14 agosto 2009
Lettera di Gianni Giletta su don Peppino Diana
Gianni Giletta

 

 

La coerenza del vangelo

 

 

 

In ogni tempo, camminare con il povero significa scoprire una forza nuova che non viene né dai libri, né dagli studi, né dal bisogno di provare qualcosa.

In ogni momento,  camminare nella storia significa essere consapevoli che il senso di legalità e di giustizia non viene da una certa generosità naturale o dal bisogno di crescere, né dal desiderio di salvare il mondo. Per alcuni, che chiameremo credenti, viene direttamente da Dio. Don Peppino Diana era uno di questi.

 

Ci sono molte forze che si oppongono alla crescita integrale dell’ uomo, che cercano di separare, di spezzare. In quel momento, aumenta la spirale di violenza, si innesca, involontariamente   -o meno-, una illogica lotta dell’ uomo contro l’ altro uomo. In quel preciso istante,  tutto degrada.

Ci sono molte forze di seduzione che tendono a parcellizzare una persona, impedendole di crescere. Esse sono nemiche della verità.  Con la menzogna difendono il loro potere, la loro avarizia, le loro ricchezze male acquisite. Esse costruiscono barriere che spingono alla violenza, al conflitto e alla vendetta. Esse mettono alcune persone sul piedistallo, creando una sorta di elite che schiaccia tutti gli altri.

 

A tali forze si era opposto don Peppino Diana.  Innanzitutto con la Lettera di Natale del 1991 -di cui riporto di seguito alcuni stralci-, diffusa in tutte le chiese di Casal di Principe: un vero manifesto del suo impegno di sacerdote contro la camorra.

 

  La camorra -affermava don Diana- “riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche é caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi. La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale. L’inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità, ecc; non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi; un preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l’inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini; le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l’Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una ‘ministerialità’ di liberazione, di promozione umana e di servizio. Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili”. 

 

  Da qui il suo sempre attuale appello: “Le nostre Chiese hanno, oggi, urgente bisogno di indicazioni articolate per impostare coraggiosi piani pastorali, aderenti alla nuova realtà; in particolare dovranno farsi promotrici di serie analisi sul piano culturale, politico ed economico coinvolgendo in ciò gli intellettuali finora troppo assenti da queste piaghe. Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa; Alla Chiesa che non rinunci al suo ruolo ‘profetico’ affinché gli strumenti della denuncia e dell’annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà, dei valori etici e civili (Lam. 3,17-26). Tra qualche anno, non vorremmo batterci il petto colpevoli e dire con Geremia: Siamo rimasti lontani dalla pace… abbiamo dimenticato il benessere… La continua esperienza del nostro incerto vagare, in alto ed in basso,… dal nostro penoso disorientamento circa quello che bisogna decidere e fare… sono come assenzio e veleno”.

 

  Il 19 marzo 1994 don Peppino Diana viene assassinato nella sacrestia della chiesa di San Nicola di Bari in Casal di Principe. Due killer lo affrontano a viso scoperto e lo freddano con una pistola calibro 7.65. I quattro proiettili vanno tutti a segno, due alla testa, uno in faccia e uno alla mano. Don Peppino muore all'istante.

 

Don Peppe -così lo chiamavano gli amici più intimi- è vissuto negli anni del dominio assoluto del Clan dei Casalesi, legato principalmente al boss Francesco Schiamone, detto Sandokan. Il barbaro omicidio, dicono gli atti processuali, maturò in un momento di crisi della camorra dei Casalesi. L’ indignazione fu tale che all'omicidio di don Peppe -personaggio molto esposto sul fronte antimafia-, seguì la prima autentica repressione dello Stato contro i suoi barbari mandanti ed esecutori.

 

  Nel corso degli anni, però, a più riprese, si è cercato di infangare il nome di questo prete di frontiera. “Accuse inverosimili, risibili, per non farne un martire, non diffondere i suoi scritti, non mostrarlo come vittima della camorra ma come un soldato dei clan. Appena muori in terra di camorra, l'innocenza è un'ipotesi lontana, l'ultima possibile. Sei colpevole sino a prova contraria. Persino quando ti ammazzano, basta un sospetto, una voce diffamatoria, che le agenzie di stampa non battono neanche la notizia dell'esecuzione. Così distruggere l'immagine di don Peppino Diana è stata una strategia fondamentale. Don Diana era un camorrista titolò il Corriere di Caserta.

 

Pochi giorni dopo un altro titolo diffamatorio: Don Diana a letto con due donne. Il messaggio era chiaro: nessuno è veramente schierato contro il sistema. Chi lo fa ha sempre un interesse personale, una bega, una questione privata avvolta nello stesso lerciume. Don Peppino fu difeso da pochi cronisti coraggiosi, da Raffaele Sardo a Conchita Sannino, da Rosaria Capacchione, Gigi Di Fiore, Enzo Palmesano e pochi altri”( SAVIANO R., Don Peppino, eroe in tonaca ucciso dal sistema dei clan, Repubblica ,18 marzo 2009).

