23 agosto 2005
Chi sono i palestinesi?
Fulvio Del Deo

 

 

 
In uno dei miei precedenti interventi (Uno strano esodo di Ferragosto) chiedevo: "Ma chi sono questi Palestinesi cui riserviamo sempre un trattamento di favore nonostante abbiano infestato il pianeta coi peggiori terroristi, tra i quali anche il capo di Al Qaeda in Iraq, Al Zarqawi?"
Attraverso le pagine di questo sito, proverò oggi a dare una risposta. Con questa, non ho alcuna presunzione di esaustività, ma spero serva almeno a far vacillare qualcuna delle troppe certezze, presso cui non di rado si annidano i pregiudizi. Ovviamente eviterò di scivolare in facili generalizzazioni, conscio del fatto che ogni essere umano è un individuo a sé con la sua storia e le sue esperienze. Scacciare pregiudizi alimentandone degli altri è ben lungi dalle mie intenzioni e dal mio modo di essere.

Per cominciare, è necessario ricordare che, prima dell'indipendenza dello Stato d'Israele (1948), erano definiti "Palestinesi" gli Ebrei di quella regione, mentre gli attuali Palestinesi erano detti semplicemente "Arabi". Per arrivare all'uso odierno del termine, dobbiamo aspettare il 1967: da quella data in poi, sono "Palestinesi" i cittadini arabi della Cisgiordania, quelli di Gaza, la stragrande maggioranza della popolazione della Giordania.

 
Etimologia

Il nome "Palestina" deriva dal Greco "Phalaistine" e sta a indicare la terra dei "Filistei", popolo indoeuropeo proveniente dall'area egeo-balcanica, che si stabilì nel tratto costiero da Gat a Gaza all'inizio del secolo XII a.C., fondando cinque città sulle quali dominò fino al VII secolo a.C., quando perse la sua individualità politica ed etnica, fondendosi con altri popoli.

Il nome Palestina fu rispolverato dai Romani molti secoli più tardi quando, dopo la repressione della seconda rivolta ebraica nel 135 d.C., rinominarono la terra d'Israele provincia romana di "Syria Palestina"; alla città di Gerusalemme imposero il nome di "Aelia Capitolina" e fu vietato agli Ebrei di entrarvi, allo scopo di cancellare dalla regione ogni segno della loro presenza.

 

Brevi cenni storici

Caduto l'Impero Ottomano, le regioni da cui era composto finirono sotto l'amministrazione di Potenze Mandatarie, o furono colonizzate dagli Stati europei. Nel contempo, ciascun popolo di quel variegato mondo cercò l'indipendenza nella creazione di un proprio Stato nazionale. Da ciò scaturì la necessità di tracciare nuove frontiere, il che comportò in molti casi lo spostamento di grandi masse umane entro confini che fino ad allora non esistevano (giusto per fare un esempio, circa 6 milioni di Greci furono costretti a lasciare le coste dell'Asia Minore.)

Il Mandato Britannico di Palestina

Il territorio del Mandato Britannico di Palestina era suddiviso in due parti dal corso del fiume Giordano che sarebbe dovuto diventare il confine fra i due futuri stati:
Transjordan Arab Land (Giordania), con popolazione a larga maggioranza araba, oltre che beduina ashemita;
Palestine Jewish National Home (Israele), con popolazione a maggioranza ebraica, oltre che una consistente minoranza araba, beduina, drusa, circassa, ecc..
La suddivisione del territorio di Palestina fra Ebrei e Arabi (figura in alto) non avrebbe comportato alcuno spostamento umano, ma si sarebbe limitata a inserire una frontiera di Stato lungo il corso del fiume Giordano. La Storia ci racconta che poi le cose sono andate molto diversamente. Il confine della zona araba venne spostato dagli Inglesi, sotto ricatto petrolifero, sempre più verso il mare, fino ad arrivare al piano di spartizione proposto dall'ONU nel 1947 che proponeva uno Stato ebraico minuscolo e spezzettato in tre tronconi, di cui il più esteso formato dal deserto del Neghev. Tale suddivisione (figura a lato) fu ugualmente accettata dagli Ebrei, senza riserve; però non fu accettata dagli Arabi, i quali non soddisfatti di allargare i propri confini ben oltre il fiume Giordano, pretendevano il possesso dell'intera regione.

