Silavo - 17-01-04 - Riccardo Affinito

 

 

                                              

 

Continuando la ricerca di fatti e personaggi che hanno caratterizzato la vita telesina negli anni che vanno dal dopoguerra alla fine degli anni sessanta, desidero parlarvi  di “Silavo”, sicuramente uno dei personaggi più singolari della nostra città.

 

Di condizione celibe, ritornò “càrreco ‘e denare”  dall’America, alla fine degli anni venti, dove aveva lavorato come addetto all’accensione e allo spegnimento dei lumi a petrolio per le strade, e si stabilì presso un fratello che abitava “ncopp’’a Chiana”.

 

Una delle sue occupazioni prevalenti era il gioco delle carte, tanto è vero che usava andare in giro “ c’’o mazz’’e quaranta dint’‘a sacca”, ed in particolare  “ ‘a scupetta a mano a mano “ nella quale era pressoché imbattibile.

 

Di statura media, portava occhiali da vista con lenti molto spesse, la barba  era perennemente incolta, indossava abiti modesti e laceri ed andava in giro per il paese vivendo, “comme se dice, ‘a bona ‘e Dio”; conduceva, in definitiva, una esistenza non confacente ad uno che aveva molti soldi.

 

Eppure in questa persona dall’aspetto così trasandato, si nascondeva un animo gentile. Silavo era un grandissimo appassionato e conoscitore di musica lirica e spendeva molto del suo tempo e dei suoi soldi per andare in giro ad ascoltare le bande musicali che esibivano in tutto il circondario.

 

La sua opera preferita era “L’elisir d’amore” di Gaetano Donizetti ed in particolare l’aria del 1° atto cantata da Nemorino e coro “quanto è bella, quanto è cara”, e di tanto in tanto la cantava lui stesso.

 

Giuseppe Giusti nella poesia Sant’Ambrogio, quando sentì cantare i soldati austriaci, scrisse: “e mi stupisco che in quelle cotenne, in que’ fantocci esotici di legno, potesse l’armonia fino a quel segno”; allo stesso modo era stupefacente notare come dalla bocca di una persona così approssimativa nell’aspetto, potesse uscire, “ cu’ nu filo ‘e voce”, una melodia tanto bella e armoniosa.

 

Ma la professione che riusciva meglio a Silavo, era quella di andare a zonzo per il paese “a sfottere ‘a mazzarella”; così capitava che nei pomeriggi d’estate, “dint’’a cuntrora” veniva a trovare mio padre, anch’egli grande giocatore di scopa, per fare una partitina.

 

Si avvicinava con le mani dietro la schiena; in una nascondeva un pezzo da diecimila, e, quando stava per arrivare di fronte a mia padre,  lasciava cadere il pezzo da diecimila dietro di lui e poi girandisi esclamava:

“Vide nu’ poco che  sciorta, aggia truvato diecimila lire!” e mettendo i soldi in tasca infieriva nei confronti di mio padre dicendo: “ ma comme, e tu stive lloco e nun ll’he vista?

 

Questo succedeva tutti i giorni finché mio padre, a sua volta grande sfottitore, pensò alla contromossa. Mi chiamò e mi disse:

 “ Riccà, annascunnete areto a chistu platano, vide ca sta venenno Silavo, a nu certo punto fa cadè diecimila lire, tu senza ‘e te fa vedè, acchiappa ‘a diecimila lire e annascunnete n’ata vota”.

 

Non appena Silavo lasciò cadere la banconota, come un fulmine l’afferrai e mi nascosi dietro al platano e Silavo, come di consueto, si voltò ed esclamò, questa volta girandosi intorno:

“Vide nu’ poco che sciorta, aggia truvato…aggia truvato….aggia truvato ‘e cape ‘e mbrelle, a’ faccia mia comme avite fatto ampressa!

 

Una volta terminata la scopetta, Silavo chiese a mio padre:

 

“Cremè, prestame nu’ poco ‘a bicicletta c’aggia arrivà abbasci’’e Rinazzi.

 

Mio padre, indicandogli la bicicletta che stava appoggiata al muro, rispose:

 

A’ vì lloco, pigliatella”.

 

Silavo prese la bicicletta  e cominciò a camminare trascinando la bicicletta con la mano finchè mio padre gli disse :

 

“ Ma comme, t’he pigliato ‘a bicicletta e nun ce vaje ncoppa?

 

E Silavo “cu’ na’ faccia ‘e cuorno” rispose:

 

 “Gieusù, e comme ce vaco, i’ nun ce sacc’ì’ ncopp’’a bicicletta?”

 

Mio padre: “ Ma allora, che t’ha puorte a fa?”

 

Silavo: “M’ha porto pe’ cumpagnia!”

 

A questo punto vi chiederete: ma che fine fecero le diecimila lire? In realtà dopo qualche sfottò e qualche risata, mio padre mi chiese di uscire da dietro il platano e di restituire la banconota al legittimo proprietario; senonché nel frattempo  io mi ero affezionato a qual pezzo da dieci e quando mio padre mi chiese per la seconda volta di restituirla, risposi candidamente: “ Quale diecimila lire? I’ nun saccio niente!”

 

Così i soldi li dovette restituire lui.

 

 

 

Telese è anche questo. E’ la storia di Forgione Stansislavo, detto “Silavo” che visse in America e che dopo essere ritornato al suo paese, scelse di vivere alla giornata, con la barba sempre lunga, i vestiti laceri, dall’aspetto dimesso e dall’animo gentile, morto a Telese nel 1964.

 

P.S. Dedico questi aneddoti a Nico Malgieri, per ingraziarlo del tempo che dedica alla lettura dei miei inserti.