 

  Ed ancora, è di questi giorni un attacco passato quasi inosservato da parte di Gaetano Pecorella -presidente della commissione Ecomafie-,  che in una intervista al giornalista Nello Crocchia, per il sito Articolo 21,  dichiara:   “Io dico che tra i moventi indicati, agli atti del processo, ce ne sono tra i più diversi. Nel processo qualcuno ha parlato di una vendetta per gelosia, altri hanno riferito che sarebbe stato ucciso perché si volevano deviare le indagini che erano in corso su un altro gruppo criminale. E altri hanno riferito anche il fatto che conservasse le armi del clan. Nessuno ha mai detto perché è avvenuto questo omicidio, visto che non c'erano precedenti per ricostruire i fatti. Se uno conosce le carte del processo, conosce che ci sono indicate da diverse fonti, diversi moventi”.
 

 Eppure dalle carte del  processo è tutto chiaro. Anche la sentenza della Corte di Cassazione del 4 marzo 2004 conferma che Don Peppe è stato ucciso per il suo impegno antimafia; che De Falco ( di cui l’ Onorevole ha assunto la difesa ) ha ordinato l'uccisione di Don Peppe per dimostrare, uccidendo un ‘antagonista’ in tonaca, che il suo gruppo era più  coraggioso di quello di Sandokan.

I ‘moventi’ furono -e lo dimostrano le sentenze-, delle calunnie che alcuni camorristi portarono per lungo tempo in sede processuale per discolparsi. Calunnie nate dal fatto che persino loro cercavano di lavarsi le mani del sangue innocente che avevano versato.

 

I fatti e la vita  di don Peppe parlano da soli. Senza fraintendimenti. Per don Peppino, il cristianesimo si presentava con un volto così attraente, comprensivo nei confronti dell’ incredulità, tale da rifiutare ogni incertezza di fronte al crimine organizzato. Le sue parole dure contro la camorra conservano tutt’ oggi un sigillo di autenticità.

 

I suoi non erano di certo dei modi autoritari, di chi si sente autorizzato a ‘sputare sentenze’ dai pulpiti e non si china sul dolore. Inchiniamoci invece al coraggio, che mai come in questo caso è coraggio di fare il proprio dovere, di sfidare l’ ironia e i sorrisetti di commiserazione. Coraggio di fronte alla vita, coraggio di accettare la vita. E la morte.

 

Don Peppe ha visto lontano. Il peso del contesto sociale in cui viveva è divenuto preponderante, certamente più di quello della progettualità e delle regole. E dal momento che anche le istituzioni locali faticavano a mettere in atto azioni di lunga durata, egli non tardò ad innescare un’ azione di reazione efficace e organica.

 

Egli capì, fin dall’ inizio, che era il territorio stesso, attraverso i segni che portava incisi, a farsi estraneo, veicolo di un diffuso e generico senso di insicurezza e di vuoto. Un disagio che però prendeva a tradursi in vera percezione del pericolo, in allarme per la sicurezza e che, in Casal di Principe e paesi limitrofi, sfociava nell’ uso pericoloso della cosa pubblica, in aggressioni, esercizio della violenza strutturata, criminalizzarsi del caos.

 

L’ uso pericoloso del territorio, innanzitutto:  se il caos che caratterizza un territorio è già percepito in sé come potenziale pericolo per la sicurezza degli abitanti, tale sensazione risulta intensificarsi di fronte alla consapevolezza dell’ esistenza di attività camorristiche capaci di mettere a rischio l’ incolumità fisica,  tanto di chi vi partecipa quanto dei cittadini non direttamente coinvolti in esse.

 

In secondo luogo, il caos, che si esprime in potere trasversale sulle cose, risulta sempre passibile di trasformarsi in violenza sulle persone, sui cittadini costretti a vivere nel territorio, prendendo così la forma di vere e proprie aggressioni ed esecuzioni.

 

Di qui l’ impotenza di fronte ai clan malavitosi che prendono a strutturarsi e organizzarsi, orientandosi su obiettivi che non sono più casuali, ma premeditati e consapevolmente perseguiti. 

 

La violenza su cose e persone si focalizza, così, su un obiettivo unico: il controllo del territorio. Il conflitto si fa personale, coinvolge  un gruppo che esercita la violenza e chi, impotente di fronte agli abusi,  la subisce.  A volte si tratta di un atto punitivo e della vendetta di un clan; il più delle volte di violenza insensata che si trasforma in conflitto vero e proprio tra clan antagonisti.

 

Questo era il clima in cui andava ad inserirsi l’ azione pastorale di don Peppino Diana. La sua figura carismatica lo rese da subito scomodo.

Egli esercitò la sua ‘autorità’ con jeans e maglietta, allo scoperto: accogliente nei confronti di coloro con cui visse ogni giorno, fiero di una vulnerabilità che tutt’ oggi non è facile da accettare.