 
Spesso si parla della Palestina come di una terra fertile strappata a un popolo arabo che viveva lì felice da secoli. In realtà, le cose stavano ben diversamente: sotto l'Impero Ottomano (1517-1917), molti di quelli che oggi sono fertili campi d'Israele erano desolati latifondi incolti, spesso inadatti perfino al pascolo delle greggi dei pochi nomadi beduini. Mark Twain nel 1867 li descriveva così: "una silenziosa e funerea estensione, una desolazione (...) Non abbiamo mai visto un essere umano sulla strada (...). Perfino gli ulivi e i cactus, quegli amici sicuri di un terreno incolto, hanno per lo più abbandonato il paese (..). La Palestina siede su sacchi di cenere, desolata e brutta..."

Alla fine del Mandato Britannico nel maggio del 1948, truppe arabe formate da eserciti regolari e da volontari nazionalisti panarabi, provenienti da ogni parte, sferrarono un attacco militare su tutti i fronti al nascente Stato d'Israele. Alla fine del conflitto, la situazione era come nella cartina in basso, con la striscia di Gaza annessa dall'Egitto, e la Cisgiordania inglobata dalla Giordania insieme a Gerusalemme, a formare il Regno di Transgiordania. Questa situazione è durata fino al 1967. 

(Fino al 1967, Israele non occupava i territori palestinesi oggi in questione, ma subiva ugualmente attacchi terroristici. I Giordani, una volta conquistata Gerusalemme, requisirono molte case agli Ebrei e vietarono loro di accostarsi al Muro del Pianto, unico luogo sacro al mondo per la religione ebraica.)

Nel 1967, con la Guerra dei Sei Giorni, Israele prese sotto il suo controllo la Cisgiordania, Gaza, la penisola del Sinai e le Alture del Golan. "Gerusalemme venne riunita sotto l’autorità d’Israele: si iniziò immediatamente a ricostruire il quartiere ebraico della Città Vecchia e le famiglie arabe -che avevano occupato le case degli ebrei espulsi dagli arabi nel 1948- vennero a loro volta fatte allontanare. Gli ebrei poterono così tornare a pregare al Kotel (il cosiddetto Muro del Pianto, presso cui dal 1948 al 1967, gli Arabi avevano tassativamente proibito non solo agli Israeliani, ma a tutti gli ebrei del mondo di pregare)" (Santus, 2002).

"In soli sei giorni le Forze di Difesa Israeliane avevano conquistato un’aerea la cui estensione era tre volte e mezzo più ampia dello stesso Stato d’Israele: fu in questo momento di trionfo militare che si fece largo l’idea di restituire terra in cambio di pace. E il 19 giugno, in una riunione di Gabinetto, lo Stato ebraico decise che si sarebbe ritirato dal Sinai e dal Golan in cambio di confini sicuri, ma Il Cairo e Damasco risposero negativamente" (Morris, 2001).

"I sei anni che corrono tra la guerra dei Sei Giorni e la guerra del Kippur furono infatti segnati da un intensificarsi del terrorismo palestinese. Per non fare che qualche esempio, nel dicembre del 1968 un aereo israeliano venne attaccato all’aeroporto di Atene provocando morti e feriti; nel febbraio del 1969 in un grande mercato di Gerusalemme, il "Supersol", una bomba provocò più di trenta vittime. Un aereo della Swissair in volo verso Israele nel 1970 esplose in volo grazie ad un ordigno a tempo: 47 vittime. Nel giugno del 1970 un commando dell’OLP seminò la morte tra un gruppo di pellegrini turisti in Israele: 26 morti e 80 feriti. Il 5 settembre 1972 a Monaco, nel corso delle Olimpiadi, 11 atleti israeliani vennero trucidati da un commando palestinese" (Codovini, 1999).

 
Tra il 1967 e il 1980, nei Territori Occupati "il reddito pro-capite annuale palestinese aumentò nella Striscia di Gaza da 80 a 1700 dollari: in Cisgiordania il P.i.l. quasi quadruplicò" (Kimmerling, Migdal, 1994).
Il numero di automobili decuplicò, quello dei telefoni aumentò di sei volte e quello dei trattori di nove volte. L’aumento dei redditi individuali promosse tra i palestinesi dei Territori un notevole progresso economico, con una crescita annuale media del P.i.l. del 12,9% (contro quella del 5,5% degli israeliani). La rete stradale fu molto migliorata, le abitazioni palestinesi - fino al 1967 quasi del tutto prive di luce elettrica - si collegarono alla rete elettrica israeliana e anche l’assistenza sanitaria migliorò, in quanto i palestinesi poterono godere delle cure offerte dagli ospedali israeliani. Nel corso di questi anni ben dieci università palestinesi videro la luce: una a Gerusalemme, due a Gaza, una a Nablus, una a Jenin, una a Betlemme, una a Birzeit, tre a Hebron (un’università islamica, un politecnico e un’università scientifico-umanistica). (Morris, 2001).

