19 dicembre 2005
Il pescatore e i pifferai
Aldo Maturo

 

 

In un recente convegno qualcuno ha detto che le nostre carceri sono le più civili del terzo mondo. Non è una ironica contraddizione in termini ma la realtà di un sistema penitenziario che per quanti sforzi possano fare gli operatori, sta scoppiando. Da sempre paragono plasticamente il carcere ad una gigantesca pentola a pressione che nessuno può pensare di   scoprire all’improvviso  dopo aver tenuto per anni il fuoco acceso ed il coperchio chiuso per non sentirne la puzza.

Da qualche mese questo coperchio è stato scoperto, prima per le eterne discussioni sulla grazia a Sofri  ed ora per il tentativo di Pannella di convincere i nostri politici sulla opportunità di un provvedimento clemenziale di amnistia.

 

Su questo stesso tema mi sono già soffermato qualche mese fa, con l’articolo L’uomo del fiume, pubblicato lo scorso 16 aprile. L’attualità dell’argomento, anche su ViviTelese, è l’occasione per qualche ulteriore considerazione. Il tema carcere entra nell’agenda dei politici e dei giornali a periodi prestabiliti, spesso coincidenti con le elezioni o con qualche grosso fatto di cronaca.

A parte i radicali, che da sempre dimostrano  una particolare attenzione al problema tanto da farne oggetto ogni martedì di una accurata trasmissione sulla loro radio, per il resto non mi pare che un tale argomento sia “attenzionato” dai politici o dai nostri onnipresenti opinionisti televisivi.

 

Il carcere resta un problema, ma un problema da rimuovere e da lasciare agli addetti ai lavoro, sia che vivano di qua  che al di là dei cancelli. Questa rimozione, dagli anni ’70 in poi, non è solo psicologica ma anche fisica e logistica. Il carcere lascia i centri urbani, dove ha vissuto per secoli in castelli o conventi, e si trasferisce nelle estreme periferie suburbane delle città, lì dove nessuno lo vede, qualche fermata oltre gli stessi cimiteri. Ed è tutto dire.

 

Questo contenitore dove i “buoni”  isolano i “cattivi” , questo male necessario, viene giornalmente utilizzato e contestualmente rimosso, dimenticato, cancellato. Chi ci vive o lavora arranca per uscire allo scoperto e cercare di portare alla luce un mondo pieno di contraddizioni, dove vivono e convivono ideologie contrapposte spesso reciprocamente impermeabili.

 

La  carcerazione – per i non professionisti del crimine -  è un’esperienza  drammatica che coinvolge in maniera totale la persona, il suo essere, la sua affettività, la sua famiglia, il suo lavoro, la sua sfera sociale.  Perdita della individualità, promiscuità, coabitazione, livellamento di abitudini, commistione generalizzata, sono solo alcuni degli elementi che caratterizzano in genere una istituzione totale (manicomio, ospedale, collegio,caserma) ma  nel carcere si ritrovano in maniera più esasperata e coinvolgente.

 

 La violenza del carcere non è solo quella che incide il fisico ma anche quella morale. Il soggetto detenuto, se non è supportato da una forte personalità, è portato ad abbandonarsi, a perdere interesse per le cose della vita, ad identificarsi nel “gruppo” dei detenuti di cui fa parte non per sua scelta, ad accettare passivamente quello che il “gruppo” impone o quello che l’istituzione gli chiede, a subire la prevaricazione del più forte, a diventare insomma “un oggetto” dimenticando di essere “una persona” con danni gravissimi per il suo equilibrio psicofisico.

 

La legge non scritta del carcere  diventa il pane quotidiano e solo in parte è compensata dalla legge della solidarietà, che in questi luoghi si sviluppa in maniera altrettanto  spontanea e naturale. I danni irreversibili prodotti nella sfera psicofisica di chi è detenuto dovrebbero suggerire alla intera società di guardare a questo mondo in maniera responsabile e consapevole. Invece o non se ne parla o se ne parla in termini forcaioli.Poche volte con dannoso pietismo. Sempre e comunque tappandosi il naso come quando si visita una fetida discarica o bisogna deglutire una amara medicina.

 

Noi operatori penitenziari non abbiamo bisogno di attenzioni schizofreniche che aleggiano ogni volta sull’onda di correnti alternate condizionate dagli umori del momento. Si va dall’ “ammazzali tutti” al “poverini, chissà cosa gli faranno”.

 

Il carcere, come la morte di Totò   nella “Livella”, è una cosa seria. Natale in carcere è tragico e a nessuno è consentito aggravarne il peso alimentando inutili illusioni.

Oggi 60.000 persone vivono dove c’è posto per 46.000. Sia chiaro : l’amnistia è un provvedimento tampone con risultati precari e temporanei.  Non serve solo ai detenuti per ridargli qualche mese di libertà in attesa di un prevedibile rientro ma serve soprattutto a deflazionare i carichi di lavoro dei tribunali ed a ridare fiato alle strutture penitenziarie che stanno scoppiando.

 

I problemi della giustizia si affrontano in maniera ben diversa, ad esempio con una depenalizzazione dei reati minori pur nel doveroso rispetto delle esigenze di sicurezza dei cittadini, con il ricorso alle misure alternative alla detenzione e ai lavori socialmente utili,con il potenziamento degli organici,con la snellezza dei processi,con offerte professionali appetibili per chi sceglie di operare nel campo della giustizia o della sicurezza dello Stato, con il potenziamento delle attività professionali, scolastiche e lavorative interne alle carceri, con la possibilità di inserimento per evitare il fenomeno della recidiva, con la crescita culturale delle zone suburbane e degradate delle metropoli che ogni giorno ci fanno assistere ad episodi di criminalità che colpiscono allo stomaco per la loro crudezza.

 

E’ un percorso lungo che cede il posto ad altre priorità. Le recenti scelte legislative del governo (vedi le restrizioni all’ordinamento penitenziario poste dalla recente legge Cirielli) non aiutano ad alimentare illusioni. Con buona pace di Pannella e dei suoi ricorrenti apprezzabili digiuni.

 

 

 

     

Riflessioni di Aldo Maturo


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