L’ osso e la polpa - 07-07-04 - Gino Di Vico |
Accompagno, una mattina, un mio amico in un paesello del nostro verde Sannio, lui deve andare al comune per sbrigare delle carte per un imprenditore pugliese che ha ben pensato di impiantare una fabbrica di calzature in questo piccolo comune dove sembra che la burocrazia sia meno oppressiva che dalle sue parti.
E’ per me un’occasione per attraversare posti della memoria e conoscere nuovi luoghi. Per strada siamo avvisati da solerti automobilisti che più avanti sono piazzati non uno ma ben due autovelox, e consecutivi al limitare tra un comune ed un altro. Rallentiamo all’iperbolica velocità di 60 Km l’ora, la macchina arranca, dobbiamo scalare in seconda, c’è una salita che rende ancora più difficile mantenere la nostra iperbolica velocità.
Passiamo in moviola davanti ad accaldati vigili urbani, cerco con lo sguardo di incrociare i loro occhi e noto un senso quasi di vergogna, di scusa come a dire - “ Non è colpa nostra ci hanno comandati”-. Un pensiero cattivo attraversa la mia mente – “ del resto non dicevano così, anche i nazisti nel processo di Norimberga? No, il paragone non regge!” -.
Proseguiamo contenti per lo scampato pericolo e anche perché in fondo il mio amico potrà dire stasera d’essere uscito per guadagnare qualcosa; ma quanti presisi una o addirittura due multe, a sera avrebbero pensato che forse era meglio essersene stati a casa? Arriviamo in un piccolo paese arroccato su di una collina, uno di quei tanti paesi-presepio di cui è piena la nostra provincia.
Mentre il mio amico è al comune io vado in giro a fare foto, passo per vicoletti semibui, salgo per scalinatelle ripide, non c’è nessuno, ogni tanto qualche bel portale in pietra o qualche bel balconcino ornato con stucchi stile barocco e balaustre in ferro battuto rompono la povertà delle casette intorno. In piazza tre vecchietti si riparano dal sole cocente all’ombra di un tiglio, mi siedo vicino, loro mi scrutano curiosi, del resto ci avevano messo gli occhi addosso fin dal nostro arrivo.
Dopo un po’, uno, il più loquace, mi chiede da dove veniamo; così ne nasce una bella e triste chiacchierata su questi paesi moderni ma antichi, dove imprenditori di fuori vengono ad intraprendere ma i giovani del posto emigrano, nessuno più lavora la terra, le famiglie si “svenano” per tenerli a studiare a Napoli, a Roma, a Milano, per farne un giorno ingegneri, dottori, professori che conoscono ragazze di altri posti e rompono definitivamente con la tradizione di “mogli e buoi dei paesi tuoi”.
Così rimangono i meno capaci, quelli che a scuola non ci sono andati, gli ”ultimi”, quelli che un posto lo trovano, sottopagati, sfruttati: e che vuoi intraprendere se le prospettive sono queste? A volte anche loro vivono così forte il loro disagio, la loro insoddisfazione che qualcuno va ad appendersi a qualche ulivo giù nella valle. Così ripenso ai miei studi, a Rossi-Doria che chiamava queste zone interne del mezzogiorno “ l’osso” a distinguerle da quelle costiere che erano “la polpa” e un definitivo pensiero mi passa nella mente:
“ Da queste parti di polpa ce n’è ancora poca, perlopiù è osso da rosicare”.
Gino Di Vico
Per intervenire: invia@vivitelese.it
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