 

Se preghiamo perché il Regno venga, possiamo farlo solo come uomini che poggiano con ambedue i piedi sulla terra. E don Peppe questo lo sapeva, perchè “chi cerca di sfuggire alla terra non trova Dio, trova solo un altro mondo, il suo mondo, più buono, più bello, più tranquillo, un mondo ai margini, ma non il Regno di Dio, che comincia in questo mondo. Chi fugge la terra per trovare Dio, trova solo se stesso” ( BONHOEFFER D., Venga il tuo regno, Brescia, ed. Queriniana, 1988, pag. 28 ).

 

Dalle testimonianze che lo ricordano, si deduce una capacità di ascoltare e di relativizzare le proprie vedute a favore dei suoi interlocutori, personalità matura, libertà interiore, rinuncia alla tentazione di essere liberi battitori, volontà di fare spazio agli uomini del suoi tempo e ai loro talenti, concreto amore per la sua Chiesa.

 

Tutti conosciamo dei casi penosissimi d’ infedeltà in atto, palese o no. Don Peppe rimase fedele, senza sfogarsi in querimonie e rimproveri. La madre ama il figlio a dispetto di tutto; la madre non divorzia dal suo figlio. Ed egli amò il suo popolo, ‘senza poter tacere’ davanti all’ oppressione. Sono parole pregne di eroismo le sue.

 Il coniuge fedele occorre che s’ immedesimi in quest’ amore perseverante, istancabile, se vuole corrispondere a ciò che Dio attende da lui, se vuole, per quanto dipende da lui, salvare la sua famiglia.  Ciò che è vero in famiglia, è vero a qualsiasi livello di vita sociale.

 

L’ uomo attende dall’ altro uomo qualcosa di diverso dal denaro. E se quest’ altro uomo è un prete, l’ uomo attende che questi gli si fermi vicino, che prenda contatto con lui, che si accorga ch’ egli esiste e che ogni tanto glielo dica. Nulla è così incoraggiante, come l’ attenzione sempre vigile, il rispetto non puramente formale, l’ inattesa parola di congratulazione, che siano espressioni di una realtà di vita vissuta in coerenza con il Vangelo e non vuote formule di rito, o da discorso accademico scopiazzato, all’ ultimo minuto, da riviste ad hoc.

 

Per concludere, mi piace ricordare ciò che dice Vittorino Andreoli a riguardo del ‘prete come uomo della speranza’ –e mi sembra calzi a pennello con la figura di don Peppino Diana- : “Molto significativo è per un cristiano il profilo del sacerdote come colui che può rimettere i peccati, ma collegato a questo ancor più significativo mi appare il profilo di uomo della speranza. Colui che sa indicare al disperato la fonte del futuro che non è una parola vuota, ma realtà che il sacerdote vive, poiché lui è l’incarnazione della speranza. Quando un mio paziente esprime paura, spesso senza parole poiché si fa attonito, statua pietrificata dal terrore, io non spiego cosa è la paura e attraverso quali meccanismi e dinamiche si attivi, ma lo stringo a me, gli prendo la mano e gli dico che anch’io ho avuto paura, che anch’io sono fragile e consideri che ora sono con lui per affrontarla e possibilmente risolverla. Non posso fare di più, non sono io capace di gesti liturgici che mi permetterebbero di veicolare la grande speranza. Ma il sacerdote sì può, e in questo egli è più dotato di me.

Un uomo spaventato, sottomesso alla tecnologia, ansioso di successo, piegato dal timore di essere un "signor nessuno" sul piano dei ruoli sociali: ecco da una parte l’angoscia della frustrazione e dall’altra la voglia di visibilità. Perché c’è una morte sociale, quella dell’irrilevanza, che oggi è più sentita addirittura dell’altra morte, quella fisica. Perché quella dell’irrilevanza la si esperimenta ogni momento, è una morte che sembra continuamente annunciata. E quella che la riguarda, è l’unica agonia oggi ancora percepita. Mentre l’agonia reale, ossia la fine della propria esperienza terrena, si può fingere di dimenticarla, fingere che non ci sia.

 

Dicevamo del bisogno di speranza. Il sacerdote è l’ uomo della speranza […]. Qui si recupera in tutta la sua essenzialità il significato di legame, di cui dicevamo all’inizio. Non certo un mettersi insieme per vezzo, o per le piccole speranze sociali, ma un unirsi del sacerdote all’umanità di oggi, mettendo al centro la speranza, la grande speranza, quella che almeno un poco sa calmare la paura, la paura per quel senso ulteriore della vita che non è facile trovare. Ebbene, questo senso arduo da reperire lo si può intravedere in chi, come il sacerdote, sa dare fiducia all’interno di un rapporto disinteressato sul piano terreno ma interessato invece su quello del cielo. Ed è proprio lì che la grande speranza si compie: sulla terra invece si reperiscono al massimo soluzioni per le piccole speranze”        ( ANDREOLI V., I preti e noi: l’ uomo della speranza, Avvenire , 23 aprile 2008 ).

 

         Gianni Giletta


 

 

     

  Il Crogiuolo


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