In un recente convegno qualcuno ha detto che le
nostre carceri sono le più civili del terzo
mondo. Non è una ironica contraddizione in
termini ma la realtà di un sistema penitenziario
che per quanti sforzi possano fare gli
operatori, sta scoppiando. Da sempre paragono
plasticamente il carcere ad una gigantesca
pentola a pressione che nessuno può pensare di
scoprire all’improvviso dopo aver tenuto per
anni il fuoco acceso ed il coperchio chiuso per
non sentirne la puzza.
Da qualche mese questo coperchio è stato
scoperto, prima per le eterne discussioni sulla
grazia a Sofri ed ora per il tentativo di
Pannella di convincere i nostri politici sulla
opportunità di un provvedimento clemenziale di
amnistia.
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Su questo stesso tema mi sono già
soffermato qualche mese fa, con
l’articolo
L’uomo del fiume,
pubblicato lo scorso 16 aprile.
L’attualità dell’argomento, anche su
ViviTelese, è l’occasione per qualche
ulteriore considerazione. Il tema
carcere entra nell’agenda dei politici e
dei giornali a periodi prestabiliti,
spesso coincidenti con le elezioni o con
qualche grosso fatto di cronaca.
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A parte i radicali, che da sempre dimostrano
una particolare attenzione al problema tanto da
farne oggetto ogni martedì di una accurata
trasmissione sulla loro radio, per il resto non
mi pare che un tale argomento sia “attenzionato”
dai politici o dai nostri onnipresenti
opinionisti televisivi.
Il carcere resta un problema, ma un problema da
rimuovere e da lasciare agli addetti ai lavoro,
sia che vivano di qua che al di là dei
cancelli. Questa rimozione, dagli anni ’70 in
poi, non è solo psicologica ma anche fisica e
logistica. Il carcere lascia i centri urbani,
dove ha vissuto per secoli in castelli o
conventi, e si trasferisce nelle estreme
periferie suburbane delle città, lì dove nessuno
lo vede, qualche fermata oltre gli stessi
cimiteri. Ed è tutto dire.
Questo contenitore dove i “buoni” isolano i
“cattivi” , questo male necessario, viene
giornalmente utilizzato e contestualmente
rimosso, dimenticato, cancellato. Chi ci vive o
lavora arranca per uscire allo scoperto e
cercare di portare alla luce un mondo pieno di
contraddizioni, dove vivono e convivono
ideologie contrapposte spesso reciprocamente
impermeabili.
La carcerazione – per i non professionisti del
crimine - è un’esperienza drammatica che
coinvolge in maniera totale la persona, il suo
essere, la sua affettività, la sua famiglia, il
suo lavoro, la sua sfera sociale. Perdita della
individualità, promiscuità, coabitazione,
livellamento di abitudini, commistione
generalizzata, sono solo alcuni degli elementi
che caratterizzano in genere una istituzione
totale (manicomio, ospedale, collegio,caserma)
ma nel carcere si ritrovano in maniera più
esasperata e coinvolgente.
La violenza del carcere non è solo quella che
incide il fisico ma anche quella morale. Il
soggetto detenuto, se non è supportato da una
forte personalità, è portato ad abbandonarsi, a
perdere interesse per le cose della vita, ad
identificarsi nel “gruppo” dei detenuti di cui
fa parte non per sua scelta, ad accettare
passivamente quello che il “gruppo” impone o
quello che l’istituzione gli chiede, a subire la
prevaricazione del più forte, a diventare
insomma “un oggetto” dimenticando di essere “una
persona” con danni gravissimi per il suo
equilibrio psicofisico.
La legge non scritta del carcere diventa il
pane quotidiano e solo in parte è compensata
dalla legge della solidarietà, che in questi
luoghi si sviluppa in maniera altrettanto
spontanea e naturale. I danni irreversibili
prodotti nella sfera psicofisica di chi è
detenuto dovrebbero suggerire alla intera
società di guardare a questo mondo in maniera
responsabile e consapevole. Invece o non se ne
parla o se ne parla in termini forcaioli.Poche
volte con dannoso pietismo. Sempre e comunque
tappandosi il naso come quando si visita una
fetida discarica o bisogna deglutire una amara
medicina.
Noi operatori penitenziari non abbiamo bisogno
di attenzioni schizofreniche che aleggiano ogni
volta sull’onda di correnti alternate
condizionate dagli umori del momento. Si va
dall’ “ammazzali tutti” al “poverini, chissà
cosa gli faranno”.
Il
carcere, come la morte di Totò nella
“Livella”, è una cosa seria. Natale in carcere è
tragico e a nessuno è consentito aggravarne il
peso alimentando inutili illusioni.
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Oggi 60.000 persone vivono dove c’è posto per 46.000. Sia
chiaro : l’amnistia è un provvedimento
tampone con risultati precari e
temporanei. Non serve solo ai detenuti
per ridargli qualche mese di libertà in
attesa di un prevedibile rientro ma
serve soprattutto a deflazionare i
carichi di lavoro dei tribunali ed a
ridare fiato alle strutture
penitenziarie che stanno scoppiando.
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I problemi della giustizia si affrontano in
maniera ben diversa, ad esempio con una
depenalizzazione dei reati minori pur nel
doveroso rispetto delle esigenze di sicurezza
dei cittadini, con il ricorso alle misure
alternative alla detenzione e ai lavori
socialmente utili,con il potenziamento degli
organici,con la snellezza dei processi,con
offerte professionali appetibili per chi sceglie
di operare nel campo della giustizia o della
sicurezza dello Stato, con il potenziamento
delle attività professionali, scolastiche e
lavorative interne alle carceri, con la
possibilità di inserimento per evitare il
fenomeno della recidiva, con la crescita
culturale delle zone suburbane e degradate delle
metropoli che ogni giorno ci fanno assistere ad
episodi di criminalità che colpiscono allo
stomaco per la loro crudezza.
E’ un percorso lungo che cede il posto ad altre
priorità. Le recenti scelte legislative del
governo (vedi le restrizioni all’ordinamento
penitenziario poste dalla recente legge Cirielli)
non aiutano ad alimentare illusioni. Con buona
pace di Pannella e dei suoi ricorrenti
apprezzabili digiuni.
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