13 marzo 2005
Il colore della pelle
Aldo Maturo

 

 

(rivisitazione di una fiaba metropolitana)

Questa è una storia senza tempo, ambientata in un borgo marinaro senza confini. Dal traghetto quel grappolo di casette  imbiancate dal sole sembrano calamitate miracolosamente, come per una forza misteriosa, sulle aspre pendici del gran monte a picco sul mare. Casette senza tetti sovrastate da piccoli terrazzi su cui pare poggino le fondamenta di altre casette, e così man mano fin sù, dalla spiaggia alla parte più alta del borgo,ove campeggia la vecchia torre municipale con l’orologio fermo da tempo immemorabile.

         Un borgo come tanti che al tramonto si specchia in un mare dorato,  addormentatosi sotto il sole alle due di pomeriggio, come l’orologio del campanile, di un lontano giorno di un vecchio anno che nessuno ricorda.

         La civiltà del benessere ha solo sfiorato quelle case. Le sue stradette strette e tortuose si inerpicano tra una casa e l’altra, con gli scalini di pietra smussata, miracoloso baluardo alle auto dei turisti.

         Nel borgo trionfa il silenzio e spesso durante il giorno, quando i pochi bambini rimasti sono a scuola e l’aria non risuona delle loro grida festose, è possibile ascoltare il dolce sciabordio delle onde sulla sabbia dorata, laggiù in fondo, ai piedi di quelle case dai mille colori.

         Fino a giugno ci vivono un centinaio di abitanti, tutti pescatori bruciati dal sole che trascorrono le loro ore in mare o sulla spiaggia a rammagliare reti, riattintar barche e aggiustare lampare.

         Una vita semplice, con quel mare che è parte di sè stessi e che a volte trasforma la sua amicizia nella più brutale inimicizia. Ed è allora che in qualche casa il dolore spegne il sorriso trasformando per un pò ogni cosa nel tetro colore della notte.

         Quel giorno di primavera uno sciame di turisti, fin dal mattino, invade il borgo. Le poche botteghe di alimentari e di souvenir festeggiano sorpresi l’anticipato evento. A ora di pranzo l’unica piccola osteria, dieci tavoli di legno listellato unto e consunto dal tempo,è piena di gente, seduta o in piedi in attesa del proprio turno. Un giovane turista entra, attende, ordina, poi prende il suo piatto fumante di minestra con fagioli e farro,  trova un posto vuoto, si siede e appende a un chiodo sotto il tavolo il suo zainetto. Solo allora si accorge di aver dimenticato il cucchiaio. Lascia la minestra e va a prendere il cucchiaio. Al ritorno trova un vecchio pescatore di colore, capelli bianchi arruffati sulle orecchie, la pelle rugosa arsa dalla salsedine, che, seduto al tavolo, sta mangiando la minestra. Il giovane resta di stucco, guarda l’uomo che ricambia lo sguardo con aria tranquilla continuando a mangiare. Il giovane decide si accettare la sfida. Si siede,cucchiaio in pugno di fronte al vecchio pescatore,e prende una cucchiaiata di minestra. L’uomo non dice niente, lo guarda un attimo e poi sposta il piatto al centro del tavolo, con gesto di invito e condivisione. Il duello continua. Una cucchiaiata il giovane, nervosissimo, una cucchiaiata l’altro, tranquillissimo. In silenzio, fino a quando nel piatto non resta più nulla.

         Solo allora il vecchio negro si alza e se ne va, senza parlare. Il nostro giovane scuote la testa, si alza pure lui per andar via, cerca sotto il tavolo il suo zainetto ma non lo trova.

E’ troppo. “Non solo – pensa – mi ha preso la minestra, ma anche lo zaino..”

Si fa largo fra i pochi che ancora attendevano di pranzare, cercando l’uscita per inseguire il vecchio pescatore.

 E’ solo a quel punto che vede pendere da sotto un altro tavolo il suo zainetto. E, sopra al tavolo, il suo piatto,ormai freddo, di minestra con fagioli e farro.

 

    

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