16 dicembre 2005
Il Natale secondo la tradizione Del Deo
Fulvio Del Deo

 

 

Dopo aver letto il bellissimo quadretto del Natale tradizionale in Casa Forlani, mi sono chiesto: com'era invece il Natale in Casa Del Deo? Non tradizionale, ovviamente, almeno secondo la comune concezione della tradizione natalizia; ma comunque "tradizionalissimo", secondo la particolare tradizione laica di famiglia.

Uhm, ora cerco di ricordare... una città bagnata dietro vetri perennemente appannati e più giù il mare agitato nel porto. Raramente, il cappuccio bianco sul Vesuvio. In casa, l'odore untuoso della stufa a kerosene.

Ecco! Poi mi viene in mente la mamma che, in quanto maestra, prendeva le ferie pari pari con noi bambini; questo faceva sì che in casa in quei giorni si respirasse un'atmosfera rilassata e di totale disordine che ricordava l'estate, con la differenza che era inverno. Ci svegliavamo tardi, andavamo a letto tardi, giocavamo spaziando in un tempo che sembrava infinito, aspettando con ansia i nuovi giochi che sarebbero arrivati solo il 6 gennaio, con la Befana. Babbo Natale da noi non esisteva, era roba da film; al massimo, parlavamo di un certo Papà Natale, come di una specie di sciacquino della Befana. Essendo cinque figli con una differenza di nove anni, era piuttosto scontato che la più piccina fosse a conoscenza del trucco fin dalla più tenera età. Ovviamente, stava lo stesso al gioco per paura che la magia potesse svanire e portar via i regali.  

L'ALBERO

In genere si comprava quello con le radici, con la vana speranza che sopravvivesse, illudendosi di farlo diventare bello e gigantesco, da tenere su in terrazza. L'addobbo avveniva con la chiusura delle scuole ed era un momento di creatività collettiva, nonché di numerose schegge di vetro sul pavimento. Mio padre era addetto all'illuminazione: all'epoca si compravano i pisellini colorati, il filo verde sottile e il nastro isolante dello stesso colore. Le serie si confezionavano in casa e, quando si trattava di elettricità, a me piaceva molto aiutare.
All'età di cinque anni, la mia sorellina più piccola disegnò un bell'albero di Natale e sul retro compose un'interminabile poesia che fece crepare dal ridere tutti noi. Cominciava così:
Natale Natalino / non rompere le palle / se no poi sull'albero / che ci mettiamo?
Inutile dire che col passare dei giorni il povero albero si faceva sempre più spoglio, sia per gli aghi che andavano seccandosi al calore della casa, sia per le numerose cadute di palline dai rami più bassi, a portata delle piccole mani nostre e delle zampe dei gatti sempre più numerosi.

 

IL PRESEPE

Ricordo solo un presepe, fatto di colla di farina e carta di giornale, tinto con la terra d'ombra e ricoperto di muschio vero. Un paesaggio tipicamente nostrano modellato da mio padre con "l'aiuto di noi maschi"; un Vomero antico direi, con tanto di torrente e grotta nel tufo. Io ci avrei messo anche il mio trenino scala N... Alcuni dei pastori erano bellissimi, in terracotta, forse dell'epoca in cui noi 5 distruttori ancora non eravamo venuti al mondo. Il Bambinello, che noi chiamavamo Gesubbambino, era invece un po' misero e in plastica, era tutt'uno con la mangiatoia e veniva piazzato lì fin dal principio. Solo da grande ho scoperto che c'è chi lo mette a mezzanotte del 25. C'era poi un pastore che dormicchiava, che io pensavo fosse ritardato mentale, di nome "Benino". In seguito, ho scoperto che in altre case si chiamava Benito, ma da noi quel nome maledetto non veniva mai pronunciato. Da piccoli, per dire "Mussolini" o "fascista", avevamo inventato un termine onomatopeico che riproduceva il suono dello scaracchio: "craippù".
Le più belle comunque erano le pecore che, essendo di plastica, potevano pascolare col nostro aiuto per tutta la casa liberamente e senza pericolo .