Il 26 marzo 1979 ebbe luogo lo storico accordo tra Israele ed Egitto, ma il terrorismo palestinese non accennò a diminuire. Lo stesso leader egiziano Sadat fu assassinato per aver firmato la pace con Israele.

Nel 1982 l'intero Sinai fu restituito, ma non fu restituita Gaza; o meglio: gli stessi Egiziani la rifiutarono. Perché? Probabilmente perché in quella città, dal 1948 al 1967, sotto la spinta dell'organizzazione Fratelli Mussulmani, era andata a concentrarsi una buona fetta dei diseredati dell'Egitto, attirati dai sussidi dall'ONU per i rifugiati e dalla speranza della "grande vittoria finale contro i sionisti", che avrebbe regalato loro la gloria e una nuova terra.

Per una più chiara e rapida lettura delle vicende arabo-israeliane:
http://www.conceptwizard.com/itl/con_itl.html
 


Cos'è la Palestina? Chi sono i Palestinesi?

 

Il Muftì Al Husseini, zio di Arafat, passa in rassegna le truppe del Terzo Reich

Nel 1946, il Professor Philip Hitti, storico arabo, dichiara alla commissione di indagini Anglo-Americana:

"Non esiste nessuna Palestina nella storia, assolutamente no".

Edizione palestinese di "Mein Kampf" di Adolf Hitler edizione 1995

 

Nel 1956, Ahmed Shukairy, futuro fondatore dell'OLP, organizzazione per la liberazione della Palestina, di fronte  al Consiglio per la Sicurezza delle Nazioni Unite, spiega:

"È comunemente noto che la Palestina non sia altro che il Sud della Siria."

 

Insomma, se la Palestina non esiste, allora questi Palestinesi chi sono?

Il 31 marzo 1977, il giornale olandese Trouw pubblica un'intervista con un membro del comitato direttivo dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Zahir Muhsein. 

Ecco le sue dichiarazioni: 

"Il popolo palestinese non esiste. La creazione di uno Stato Palestinese è solo un mezzo per continuare la nostra lotta contro lo Stato d'Israele per l'unità araba. In realtà non c'è differenza fra giordani, palestinesi, siriani e libanesi. Solo per ragioni politiche e strategiche oggi parliamo dell'esistenza di un popolo palestinese, visto che gli interessi arabi richiedono che venga creato un distinto "popolo palestinese" che si opponga al sionismo. Per motivi strategici, la Giordania, che è uno Stato sovrano con confini definiti, non può avanzare pretese su Haifa e Jaffa mentre, come palestinese, posso indubbiamente rivendicare Haifa, Jaffa, Beer-Sheva e Gerusalemme. Comunque, appena riconquisteremo tutta la Palestina, non aspetteremo neppure un minuto ad unire Palestina e Giordania".
 

Leggiamo l'opinione di  Yasser Arafat:

"Il nostro obiettivo è la distruzione di Israele. Non ci può essere né compromesso né moderazione. No, noi non vogliamo la pace. Vogliamo la guerra e la vittoria. La pace per noi significa la distruzione di Israele e niente altro." (Yasser Arafat su "Esquire", Buenos Aires, 21.3.1971).

"Nulla ci fermerà fino a quando Israele non sarà distrutto. Scopo della nostra lotta è la fine di Israele. Non vi sono compromessi né mediazioni possibili. Non vogliamo la pace: vogliamo la vittoria. Per noi la pace è la distruzione di Israele e niente altro. (Yasser Arafat su "New Republic", 16.11.1974).

"E' nostro diritto avere uno Stato, e non soltanto sulla carta, perché questo Stato sarà uno Stato palestinese indipendente, che servirà come trampolino di lancio dal quale libereremo Giaffa, Akko (città israeliane, ndr.) e tutta la Palestina." (1992).

