4 dicembre 2008
Cerreto, Morone: cenni su "architettura e città"
Lorenzo Morone

 

 

BREVI NOTE SU: “ARCHITETTURE E CITTA’. Antologia meridionale:Calabria e Campania” , di Gregorio E. Rubino  

Il Prof. Arch. Gregorio E. Rubino insegna Storia dell’Architettura presso l’Università degli studi “Federico II”, e Archeologia industriale presso l’Università degli studi “Suor Orsola Benincasa”. Ha scritto tantissimo. Ed ha anche ricevuto premi. Premio di altra natura ha voluto dare prima a me, regalandomi la sua amicizia e la sua stima, e poi a Cerreto, dedicando alla nostra “città pensata” tanto spazio prima su Repubblica (4/10/2007), poi nell’ultima sua fatica letteraria: “ARCHITETTURE E CITTA’. Antologia meridionale:Calabria e Campania” Giannini editore.

…Se anche servisse, il mio modesto intervento, a rilanciare il dibattito interno sulla conservazione della memoria ed il rispetto delle preesistenze, sarebbe comunque un fatto positivo e personalmente mi sentirei già soddisfatto e ripagato…” così mi scriveva, meno di un anno fa, dopo essere stato ospite nella nostra splendida città che voleva conoscere Sagre, canzonette, notti bianche e caleidoscopi sono ormai dappertutto ed il "gioioso" atteggiamento di modernizzazione è arrivato ad inficiare anche i restauri importanti…. Quando la politica diventa spettacolo c'è poco da fare, quanto poi tutto questo sia giustificato, lo ignoro. In Italia, per ragioni storiche, borghesia o meno, a farne le spese è soprattutto il Mezzogiorno… Cerreto, per me una scoperta, è allo studio. Avrei intenzione infatti di arrivare ad una monografia che copra i miei interessi (architettura e archeologia industriale) e non tutto mi è chiaro. Fra l'altro, vorrei vedere i resti delle gualchiere ed anche visitare i dintorni. Se un torto hanno avuto gli storici cerretesi è stato quello di pescare tutti nello stesso mare e se uno va a tonni, mi lasci dire, solo i tonni prende…”

In particolare alcuni concetti sono da estrapolare dalla sua opera: due perché sono a me cari : l’influenza dei Gesuiti sulla educazione dei Carafa e quindi sulla ricostruzione di Cerreto prima, dei paesi della Val di Noto poi, e la particolarità del nostro barocco, estremamente legato al territorio; l’altro che, riprendendo le considerazioni del caro amico nonché bravissimo architetto Nicola Ciaburri, definisce Cerreto “città fabbrica”.   Accenniamoli un po’.

 I Gesuiti, il trionfante ordine che dal 500 affiancava la Santa Sede nelle corti cattoliche europee e nei paesi d’Oltremare con la sua penetrante opera di educazione delle menti e delle coscienze dell’epoca, entrarono infatti sia nella educazione di Marzio Carafa, sia nella ricostruzione di Noto e Grammichele. Il ricostruttore di Cerreto Marzio Carafa viene dal ramo dei Carafa della Stadera, e il suo bisnonno fu Diomede IV (morto l’ 8-3-1572), fratello di Papa Paolo IV, e fu cugino di Vincenzo Carafa, settimo generale della Compagnia di Gesù (Gesuita dal 1604, fu generale dal 1646).

Noto fu ricostruita a partire dal 1693, cinque anni dopo Cerreto, con tanti punti in comune con l’urbanistica sannita, mentre Grammichele, la città “stellare”, voluta da un altro Carafa, il principe Carlo Maria, fu disegnata dal frate-architetto Michele da Ferla, gesuita. Il barocco dell’architettura cerretese, infine, è estremamente diverso da quello siciliano, io lo definisco “dialettale”, intendendo con questa espressione uno stile che si è adattato alla cultura, ai materiali, alla memoria della Cerreto medievale appena distrutta dal sisma del 5.6.1688.

Un barocco che risente, e tanto, della diversità della pietra utilizzata: molto duro il nostro brecciato, multicolore, ad effetto “mortadella” , da non confondere con l’onnipresente, bianco perlato, pietra estranea alla nostra cultura ed introdotta “inopinatamente” nei nostri restauri. La nostra pietra è molto meno lavorabile del più tenero  calcare  di Noto, di colore uniforme giallo-oro, correttamente ancora utilizzato nei lavori di recupero della città, patrimonio mondiale dell’Unesco. (essa si, noi no!). Ma vediamo qualche passo dell’ottimo lavoro del Prof. Rubino:…

Non si può escludere che la rinascita della Val di Noto ed in particolare di Grammichele, feudo di Carlo Maria Carafa, Principe di Butera e di Roccella - vista la stretta frequentazione dei Carafa fra di loro - abbia attinto in qualche misura all'esempio di Cerreto, per poi indirizzarsi verso schemi idealizzati, mentre circa un secolo dopo, alla luce delle note teorie di Rousseau, il tema del "contratto sociale" ricompare nella ricostruzione della Filadelfia calabrese e quello sul "primitivismo" nell'utopia della Colonia di San Leucio. Ma l'originalità di Cerreto - che ne fa una città di fondazione di singolare interesse nel panorama europeo - fu l'esatta negazione di tutto questo.

