27 gennaio 2008
Lettera a Don Franco Piazza
Giovanni Giletta

 

 

Tutta la povertà che ci riguarda

Lettera a don Franco Piazza di Gianni Giletta

 

 

Gent.mo don Franco Piazza,

Ho letto con attenzione il comunicato a nome del Centro Studi Bachelet “Giudizio, pregiudizio, sommario, umoralità” apparso sul sito della diocesi, in cui si dà una valutazione oggettiva dei fatti riguardo la trasmissione Wake Up di Media Tv.

Le scrivo  affinché ascolti anche chi come me può avere qualcosa di diverso da dire riguardo l’ avvenimento e  questo possa far ben riflettere e il vescovo e l’ Azione Cattolica.

Premetto che affrontare questi temi attraverso una lettera è sempre molto difficile; nulla può sostituire la delicatezza e la profondità di un confronto personale. Ma voglio comunque condividere con lei alcune riflessioni, nella speranza di riuscire a trasmetterle un po’ di quel senso di disagio che si respira, in questi giorni, all’ interno della Chiesa diocesana e non.

Ovvio che gli interventi qualunquisti  e superficiali –da qualunque parte vengono- di chi si sente autorizzato a prendere posizione senza conoscere da vicino i problemi e senza un’ autentica disponibilità all’ ascolto o almeno alla documentazione servono solo a acuire le frammentazioni già esistenti nel territorio. 

Non me sento di entrare in questioni personali che riguardano  solo ed esclusivamente e l’ emittente televisiva Media Tv e la curia diocesana. 

Come del resto non me la sento nemmeno di condannare Giusi Juliano in toto con il solito “anatema sit!”. E’ mia intenzione sottolineare che non è ammissibile fare di quest’ avvenimento l’ ennesima ‘occasione mancata’ per la Chiesa. Si tratta di aprire gli occhi ed utilizzare il testo come uno ‘specchio’, per rendere palese ciò che è latente nel nostro sistema ecclesiale diocesano, nella scontatezza dei nostri comportamenti quotidiani, nel nostro modo –che forse non è quello di Dio- di fare comunicazione e fruire di essa, nel nostro essere cristiani o meno.

Per rendere chiare le mie affermazioni faccio una breve analisi semiotica del testo, abbassando il livello alla sola comprensione dei fatti, così come lo leggerebbe un uomo comune, ovvero privo dei necessari strumenti per andare oltre il testo stesso.

Dove cade la mia attenzione? Il vescovo parla di sprechi ovvero “un fiume di denaro viene convogliato verso alcuni settori privilegiati…” tra cui “…i parlamentari” e di più quelli comunisti “…vestiti con giacche di cashmere”; il vescovo stesso prende a mo’ di esempio “…la Lonardo”“…le province” e “…i comuni”.   E dulcis in fundo,  parla del calcio “…in cui i vari Mourinho, i Capello, i Totti guadagnino in un anno ciò che un mortale ‘fantozzi’ non vedrà mai in tutta la sua vita”. 

Valutazione: linguaggio ricco di stereotipi, che nulla dice di più rispetto all’ uomo comune.

Il programma televisivo Wake up –visionabile su internet alla pagina personale dell’ emittente Media Tv- insiste consapevolmente –o colpevolmente?- su una frase, che il lettore può prendere a mo’ di incipit, o può ritenere sia –così come è avvenuto- il pensiero autentico del vescovo. La frase, al presente indicativo -“Ritengo che i soldi ci siano per tutti oggi, in Italia, per vivere una vita dignitosa e non dispendiosa”- fa capire a chi legge che chi scrive la pensa così.

Per essere più precisi -prendendo ad esempio un sillogismo aristotelico-, se dico: –mattina con il sole, ma terreno bagnato- fa dedurre a chi ascolta che –nella notte sia piovuto-.  E che è ragionevole che sia davvero così.

 

 

In ultima analisi, il testo -nonostante sembri comunicare qualcosa- non riesce a recuperare essenzialità di contenuto e maggiore facilità di linguaggio. Non comunica. Ecco perché è riuscito a sollevare un  inaspettato polverone sulla ‘povertà della Chiesa’.

Nella recente teologia del ministero, anche nei testi ufficiali del Concilio Vaticano II, il compito dell’ annuncio è collocato giustamente al primo posto.

L’ incaricato di un ministero deve essere prima di tutto un uomo della parola, che aiuta a decifrare una realtà dimenticata e respinta, che dà indicazioni in maniera profetica, non sonnecchiante; energicamente riapre orecchi ormai chiusi, rivolge parole di consolazione. Anche nella precarietà, sa levare la sua voce di speranza, perché sa guardare al cielo. Ed è il cielo che determina la bellezza della Terra.  

 

 

Deve saper amare molto, perché chi ama vigila e chi vigila ama.  Piange il bimbo nella notte e subito la mamma e il papà si alzano. O no? Deve avere un cuore che sa discernere sempre il meglio. Che non si ferma alle cose che vede, ma entra nei fatti. Non scende a compromessi, né si fa condizionare. Ma, soprattutto, deve essere chiaro: raccoglie le domande dei piccoli per farne progetto, indicare sentieri, proporre percorsi. Non basta che sappia. Deve formare e riformare. Anche le parrocchie di oggi, pigre e un po’ stanche. Come pure le comunità religiose, assopite dentro un’ acquiescenza pericolosa.

Per il ministero ecclesiastico non c’ è forza maggiore della forza della parola, in cui Dio può diventare presenza presso di noi.