"La fondazione di uno Stato palestinese in Cisgiordania e in Gaza sarà l'inizio della sconfitta dell'entità sionista. Nella fiducia in questa sconfitta, noi saremo in grado di portare a compimento il nostro obiettivo finale." (1992). 

"La marcia vittoriosa andrà avanti fino a che la bandiera palestinese sventolerà a Gerusalemme e in tutta la Palestina, dal Giordano al mare, da Rosh Hanikra fino a Eilat (città israeliane, n.d.a.)." (1992). 

"Ci sono due fasi del nostro ritorno: la prima fase fino alle frontiere del 1967, la seconda fino alle frontiere del 1948 (nel 1948 non esistevano ancora frontiere: l'intero territorio, ebraico e arabo, era sotto mandato britannico, n.d.a.)." (1992). 

"La riacquisizione dei nostri territori occupati è solo la prima tappa sul cammino della completa liberazione della Palestina" (1992).

"Non abbiamo posato il fucile. Fatah continua ad avere gruppi armati che continueranno ad esistere. Tutto quello che sentirete [di contrario], serve solo ed esclusivamente per scopi strategici." (1992). 

"Il nostro primo obiettivo è il ritorno a Nablus [Cisgiordania], poi proseguiremo per Tel Aviv" (1994).

"Noi aspiriamo alla fondazione di uno Stato che useremo per la liberazione dell'altra parte dello Stato palestinese." (1994).

"La battaglia contro il nemico sionista non è una battaglia che riguarda i confini di Israele, ma l'esistenza di Israele." (1994).

"[Il processo di pace] è soltanto una tregua d'armi fino al prossimo stadio della lotta armata. Fatah non ha mai preso la decisione di cessare la lotta armata contro l'occupazione." (1994).

Lo stesso giorno in cui Arafat firmò la "Declaration of Principles" nel giardino della Casa Bianca nel 1993, spiegò la sua azione alla TV giordana. Ecco cosa disse:

"Visto che non possiamo sconfiggere Israele con la guerra, dobbiamo farlo in diverse tappe. Prenderemo tutti i territori della Palestina che riusciremo a prendere, vi stabiliremo la sovranità, e li useremo come punto di partenza per prendere di più. Quando verrà il tempo, potremo unirci alle altre nazioni arabe per l'attacco finale contro Israele".

 

Ora si spiega perché i capi palestinesi hanno sempre voluto fare uno Stato unico nonostante Gaza e Cisgiordania siano due entità distinte e separate: sono interessati a quello che c'è in mezzo: Israele. La stessa tattica tentata da Nasser quando unificò politicamente Egitto e Siria sotto il nome di Repubblica Araba Unita. Lo stesso sogno delirante: accerchiare Israele e distruggerlo.

Ecco cos'è per loro la Palestina: è Israele senza gli Israeliani. La cartina qui di lato parla chiaro: nei loro siti web la Palestina è così, un Israele abitato da Egiziani di Gaza e da Giordani della Cisgiordania. Forse caccerebbero via anche i 1.300.000 Arabi-israeliani, considerandoli traditori, perché non sono andati a infognarsi nei campi profughi dell'ONU come fecero i 600.000 loro "parenti" che fuggirono dalla guerra del 1948 o che addirittura scelsero di andar via volontariamente per combattere e "tornare vittoriosi", mentre tutto il mondo arabo si mobilitava per distruggere l'"entità sionista" ed estendeva la sua persecuzione antiebraica dallo Yemen fino al Marocco, scacciando i 930.000 Ebrei che lì vivevano da secoli e secoli.

 

Nel 1998, quando gli accordi di Oslo erano già stati firmati e il processo di pace teoricamente in corso, il Fatah di Arafat inserì la sua costituzione sul suo sito internet (http://www.fateh.net/e_public/constitution.htm). 

Vediamone alcuni articoli significativi.

Principi fondamentali

 

Articolo 4 - la lotta palestinese è parte indissolubile della lotta mondiale contro il sionismo, il colonialismo e l'imperialismo internazionale

Articolo 6 - I progetti e gli accordi dell'ONU, o quelli di qualsiasi accordo individuale insidiano i diritti del popolo palestinese, sono illegali e rifiutati.

Articolo 7 - Il movimento sionista è razzista, colonialista e aggressivo nell'ideologia, obiettivi, organizzazione e metodo.