 

IL NATALE

Da noi "Natale" non era un giorno o una sera in particolare, era un intero periodo, un po' come l'estate. Sicuramente in quei giorni mia madre (proprio come in estate) si divertiva a cucinare cose particolari, avendo tutto il tempo a disposizione. Ricordo i ravioli a cui collaboravamo un po' tutti, chi tagliando cerchi di pasta col bicchiere; chi mettendo il ripieno di ricotta, uovo, parmigiano, prezzemolo e pepe; chi aggiungendo il pezzettino di mozzarella; chi chiudendo dopo aver bagnato il bordo con un po' d'acqua; chi rifinendo la chiusura, merlettando il bordo con la forchetta.

Solo in seguito ho scoperto che a Natale nelle altre famiglie (che noi bambini chiamavamo "laggente") si faceva il cenone, proprio come nelle commedie di Eduardo, rimanendo praticamente digiuni fino a sera. A me sembrava un'usanza demenziale.

«Ma non siete di Napoli?» era la domanda che "laggente" più frequentemente ci poneva, non solo quando eravamo bambini, ma anche in seguito. La cosa buffa è che fra quelli che conosco sono uno dei più napoletano di tutti, essendo uno dei pochi a poter contare 4 nonni su 4 nati a Napoli (tutti intorno alla fine dell'Ottocento), nonché la maggioranza dei bisnonni.

Da piccoli eravamo soliti suddividere "laggente" in: "eleganti", quelli che se la pensano da schifo, con la puzza sotto al naso; "diseleganti", quelli alla mano, simpatici con cui ci si può avere a che fare.

Avevamo un vocabolario tutto nostro, talmente ricco da permetterci di parlare liberamente fra di noi senza farci capire dagli estranei. Solo agli amici veri insegnavamo la nostra lingua. Tutt'oggi è bellissimo incontrarli dopo anni e anni e accorgerci chiacchierando di usare di nuovo quei termini.

Succedeva che qualche compagno di scuola passava da noi il 24 in preda ai morsi della fame, con la gioia di mia madre che amava aggiungere posti a tavola: e più confusione c'è, meglio è. Così, pranzando insieme a lui, ci facevamo raccontare il menù della serata, con pietanze che i miei genitori conoscevano già, ma che noi ragazzi non avevamo mai sentito nominare. Quella che mi faceva schiattare dalle risate era "l'insalata di rinforzo", perché mi dava l'idea che a un certo punto ci volessero i rinforzi militari per buttare giù tutta quella roba nello stomaco... L'idea di mangiare serpenti invece mi faceva schifo e mi fa schifo tutt'oggi. Il capitone!

In qualunque giorno dell'anno, per far felice mia madre bastava portarle a casa qualcuno che a lei sembrasse affamato; subito lo metteva a mangiare. Non importava che fossero le più scalcagnate fra le prime turiste spagnole del post-franco che sulle spiagge italiane s'erano beccate una micosi integrale invece della tintarella integrale; non faceva nulla se si trattava di un profugo che non si lavava da un mese, in fuga dalla dittatura argentina con in tasca solo la foto-tessera di una ragazza bellissima e nel cuore la preoccupazione del dolore della sua mamma; non andava a indagare su come fosse di nuovo qui da noi per l'ennesima volta quel ragazzo di Budapest che scavalcava la cortina d'acciaio a Gorizia, per venire a passeggiare nella Napoli degli Anni di Piombo con la polizia inferocita a ogni angolo, e che si permetteva anche di protestare, fra le nostre risate, dei piatti troppo abbondanti, in mutande e a torso nudo: «Signora, io troppi shpagheti, poi io fare shkifo!», mettendo in evidenza fra pollice e indice un piccolo rotolino di grasso che gli era spuntato sui fianchi...
Non prima dei 10 anni, credo, scoprii che a mezzanotte, mentre io già ero int'o meglio d'o suonno, c'era una moltitudine che pregava nelle chiese. Mamma mia, uscire con quel freddo! Brr! Anche i bambini! E perché poi? Il Natale non è la festa per stare in famiglia? Uhm, giusto... povero il prete che non ha famiglia! Davvero un bel pensierino andare da lui per tenergli compagnia... bravi, fate così. Ma stonco meglio io int'o lietto!