Il suo fu un impianto urbano ispirato al pragmatismo e con un occhio attento alle necessità materiali di una città fabbrica che intendeva rigenerarsi nel rispetto della tradizione e senza nulla concedere alle mode intellettualistiche, se non sul piano degli adeguamenti tecnici: dalla cautela sismica (vedi Billy Nuzzolillo: Cerreto Sannita: un modello di ricostruzione post-sismica.), al risanamento igienico, alla pratica edilizia. Né mancò il rinnovo del macchinismo, dal recupero delle gualchiere alla nuova Tinta - anch'essa verosimilmente opera di Giovan Battista Manni, allora particolarmente attivo nel rifacimento delle fabbriche feudali - mentre nella pianificazione del lavoro dei lapicidi già si avverte la rivoluzione incipiente dei modi di produzione.

L'opificio della Tinta, unico del suo genere nel nostro mezzogiorno, rinacque poco distante al mulino feudale e dunque ai piedi della catena delle gualchiere, un posto obbligato per la massima disponibilità di acqua e snodo importante di traffico. Oggi si presenta su pianta rettangolare a corte e limitato al solo piano terraneo, con ambienti a volta, murature di pietrame a vista, ma niente possiam dire sull'organizzazione degli spazi lavorativi, in assenza di una prospezione specialistica sulle canalizzazioni idrauliche (ancora esistenti? saranno recuperate?).

Com'è naturale per una struttura di vecchio regime, i caratteri della città-fabbrica sono leggibili solo in trasparenza; I pascoli sono lontani, i mulini, le forge e le gualchiere sui torrenti, la Tinta al di fuori della composizione urbana, le officine ed i telai in casa. La mimesi è totale perché la macchina produttiva è la città stessa, con i suoi riti quotidiani e le sue feste di precetto… . Una città che fabbrica tessuti (altro che civiltà contadina!) ma sempre e comunque legata alla terra, da cui trae la sua linfa vitale e nella quale ogni volta, dopo ogni disastro, trova la forza per rigenerarsi e ricominciare. Di lì a poco, la rivoluzione industriale metterà fine a tutto questo.. .  

A fine Seicento, in definitiva, considerata la perdita di peso delle motivazioni militari e la posizione geografica marginale rispetto alle grandi strategie territoriali, il nuovo disegno urbano di Cerreto appare essenzialmente improntato alla difesa del potere economico e culturale delle classi mercantili ed imprenditoriali ed alla necessità di evitare ingerenze esterne in grado dì nuocere o vanificare l'impresa manifatturiera, confermando nel contempo le vecchie abitudini e la volontà della borghesia locale di evitare soluzioni spaziali di marcata differenziazione classista.

Una grande piazza attrezzata, dove tenere le fiere annuali dei tessuti, sarà l'unico segno visibile della città-fabbrica, mentre la scacchiera urbana si adeguerà razionalmente ai canoni classici, senza tuttavia perdere le connotazioni democratiche della città medievale. …Come tutti i vecchi opifici, mai evoluti alla civiltà delle macchine, Cerreto conserva intatte e sue tracce originali, in parte misconosciute dalle stratificazioni della modernità, caratterizzate da totale assenza di gusto, ma sostanzialmente immuni da significative contaminazioni.

Dall'alto del Monte Sant'Angelo, quasi una sfinge italica, l'imponente "murgia" della Leonessa di Cerreto - inizio della via pastorale che si saldava al tratturo regio - custodisce nel proprio eremo la memoria ancestrale dei luoghi e volge attenta lo sguardo sul fondovalle telesino e sui monti circostanti, un tempo dominati da rocche sannitiche, in una eccezionale tavolozza paesaggistica fatta di pascoli e tratturi, campagne e città`, mentre il tempo scorre a ritroso e la mente scruta la folla degli armenti e le legioni in movimento.

Oggi, in tempi di mondializzazione e di crisi esistenziale, sia la città che il territorio agro­pastorale del Matese, così densi di storia, natu­ra e lasciti antropologici, potrebbero facilmente ridisegnarsi in un significativo ecomuseo delle arti e della memoria (qualcuno si ricorda della mia proposta di Museo diffuso della civiltà cerretese?), sostituendo l'impresa manifatturiera col capitale sociale, la pratica artigiana con l'industria turistica e culturale, secondo quell'indirizzo di promozione e conservazione delle due culture, che ormai è parte significativa delle nostre leggi di tutela. Più in astratto in un luogo di cult, una sorta di itinerario proustiano alla ricerca del tempo perduto. Insomma, quasi un pellegrinaggio a Czestochowa!

 

Arch. Lorenzo Morone

 

     

 Valle Telesina


Per intervenire: invia@vivitelese.it