Articolo 8 - L'esistenza israeliana in Palestina è un'invasione sionista con una base espansionistica e colonialista ed è un naturale alleato del colonialismo e dell'imperialismo internazionale.

Articolo 9 - Liberare la Palestina e proteggere i suoi luoghi sacri è un obbligo arabo, religioso ed umano.

 

Obiettivi

 

Articolo 12 - Completa liberazione della Palestina, sradicamento dell'esistenza economica, politica, militare e culturale sionista.

 

Metodi

 

Articolo 17 - La rivoluzione armata popolare è il metodo inevitabile per liberare la Palestina.

Articolo 19 - La lotta armata è una strategia e non una tattica e la rivoluzione armata del popolo arabo palestinese è un fattore decisivo nella lotta di liberazione e nello sradicamento dell'esistenza sionista e questa lotta non cesserà fino a quando lo Stato Sionista non sarà demolito e la Palestina completamente liberata.

 

Nel 1999, nel giorno del suo 70° compleanno, Arafat disse davanti a molti simpatizzanti [ICEJ News Service, August 6, 1999]: 

"Allah volendo, continueremo la nostra battaglia, la nostra Jihad... e ancora una volta entreremo nella città di Gerusalemme come fecero i Musulmani la prima volta."

(le citazioni pubblicate in questo articolo sono tratte da un lavoro di ricerca realizzato da Barbara Mella e pubblicato su   www.ebraismoedintorni.it


Poi nel 2000, quando ci si illudeva di essere a un passo dalla pace, Arafat sputò sugli accordi di pace e scoppiò la cosiddetta Seconda Intifada; mentre i giornali italiani preferivano parlare delle passeggiate di Sharon.

Pubblicisti quali Igor Man e Michele Santoro, per non fare che qualche esempio, si sono più volte scandalizzati per la passeggiata di Sharon -il 28 settembre 2000- sul Monte del Tempio, riferendo a ciò il fallimento del processo di pace tra israeliani e palestinesi, ma mai hanno riferito che quella "passeggiata" era stata preventivamente autorizzata dal capo del servizio di sicurezza palestinese, Jibril Rajub, il quale aveva garantito che tutto si sarebbe svolto senza incidenti (Morris, 2001). Né hanno mai fatto conoscere ai loro lettori la posizione di Imad Al Falouji, ministro palestinese per le comunicazioni, il quale -come riportato da Associated Press e dal quotidiano palestinese Al-Ayyam il 6 dicembre 2000- ha sostenuto che "le sommosse dell'attuale intifadah non sono da mettere in relazione con la visita di Sharon, poiché sono state pianificate dall'Autorità Palestinese -in accordo con le istruzioni ricevute da Arafat- fin dal luglio 2000, dopo la conclusione delle conversazioni israelo-palestinesi di Camp David" (Santus. 2002)

Oggi grazie al cielo, Arafat è morto; Yassin e Rantissi sono stati uccisi dall'esercito israeliano. Così tante cose pian piano cominciano a cambiare e nascono nuove speranze per il popolo palestinese. Inoltre, Israele ha trovato il modo di difendersi dal terrorismo senza essere costretto sempre a combattere con le armi: ha innalzato una barriera. Una soluzione banale, brutta, ma efficacie. Quella barriera varata dal governo laburista di Barak, in alcuni tratti è di cemento ed è davvero orrenda da vedere, però ha ridotto del 90% il numero di attentati. Purtroppo questa non è altro che una misura di difesa, valida soltanto nell'immediato. Indispensabile, ma non risolutiva.

L'unico Palestinese che ho conosciuto di persona era un ragazzo arabo di Gerusalemme; studiava a Napoli perché quello era il solo modo che la sua famiglia -pacifica e di buona cultura- aveva trovato per allontanarlo dalle cattive compagnie che tentavano di fargli il lavaggio del cervello per instillare nella sua mente idee di odio e di morte. Era il 1990. Spero che quel ragazzo oggi sia un uomo maturo, e che sia felice a dispetto della cattiva situazione politica in cui è costretta tutt'oggi a vivere la sua gente. Spero abbia numerosi amici: italiani come me, arabi come lui, ma innanzitutto spero che abbia buoni amici israeliani: la pace nasce dalla reciproca conoscenza.

