprio eremo la
memoria ancestrale dei luoghi e volge
attenta lo sguardo sul fondovalle
telesino e sui monti circostanti, un
tempo dominati da rocche sannitiche, in
una eccezionale tavolozza paesaggistica
fatta di pascoli e tratturi, campagne e
città`, mentre il tempo scorre a ritroso
e la mente scruta la folla degli armenti
e le legioni in movimento.
Oggi,
in tempi di mondializzazione e di crisi
esistenziale, sia la città che il
territorio agropastorale del Matese,
così densi di storia, natura e lasciti
antropologici, potrebbero facilmente
ridisegnarsi in un significativo
ecomuseo delle arti e della memoria
(qualcuno si ricorda della mia proposta
di Museo diffuso della civiltà cerretese?),
sostituendo l'impresa manifatturiera col
capitale sociale, la pratica artigiana
con l'industria turistica e culturale,
secondo quell'indirizzo di promozione e
conservazione delle due culture, che
ormai è parte significativa delle nostre
leggi di tutela. Più in astratto in un
luogo di cult, una sorta di itinerario
proustiano alla ricerca del tempo
perduto. Insomma, quasi un
pellegrinaggio a Czestochowa! |
Arch. Lorenzo Morone
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