Anche e forse soprattutto, in questo campo,  la Chiesa deve dimostrare che essa è semper reformanda:  sempre cedevole al peccato, sempre bisognosa di conversione. Non si tratta di difendersi da attacchi, si tratta di agire con stile. Nulla può togliermi dal cuore il pianto per le troppe pagine di storia –anche recente!- nelle quali si può leggere ciò che Guglielmo d’ Auvergne scriveva nel sec. XIII: “La Chiesa si presenta come un carro del Faraone piuttosto che come un carro di Dio e va verso l’ abisso delle ricchezze e dei piaceri e perfino dei peccati; le ruote dei maestri della Chiesa sono uscite dalla strada e si sono separate per la dissomiglianza con Cristo, l’ asse della vita”. Nella Chiesa qualunque ‘grazia di autorità’ è una modalità storica dell’ obbedienza allo Spirito; nella Chiesa qualunque obbedienza allo Spirito rende autorevoli; si obbedisce riconoscendo Cristo nei fratelli e ciò vale per ogni membro della Chiesa.

La diocesi si è fermata a livello comunicativo. Già da qualche anno. Mi (s)piace vedere questo grande albero, con radici solide in terra e rami innalzati al cielo, su cui molte scimmie fanno rumore: si muovono, squittiscono, saltano da un ramo all’ altro; sembra stiano creando, se non per il nulla. Altri invece, vestiti da persone, sono seduti su di una panchina sotto l’ albero; avrebbero anche loro delle cose da dire, sentimenti e proposte serie da fare, ma nessuno gli dedica tutto il tempo di cui hanno bisogno; sono gli ultimi del nostro tempo.

È sbagliata, di conseguenza, e appare insufficiente nella nostra prospettiva, qualsiasi analisi che riduca gli ultimi, il povero e la scelta in loro favore al piano puramente economico e politico. Così come fa il vescovo.

Non siamo neppure, come talvolta si pensa, unicamente di fronte alla sfida di una ‘situazione sociale’, quasi si trattasse di qualcosa di esteriore alle esigenze fondamentali del messaggio evangelico. Ci troviamo piuttosto davanti a qualcosa che va contro il Regno di vita annunciato dal Signore, qualcosa dunque che un cristiano deve respingere.

La vita del povero è infatti una situazione di fame e di sfruttamento, di insufficiente attenzione ai problemi della salute, di mancanza di una casa decente, di difficile accesso all'istruzione scolastica, di bassi salari e di disoccupazione, di lotte per i propri diritti, di repressione. Ma questo non è tutto. Essere poveri è anche una maniera di sentire, conoscere, ragionare, farsi degli amici, amare, credere, soffrire, far festa, pregare. In altri termini, i poveri costituiscono un mondo. Impegnarsi con loro è entrare in tale universo -o in certi casi restarvi, ma con una coscienza più chiara-, viverci dentro; considerarlo non come luogo di lavoro, ma come propria residenza. Non già andare verso questo mondo qualche ora per darvi testimonianza del Vangelo, bensì partire ogni mattina da esso per annunciare la 'Buona Notizia' a ogni persona umana.

Come fare allora? Solidarietà autentica e realismo ecclesiale: ecco quanto si richiede per affrontare la questione. Il cristianesimo –quello vero- mette sempre in discussione la forma sociale e politica che l’ uomo riesce a realizzare.

 

Già Paolo VI ebbe a dire: “L’ uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri o, se ascolta i maestri, lo fa perché sono dei testimoni”  (2 ott. 1974). Non quindi, un’ azione intesa ‘a riempire scaffali delle biblioteche’.

 

E’ dunque mediante la sua condotta, mediante la sua vita che la Chiesa porterà il suo messaggio autentico al mondo. Un azione  in ordine alla promozione umana non è quindi un momento separato dalla missione –come di solito si fa-: ne è parte intrinseca ed integrante. C’ è un modo proprio dell’ attività diocesana che deve sapersi confrontare con i problemi dell’ uomo ed illuminarli; c’ è uno stile ‘coerente’  che deve qualificare e contraddistinguere la sua presenza e la sua azione nella storia; così come c’ è uno specifico suo apporto.

 

Il suo atteggiamento, nei confronti di ciò che viene normalmente definito profano, è positivo. Il primato del ‘cristiano’ si afferma non nella contrapposizione al ‘profano’, ma secondo quei principi che il Concilio Vaticano II ha proposto: purificare il bene che esiste in ogni cosa; consolidare l’ autonomia di chi lo propone, senza strumentalizzazioni; elevare tutto ad una prospettiva cristiana che non perda di vista il messaggio evangelico.

 

Ma tutto questo non può avvenire senza l’ ascolto. L’ ascolto autentico risiede nel fatto che si è pronti a valutare tutte le critiche che  vengono dall’ esterno, senza credere di  ‘stare nella verità’. Il cristiano è uno che critica. Lo fa nel senso etimologico del termine: criticare in greco significa vagliare, valutare, passare al setaccio, tenere ciò che è buono, ciò che merita di essere conservato e buttare ciò che non merita. E questo lavoro di valutazione costa sacrificio. Tendenzialmente siamo tutti conservatori e anche qui è una questione di paura. Preferiamo confrontarci con il già saputo o con chi approverà le nostre idee piuttosto che metterci a vagliare. Il già saputo ci conforta e ci rassicura, il lavoro di critica ci spaventa.

 

Non sempre le cose vanno secondo schemi prefissati. In effetti, diceva qualcuno: “Non bisogna fidarsi troppo neppure dei detti degli antichi, delle favole o dei proverbi”. Io invece cito il proverbio: “Per imparare a nuotare bisogna buttarsi in acqua”. Qualcuno impara, ma tanti affondano. Morale: e’ meglio tenere d’ occhio la realtà.

 

Il cristiano autentico vuole la perfezione e ha in sé il sogno per crearla, perché l’ ha incontrata e conosciuta in Gesù.  

                                                                                                         Gianni Giletta


 

 

     

  Il Crogiuolo


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