Quali possono essere dunque gli investimenti a lungo termine per una pace vera e duratura? Oltre alle manovre politiche e militari, io credo che siano importantissime anche le numerose iniziative come quella illustrata nell'articolo che segue. Non sono rare, anche se i nostri media non ne parlano volentieri, ma partono sempre da Israele. Fra i Palestinesi c'è ancora molta paura, perché chi ha contatti d'amicizia con gli Israeliani spesso è nel mirino delle bande armate!

Un campo estivo per bambini aiuta ad abbattere steccati

Se è vero che i bambini imparano pregiudizi e sfiducia dai genitori, per la fortuna di israeliani e palestinesi sembra che vi siano alcuni ragazzi che non hanno ereditato il conflitto dei genitori.
Circa 115 bambini palestinesi di Gerusalemme, Jenin, Ramallah e Gerico hanno avuto la possibilità di interagire con 115 bambini di Israele l'ultima settimana di luglio in occasione dell’apertura del Children Creating Peace Camp a Ramat Gan (Israele).
Secondo Shaul Yotkuvitch, capo del Kaballah Center in Israele, che ha sponsorizzato il campo: “Il primo giorno, dopo pochi minuti, i bambini già giocavano insieme”.
Lo scopo del campo è quello di lasciare che i bambini vedano i loro coetanei dell’altra parte come “vicini, e non come nemici”.
“I bambini palestinesi vengono da molti luoghi diversi, ma per lo più l'unica esperienza che hanno avuto con giovani israeliani si riduce a quella con i soldati nelle strade, e non è positiva”, spiega Yotkuvitch.
Yotkuvitch ha pensato di poter contribuire a far scomparire le barriere tra i bambini con provenienza e background diversi: “L’atmosfera e l’intenzione della pace – osserva – hanno aiutato i bambini a interagire”.
I bambini con background diversi avevano timore, all’inizio, di giocare con i loro coetanei, ma alla fine hanno superato la reticenza, grazie all’atmosfera positiva. “E’ stato commovente – racconta Yotkuvitch – veder cadere tutte gli steccati, e i bambini giocare insieme”.
Il campo, un progetto della Kabbalah Center's Spirituality for Kids Foundation, si è svolto nell’ultima settimana di luglio al Safari Park di Ramat Gan, in Israele.
La Spirituality for Kids Foundation è parte di un programma mondiale che offre conforto ai bambini a rischio in aree violente. Ambizione del Kabbalah Center, e del nuovo campo estivo, è quello di adoperarsi per trasformare le emozioni negative in positive.

(Da: Jerusalem Post, 27.07.05) Nella foto in alto: Hannah e Nadia al Peace Camp for Children

 

Purtroppo nei Territori Palestinesi lavorano anche gruppi di volontari stranieri. Fra di loro abbondano quelli spinti lì da pregiudizi: pacifisti a senso unico e nemici giurati di Israele, che non si fanno scrupolo di spargere veleno su veleno. Loro leitmotiv è che Israele si comporti coi Palestinesi come la Germania nazista con gli Ebrei. Loro specialità è riscrivere la storia, attribuendo tutti i torti solo ed esclusivamente a Israele. Uno fra tutti: la strage perpetrata dai falangisti cristiani libanesi a Sabra e a Chatila, che viene rispolverata a ogni occasione e di cui viene attribuita ogni responsabilità a Israele.

Non si può costruire la pace con le menzogne.

 

Dopo lunghi anni di guerra civile, i libanesi eleggono alla Presidenza del paese un illustre combattente cristiano-maronita, Bashir Gemayel. Prima ancora di prendere possesso della carica, quest'ultimo viene assassinato da terroristi palestinesi. I falangisti cristiani vendicano subito l'assassinio del loro presidente, penetrando nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila e compiendo un vero e proprio massacro. Quasi mille palestinesi vengono sgozzati. La carneficina riempie d'orrore l'opinione pubblica di tutto il mondo, che subito punta il dito contro Israele che controllava la zona. Il governo israeliano non esita a nominare una commissione d'inchiesta che, dimostrando la sua assoluta indipendenza, accerta la responsabilità oggettiva dei comandi militari, ma anche quella politica del governo. I responsabili, riconosciuti colpevoli di non essere intervenuti a impedire la strage, sono tutti esemplarmente puniti. Il ministro della Difesa Ariel Sharon è costretto a dimettersi. 

