13 gennaio 2006
Il grande rastrellamento
Riccardo Affinito

 

 

 

L’episodio che sto per raccontarvi, è accaduto quasi certamente nel 1944, ma potrebbe anche essere accaduto più avanti, nel 1945.

Purtroppo da quello che è venuto fuori da varie testimonianze e ricordi, c’è da supporre che di questi fatti ne siano successi più di uno ed è pertanto difficile attribuire ad ognuno di essi una data certa, poiché i ricordi si confondono.

 

Dopo l’armistizio  concluso da Badoglio con gli angloamericani, ci fu la prevedibile reazione dei tedeschi che diedero luogo ad una infinita serie di rappresaglie sparse su tutto il territorio nazionale, tra cui anche Telese.

 

Potevano essere più o meno le dieci del mattino quando un camion tedesco si fermò in mezzo al quadrivio. Da esso scesero tre soldati : uno rimase vicino al camion, un altro si piazzò “ ncopp’’o ponte ‘a Seneta” , naturalmente ambedue con i fucili mitragliatori spianati, ed il terzo si infilava nella case, arma in pugno, per “cercare volontari”.

 

Mio padre sentì venire dalla strada degli strani rumori e vocii; insospettito e forse immaginando quello che stava accadendo, d’istinto pensò di tirare giù la saracinesca del nogozio; ma fu proprio in quel mentre che un soldato tedesco gli si parò davanti mostrandogli la pistola.

 

Entrò in casa in cerca di altri giovani da rastrellare, ma mio zio Gigino aveva fatto in tempo ad infilarsi dentro al forno, che per sua fortuna in quel momento era spento, riuscendo in questo modo a sottrarsi alla cattura.

 

A mio padre non fu concessa nemmeno la possibilità di prendere una giacca e, “mani sulla testa!”, dovette raggiungere il camion e montarci sopra. Fu portato via e costretto a lasciare la  moglie  con cinque figli.

 

Io potevo avere una età compresa tra un anno e due e pertanto non ho alcun ricordo di quel fatto; ma i miei fratelli, che erano più grandicelli, dovettero assistere, loro malgrado, alla deportazione del loro papà.

 

E’ facile immaginare quale contraccolpo psicologico possa suscitare questo episodio su dei bambini, costretti a vivere questa terribile esperienza, e mia sorella Gemma, che all’epoca poteva avere 2 o 3 anni, continuava a ripetere “ a papà s’hanno pigliate ‘e tedeschi!”

 

Mia madre non si perse d’animo e per meglio rappresentare il disagio in cui i soldati tedeschi l’avevano lasciata, pensò di recarsi presso il loro comando, istituito nell’ufficio postale, a rappresentare le sue rimostranze; raccolse la ciurma e partimmo (siccome io ero il più piccolo dei cinque, viaggiavo “mrbaccio ’a mammà”).

 

Quando arrivammo “ncopp’’o ponte ‘e curze” ci si presentò una grossa difficoltà; i tedeschi, per ritardare l’avanzata degli alleati, avevavo fatto saltare il ponte e per passare dall’altra parte, bisognava camminare su una tavola posta sui lati del torrente la cui corrente, a quei tempi, era molto forte.

 

Provate ad immaginare l’angoscia della mia povera mamma costretta a farci passare su questa tavola con il pericolo che qualcuno di noi potesse finire “pè ll’acqua abbascio”; fortunatamente una signora di buon cuore l’aiutò a traghettarci dall’altra parte.

 

Una volta arrivati al comando tedesco,  dovette assistere ad un dramma forse ancora più grande del suo. I soldati tedeschi avevavo preso uno dei due zingari sordomuti e la sua mamma stava lì ad implorare il “capobanda” di riconoscere la menomazione del proprio figliuolo e di lasciarlo andare; “ma ‘o tedesco manco p’’a capa”, pensava che si trattasse di una sceneggiata.

 

Allora mia madre intercesse per lei e spiegò che quella donna diceva la verità; a quel punto il comandante si convinse ed ordinò il rilascio del figlio, ma pretese che mia madre firmasse una liberatoria con la quale si assumeva tutta la responsabilità. Con il suo intervento ottenne il rilascio del giovane ma non riuscì ad avitare la partenza di mio padre.

 

Il camion pieno di prigionieri si diresse,insieme ad altri che nel frattempo rastrellavano nei paesi limitrofi, verso Piedimonte d’Alife, ove risiedeva.,a quanto pare, un comando generale.

 

Ma durante il viaggio avvenne un fatto imprevisto; un aereo alleato bombardò la colonna tedesca determinando un parapiglia generale e nella confusione che ne derivò, i prigionieri non si fecero scappare l’occasione per darsi alla fuga.

 

Fecero un bel tratto di strada tutti insieme, poi ad un certo punto, anche per questione di strategia, si divisero e presero vie di fuga diverse.

 

Mio padre scelse la montagna e, montagna montagna, arrivò fino a Cmpolattaro ove si rifugiò  presso un suo parente. Qui un’amica di mia madre gli prestò dei soldi che gli consentirono di vivere “alla macchia” per qualche tempo e, quando le cose si furono calmate, fece ritorno a casa.

 

Rimane il mistero che avvolge i dettagli del bombardamento e della relativa fuga. Quando si arrivava a questo punto del racconto, questi particolari venivano rigorosamente taciuti, sia da mio padre che dagli altri protagonisti, come se ci fosse qualcosa che non si dovesse sapere.

 

Io credo che questa paginetta di storia andava raccontata, anche se la visione di essa è parziale, è cioè solo quella che riguarda la penosa esperienza fatta dalla mia famiglia.

 

Ma ci furono molti altri telesini presi e forse ci sarebbero tante altre storie da raccontare; confesso che mi piacerebbe leggere un giorno su questo sito una storia raccontata da qualcuno che ha vissuto la medesima esperienza.

 

Insieme a mio padre furono presi molti altri telesini tra i quali sicuramente  Vito Volpe, Pasquale D’Angicco e Vittorio Vallone; di questa ultima circostanza sono abbastanza certo perché quando mio padre raccontava questa storia era solito dire: “Mmiezo a nuje Vittorio Vallone era ‘o cchiù curto, ma era chillo ca fujeva cchiù ‘e tutte quante.

Steva sempe in testa”.

 

 

Un abbraccio ed un ringraziamento al mio caro amico Franco D’Angicco per la sua cortese collaborazione. 

 

 

 

     

Il Cantastorie  Riccardo Affinito


Per intervenire: invia@vivitelese.it