L’episodio che sto per raccontarvi, è accaduto
quasi certamente nel 1944, ma potrebbe anche
essere accaduto più avanti, nel 1945.
Purtroppo da quello che è venuto fuori da varie
testimonianze e ricordi, c’è da supporre che di
questi fatti ne siano successi più di uno ed è
pertanto difficile attribuire ad ognuno di essi
una data certa, poiché i ricordi si confondono.
Dopo l’armistizio concluso da Badoglio con gli
angloamericani, ci fu la prevedibile reazione
dei tedeschi che diedero luogo ad una infinita
serie di rappresaglie sparse su tutto il
territorio nazionale, tra cui anche Telese.
Potevano essere più o meno le dieci del mattino
quando un camion tedesco si fermò in mezzo al
quadrivio. Da esso scesero tre soldati : uno
rimase vicino al camion, un altro si piazzò “
ncopp’’o ponte ‘a Seneta” , naturalmente
ambedue con i fucili mitragliatori spianati, ed
il terzo si infilava nella case, arma in pugno,
per “cercare volontari”.
Mio padre sentì venire dalla strada degli strani
rumori e vocii; insospettito e forse immaginando
quello che stava accadendo, d’istinto pensò di
tirare giù la saracinesca del nogozio; ma fu
proprio in quel mentre che un soldato tedesco
gli si parò davanti mostrandogli la pistola.
Entrò in casa in cerca di altri giovani da
rastrellare, ma mio zio Gigino aveva fatto in
tempo ad infilarsi dentro al forno, che per sua
fortuna in quel momento era spento, riuscendo in
questo modo a sottrarsi alla cattura.
A
mio padre non fu concessa nemmeno la possibilità
di prendere una giacca e, “mani sulla testa!”,
dovette raggiungere il camion e montarci sopra.
Fu portato via e costretto a lasciare la
moglie con cinque figli.
Io
potevo avere una età compresa tra un anno e due
e pertanto non ho alcun ricordo di quel fatto;
ma i miei fratelli, che erano più grandicelli,
dovettero assistere, loro malgrado, alla
deportazione del loro papà.
E’ facile immaginare quale
contraccolpo psicologico possa suscitare questo
episodio su dei bambini, costretti a vivere
questa terribile esperienza, e mia sorella
Gemma, che all’epoca poteva avere 2 o 3 anni,
continuava a ripetere “
a papà s’hanno pigliate ‘e tedeschi!”
Mia madre non si perse d’animo e per meglio
rappresentare il disagio in cui i soldati
tedeschi l’avevano lasciata, pensò di recarsi
presso il loro comando, istituito nell’ufficio
postale, a rappresentare le sue rimostranze;
raccolse la ciurma e partimmo (siccome io ero il
più piccolo dei cinque, viaggiavo “mrbaccio
’a mammà”).
Quando arrivammo “ncopp’’o ponte ‘e curze”
ci si presentò una grossa difficoltà; i
tedeschi, per ritardare l’avanzata degli
alleati, avevavo fatto saltare il ponte e per
passare dall’altra parte, bisognava camminare su
una tavola posta sui lati del torrente la cui
corrente, a quei tempi, era molto forte.
Provate ad immaginare l’angoscia della mia
povera mamma costretta a farci passare su questa
tavola con il pericolo che qualcuno di noi
potesse finire “pè ll’acqua abbascio”;
fortunatamente una signora di buon cuore l’aiutò
a traghettarci dall’altra parte.
Una volta arrivati al comando tedesco, dovette
assistere ad un dramma forse ancora più grande
del suo. I soldati tedeschi avevavo preso uno
dei due zingari sordomuti e la sua mamma stava
lì ad implorare il “capobanda” di riconoscere la
menomazione del proprio figliuolo e di lasciarlo
andare; “ma ‘o tedesco manco p’’a capa”,
pensava che si trattasse di una sceneggiata.
Allora mia madre intercesse per lei e spiegò che
quella donna diceva la verità; a quel punto il
comandante si convinse ed ordinò il rilascio del
figlio, ma pretese che mia madre firmasse una
liberatoria con la quale si assumeva tutta la
responsabilità. Con il suo intervento ottenne il
rilascio del giovane ma non riuscì ad avitare la
partenza di mio padre.
Il
camion pieno di prigionieri si diresse,insieme
ad altri che nel frattempo rastrellavano nei
paesi limitrofi, verso Piedimonte d’Alife, ove
risiedeva.,a quanto pare, un comando generale.
Ma
durante il viaggio avvenne un fatto imprevisto;
un aereo alleato bombardò la colonna tedesca
determinando un parapiglia generale e nella
confusione che ne derivò, i prigionieri non si
fecero scappare l’occasione per darsi alla fuga.
Fecero un bel tratto di strada tutti insieme,
poi ad un certo punto, anche per questione di
strategia, si divisero e presero vie di fuga
diverse.
Mio padre scelse la montagna e, montagna
montagna, arrivò fino a Cmpolattaro ove si
rifugiò presso un suo parente. Qui un’amica di
mia madre gli prestò dei soldi che gli
consentirono di vivere “alla macchia” per
qualche tempo e, quando le cose si furono
calmate, fece ritorno a casa.
Rimane il mistero che avvolge i dettagli del
bombardamento e della relativa fuga. Quando si
arrivava a questo punto del racconto, questi
particolari venivano rigorosamente taciuti, sia
da mio padre che dagli altri protagonisti, come
se ci fosse qualcosa che non si dovesse sapere.
Io
credo che questa paginetta di storia andava
raccontata, anche se la visione di essa è
parziale, è cioè solo quella che riguarda la
penosa esperienza fatta dalla mia famiglia.
Ma
ci furono molti altri telesini presi e forse ci
sarebbero tante altre storie da raccontare;
confesso che mi piacerebbe leggere un giorno su
questo sito una storia raccontata da qualcuno
che ha vissuto la medesima esperienza.
Insieme a mio padre furono presi
molti altri telesini tra i quali sicuramente
Vito Volpe, Pasquale D’Angicco e Vittorio
Vallone; di questa ultima circostanza sono
abbastanza certo perché quando mio padre
raccontava questa storia era solito dire: “Mmiezo
a nuje Vittorio Vallone era ‘o cchiù curto, ma
era chillo ca fujeva cchiù ‘e tutte quante.
Steva sempe in testa”.
Un
abbraccio ed un ringraziamento al mio caro amico
Franco D’Angicco per la sua cortese
collaborazione.
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