(Ora facciamo un parallelo con un'altra guerra civile. Negli Anni Novanta, mentre in Iugoslavia ci si  massacrava a più non posso sotto il naso delle truppe di vari paesi d'Europa e dell'ONU, nessuna commissione d'inchiesta ha inchiodato davanti alle proprie responsabilità nessuno, a parte la ridicola ramanzina ai caschi blu olandesi a Srebrenica. Questa è una vera vergogna!)

Comunque, quello di Sabra e Chatila non è il primo caso di massacro operato  dagli Arabi nei confronti di profughi palestinesi: 3.000 secondo la Croce Rossa, (20.000 secondo Arafat) furono le vittime della repressione giordana di una rivolta, seguita a una serie di dirottamenti e atti terroristici, messa in atto dai fedayn palestinesi, nel settembre 1970 (Settembre Nero). Sei anni più tardi, nel luglio del 1976, a Tal el Zaatar in Libano, milizie cristiane e truppe siriane assediarono la località per due mesi. In quell'occasione, i palestinesi uccisi furono 13.000.

 


Viene da chiedersi perché mai i Palestinesi abbiano scelto di perseverare con la guerra e il terrorismo, nonostante abbiano ricevuto solo e sempre batoste, e perché ancora non si decidano a deporre le armi.

In realtà, il popolo non ha avuto nessuna facoltà di scelta ed è stato costretto ad adeguarsi a ciò che gli è stato imposto dalle varie organizzazioni armate che si sono divise il potere. In pace, la vita dei Palestinesi sarebbe stata di gran lunga più felice -inutile dirlo- e i buoni rapporti con Israele avrebbero giovato a entrambi i popoli e al mondo intero. Gaza sarebbe potuta diventare la Montecarlo del Vicino Oriente, se avesse investito per il benessere e il progresso la montagna di soldi ricevuti dalla comunità internazionale e non l'avesse sprecata in armi e giubbotti esplosivi. La Cisgiordania avrebbe potuto diventare la più ricca e tranquilla provincia della Giordania.

Chissà perché il sovrano ashemita Abdallah e la sua consorte palestinese Ranya, entrambi di mentalità aperta e moderna, non ci pensano neanche lontanamente a riprendersi la Cisgiordania, magari come regione autonoma. Evidentemente nessuno vuole più questa patata bollente.

In entrambe le province palestinesi si è finiti in balìa di persone che, fin dalla Seconda guerra Mondiale, hanno saputo sfruttare quel malcontento fisiologico, tipico di ogni comunità allo sbando, non come sprone alla promozione dello sviluppo umano e sociale, ma a beneficio esclusivo del proprio tornaconto personale e della propria sete di potere. Così i Palestinesi si sono trasformati da popolo povero e pacifico qual era, formato in gran parte da pastori e contadini, a un'accozzaglia disumana in cui il livello di violenza è cresciuto in maniera esponenziale, non in conseguenza della repressione israeliana -come si vuol far credere- ma come frutto di una politica dell'odio ben pianificata, alla quale è stato lasciato largo margine di azione dal 1993 in poi. Passando dal controllo israeliano a quello dell'Autorità Palestinese, istituzioni quali le scuole non hanno rappresentato il primo passo verso il dialogo e la pace, bensì sono divenute fucine di odio politico-religioso, inculcato in giovani menti ampiamente ricettive. In conseguenza di ciò, si assiste oggi a una nuova generazione palestinese avvelenata più che mai dall'odio anti-israeliano, condizionata dal fondamentalismo religioso, al punto da sacrificare numerosissime vite alla follia del terrorismo suicida, per il solo cinico scopo di uccidere quanti più Israeliani possibile.


Il problema dei Palestinesi non è Israele, poiché Israele è il primo ad avere interesse affinché nasca uno Stato palestinese con cui rapportarsi civilmente. 

Il problema dei Palestinesi non è la presenza di poche migliaia di Ebrei negli insediamenti: quasi tutti i Paesi al mondo hanno minoranze etniche o religiose (Israele ha una minoranza araba di ben 1.300.000 persone).

Il problema dei Palestinesi non è un territorio spezzettato in due: anche altri Stati lo sono, ma nessuno si sogna di fare il terrorista per questo. 

Il problema dei Palestinesi, anzi il loro dramma, è nell'origine della loro "nazionalità": ogni popolo è libero d'inventarsi una qualsivoglia nazionalità e di far valere il diritto sacrosanto alla propria autodeterminazione; ma bisogna stare attenti a chi se ne fa promotore e a quale scopo. Il dramma dei Palestinesi è nato quando la rivendicazione del loro Diritto all'Autodeterminazione è stata monopolizzata da una banda di malfattori che aveva a cuore tutt'altro che l'autodeterminazione del popolo palestinese, puntando esclusivamente alla distruzione d'Israele. 