 

Con noi viveva anche una zia di mia madre, classe 1888. Morta nel 1970. Non diceva una sola parola in Italiano. Parlava un Napoletano che ormai non si sente più da nessuna parte, ricchissimo e raffinato. Con le sorelle e i fratelli parlava invece in Maltese, la seconda lingua della sua famiglia, godendo del fatto che noi non potevamo capirla. Parlava Maltese anche con zio Fernando, classe 1900, rimasto scapolo fino a 72 anni, quando ha sposato una cinquantenne. Colgo l'occasione per descriverlo, perché ne vale. Essendo nato alla Valletta, era cittadino britannico di Sua Maestà la Regina Elisabetta, e tale si sentiva fin nelle ossa. Andava in giro in bombetta e ombrello, o col bastone da passeggio quando c'era il sole. Portava scarpe di due colori, crema e marrone chiaro, e calzini tenuti su con le giarrettiere. Era orafo e viaggiava spesso alla ricerca di pietre preziose. Un salutista ottocentesco incredibile, ma aperto alle innovazioni: infatti, si fregava puntualmente le nostre vitamine Protovit; e, per sfotterlo, noi facevamo la spia alla mamma. Finché era scapolo, era spesso a pranzo da noi. Quando c'era pesce, inforcava degli occhialini tondi per vedere bene le spine. Dopo il caffè, andava a fare la pennichella nella camera di sua sorella. Noi lo spiavamo attraverso i buchi della persiana socchiusa dalla finestra che dava su un unico lungo balcone della casa, per vedere i suoi mutandoni di lana da vero salutista e soprattutto per quei buffissimi reggicalze! Puntualmente, sentendo le nostre risate, faceva finta di arrabbiarsi e chiamava sua sorella affinché intervenisse col battipanni.
 

La vera festa chiassosa era Capodanno, con le bollicine dello spumante che mi uscivano dagli occhi e la testa che girava... La valanga di fuoco colorato che scorreva dai balconi di fronte, dai palazzi dei nuovi ricchi a viale Raffaello... il rumore assordante, i boati, i fischi... l'odore acre che raspava la gola... e le nostre piccolissime stelline e girandole.

Una curiosità

Il giorno 25 del mese ebraico di kislev (che coincide pressappoco con il mese di dicembre) inizia una festa detta Hanukkà, che vuol dire "inaugurazione". Dura 8 giorni e ogni sera si accende una lucina in più e ogni sera si fa un regalino ai bambini.

Il giorno 25 del mese di dicembre (che coincide pressappoco con il mese di kislev) inizia una festa detta Natale, che vuol dire "nascita". Si accendono molte lucine e si fanno molti regali ai bambini. Dopo 8 giorni c'è l'Anno Nuovo.

Può mai essere solo una coincidenza?

Il Natale negli anni del consumismo sfrenato è diventato stupido e pacchiano. I regali, che una volta erano destinati solo ai bambini da parte dei loro genitori (o al massimo da parte dei nonni), sono diventati un obbligo: regali a tutti da parte di tutti, compresi quelli che si stanno vicendevolmente sulle palle. I bambini hanno imparato a scroccare da far paura facendo leva sui sensi di colpa dei genitori che per tutto l'anno hanno avuto sempre troppo da fare, per poter pensare a loro.

C'è chi dice che quest'anno si sta riscoprendo il lato religioso della festa. Allora bisogna ringraziare l'economia che va a rotoli. Su un muro a Napoli c'era una delle mille scritte "by President" che diceva: «Dateci più tasse per farci sognare di più!»

 

Al ritorno a scuola dalle ferie natalizie, arrivava puntuale come una cambiale il temino su "come hai passato le feste?" Ogni anno era la solita solfa e io non sapevo che cavolo inventarmi, visto che il nostro natale non aveva nulla in comune con quelle descrizioni stucchevoli che  facevano all'epoca sui libri di testo. Così mettevo insieme tutti i luoghi comuni che conoscevo e sfornavo l'opera... Eccone un pezzetto del 1969.

 

 

Fulvio Del Deo

 

 

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