Immaginate se la camorra si presentasse all'ONU per far valere il diritto all'autodeterminazione del Popolo Campano!

Le cose si sono notevolmente aggravate quando l'ONU ha abbracciato amichevolmente la suddetta banda criminale, sotto lo sguardo benevolo degli sceicchi del petrolio (e del terrore) e col pieno assenso dell'Europa petrolio-dipendente e fresca di sterminio antisemita. La logica della Guerra Fredda ha fatto poi il resto per decenni, con l'appoggio delle due contrapposte superpotenze, ciascuna in sostegno delle due parti in causa. 

Lo sgombero di Gush Katif con i suoi 8000 abitanti, con le sue scuole, le sue sinagoghe, le sue produzioni agricole da 60 milioni di dollari l'anno, è al centro dei fatti di questi giorni. Israele, in questo modo, ha teso nuovamente una mano ai Palestinesi. L'ultima volta, che l'ha fatto, nell'estate del 2000 con Ehud Barak, ha ricevuto in cambio un morso violento. Oggi la mano è quella di Ariel Sharon. Sharon è un uomo coraggioso e determinato, non ha paura di sperimentare strade difficili. 

Come scrive Furio Colombo sul Corriere: "In questo momento Sharon appare come un fatto raro, praticamene senza uguali nella vita politica del mondo. (...) Israele, il Paese del mondo più ferito e dilaniato dal terrorismo disumano delle bombe umane, sta negando la guerra di civiltà che piace tanto in certe retrovie italiane. Dimostra che ciò che ognuno di noi ha in comune con gli altri è il desiderio (ma anche il bisogno) di fare pace e di vivere accanto."

Sostiene Deborah Fait su Informazione Corretta, che ritirarsi da Gaza "è stata una decisione strategica forse geniale di Sharon che adesso potrà anche decidere e convincere il mondo che vanno fatti finalmente dei confini e che, se i palestinesi li violeranno colla guerra e il terrorismo, la reazione di Israele sarà tremenda!" E constata poi con tristezza che, fra l'esultanza dei media, nessuno al mondo si è fatto avanti dicendo: "adesso tocca ai Palestinesi fare il prossimo passo".

"E' un prezzo altissimo. In cambio, che cosa si otterrà?", mi chiedevo io qualche giorno fa. Spero tanto di trovare la risposta nell'invito di Abu Mazen agli Israeliani che lasciavano in lacrime le loro case: "Ci potrete ritornare da turisti!" Parole che possono suonare strane, sgradevoli in un primo momento, ma -pensandoci bene- è il più bell'augurio che potesse fare. Un tempo anche in Egitto gli Israeliani non potevano andare, mentre oggi sono numerosi fra i turisti.

Con il suo invito Abu Mazen ha preso un impegno e non può più tirarsi indietro, non può più cambiare idea. E vedrà che il suo invito non sarà disatteso. Lo auguro agli Israeliani, lo auguro ai Palestinesi e lo auguro a tutti noi; perché da quel giorno il mondo comincerà a essere un posto migliore. 

Nelle nuove scelte d'Israele personalmente leggo, a breve termine, nuove possibilità di non-guerra, ma non ancora possibilità di pace; vedo una barriera efficacissima bloccare i terroristi; vedo poche migliaia di Ebrei lasciare le proprie case, i propri villaggi per non essere più bersaglio privilegiato di missili e attentati.

Ciò che prevale è la logica della separazione.

Devo prendere atto che forse questa è l'unica via praticabile per oggi, poiché intanto vedo ancora "militanti" di Hamas festeggiare la "liberazione della striscia di Gaza", e promettere di liberare allo stesso modo tutto ciò che secondo loro è "Palestina". 

Ma la vita è un continuo divenire e la Storia richiede tempi lunghi: fra 150 anni, sul Pianeta non ci sarà più nessuna delle persone che ci sono adesso. L'unica che sarà sempre viva sarà la speranza.

Mia speranza -in questo momento- è di non essere stato troppo prolisso e noioso da essere letto una riga sì e una no, e poi frainteso.

Fulvio Del Deo   fd.d@libero.it

 

 

     

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