Faceva un gran freddo e don Gennaro se ne accorse appena
scese dal letto. Quella mattina si era alzato
prima del solito perché alle 9 doveva stare al
poliambulatorio dell’ospedale San Carlo per fare
la vaccinazione. Era dall’altra parte della
città e per arrivare fin lì lo aspettavano
almeno due autobus, se non ci si metteva in
mezzo lo sciopero, come aveva sentito al
telegiornale la sera prima.
Donna Concetta era rimasta a letto, raggomitolata sotto le
lenzuola dopo essersi tirata addosso anche la
parte delle coperte di don Gennaro. ”Gennarì,
cambiati i calzini e le mutande, quello può
darsi che il dottore ti visita pure…” urlò con
voce soffocata dalle coperte che le coprivano la
testa. “…ti ho stirato i pantaloni e la camicia
- aggiunse con voce roca - sono sulla stufa…in
cucina….”. Poi tacque e si rigirò sul fianco
destro, spostando i bigodini che le
schiacciavano l’orecchio.
Il pover’uomo le rispose mugugnando mentre, in piedi
davanti al lavandino, guardava infreddolito
l’acqua ghiacciata scorrere dal rubinetto. Ogni
tanto osava infilarci sotto la punta del dito
indice e, attraverso lo specchio, lanciava
un’occhiata alla spia rossa del vecchio
scaldabagni, appeso alle sue spalle, che da
giorni si accendeva e si spegneva indeciso se
continuare a fare il suo dovere intiepidendo
l’acqua almeno per fare la barba, come faceva
da quasi 20 anni, o spegnersi definitivamente
per costringere don Gennaro a chiamare
l’idraulico, mestiere ignoto in quella casa.
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Uscì di casa alle 8 e qualche minuto,
attraversò la strada piroettando tra
macchine e motorini, e si diresse subito
alla fermata del 118. Erano anni che non
usciva così presto di casa e si
meravigliò di vedere tanta gente in giro
a quell’ora. L’autobus arrivò facendosi
largo con rassegnazione tra le auto in
sosta sulla corsia preferenziale. Don
Gennaro salì e riuscì anche ad entrare,
non del tutto in verità e solo perché da
dietro lo spinsero. |
Sentì le porte pneumatiche ansimare e
rinchiudersi sbuffando alle sue spalle e pensò
che di certo avevano
agguantato un lembo del suo cappotto. Provò a
muoversi, a tirare, niente, era come se qualcuno
lo trattenesse da dietro. Un lembo dello spacco
del cappotto era rimasto incastrato in mezzo
alle due porte che si erano schiacciate tra di
loro senza pietà. L’unica cosa era restare
fermo, disinvolto per non far capire agli altri
cosa era successo ed aspettare che le porte si
riaprissero alla successiva fermata per
liberarsi da quell’incomodo. Per un attimo il
suo pensiero andò anche a Donna Concetta e ai
suoi urli, che di certo lo avrebbero rincorso
da una stanza all’altra della casa per
ricordargli ancora una volta, cappotto riverso
sul braccio come vittima incolpevole, che era il
solito maldestro.
Dopo un tempo interminabile arrivò la fermata e qualcuno
scese dalla porta davanti. Lui, che era rimasto
immobile, in piedi sullo scalino della porta di
dietro, si strattonò e riuscì ad avanzare di
quasi un metro,ma senza camminare, spinto solo
da quelli che entravano. Il cappotto era salvo e
una volta a terra, pensò, avrebbe visto con
calma cosa gli era successo.
A Piazzetta S.Maria l’autobus si svuotò perché scesero
tutti gli studenti e la fermata dopo scese anche
lui, per aspettare il 45 sbarrato rosso.
Controllò il cappotto e si consolò perché c’era
solo un segno nero lasciato dalla gomma delle
porte. Forse donna Concetta non si sarebbe
accorta di niente.
Arrivò in ospedale alle nove meno un
quarto,attraversò il viale d’ingresso ed entrò
in un salone immenso, pieno di gente. Su un lato
macchinari in disuso ricoperti di polvere
d’annata e scatoloni vuoti di medicinali. Di
fronte vide un grosso bancone, vetrato come
quello di una banca, e tre file, ognuna da
venti o trenta persone, in attesa davanti a tre
sportelli, anonimi, senza indicazione, senza un
cartello che indicasse il servizio offerto.
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Don Gennaro scelse una fila a caso e
alla signora che lo precedeva chiese a
cosa servissero le tre file. La donna,
una opulenta signora sulla cinquantina
che non si era rassegnata ad accettare
la sua età, gli spiegò con aria
dottorale tutto il processo produttivo
che si snodava davanti ai loro occhi :
la prima fila era per prendere il numero
di prenotazione, la seconda per entrare
nell’ambulatorio dove si faceva la
vaccinazione e la terza per ritirare il
certificato di avvenuta vaccinazione.
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Tra la prima fila
e l’ultima passava un intermezzo di almeno 15
giorni, perché il certificato non si poteva
avere in giornata, dopo aver fatto le prime due
file. “A meno che…” “...a meno che?” ripetè Don
Gennaro con aria incuriosita ed interrogativa.
“...a meno che non vi rivolgete a don Ciro…”
concluse la donna con l’aria di chi aveva già
parlato troppo, indicandogli con un movimento
impercettibile del viso e degli occhi un signore
distinto, con una giacca stazzonata e la
cravatta a mezz’asta, che faceva la spola tra
l’ingresso centrale, il salone e gli uffici
interni, dove si infilava con disinvoltura
attraverso una porta semichiusa alla destra del
bancone principale. Ogni tanto parlava con
qualcuno che usciva dalla terza fila o con altri
in attesa nell’ingresso centrale.
Don Gennaro in circa due ore scalò le prime due
file e finalmente fu ammesso in ambulatorio, una
stanzino squallido, con un lettino in similpelle
tagliuzzata come tante ferite aperte, una
scrivania in metallo bianco scrostato, due
sedie, una per lui e l’altra per il medico che,
con pochi capelli riportati dall’orecchio destro
al sinistro, zappettava sulla tastiera del
computer e non aveva alzato neppure gli occhi.
L’infermiere era in piedi, emaciato, con l’aria
stanca di chi aspetta la fine del turno. Il
dottore gli chiese come si chiamava. “Cacace
Gennaro, 15 gennaio 1935” rispose. I due in
camice si dissero qualcosa e finalmente si
verificò l’evento, la vaccinazione, sul braccio
destro che aveva offerto dopo essersi spogliato
e tirato su la manica della camicia, mentre gli
venivano in mente le inutili previsioni di donna
Concetta.
Si
alzò, si rivestì ed uscì di nuovo nel salone,
sempre pieno di gente in attesa scomposta sulle
tre file.
“
...quindici giorni, ci vogliono 15 giorni” –
sentì dire dall’impiegato del terzo sportello ad
un signore che era arrivato primo in quella
fila.
“Ma a me il certificato mi serve domani” rispose
l’uomo temendo di aver osato chiedere troppo.
“E
vi potevate ricordare prima – rispose
l’impiegato alzando gli occhi al di sopra degli
occhiali incerottati e calati sulla punta del
naso – qui siamo in pochi, ci sono le ferie, non
c’è personale…e scusate...voi dovete capire...”
Don Gennaro capì che era inutile fare
la fila. Si girò e cercò con gli occhi la sagoma
di don Ciro. Lo vide uscire dalla porta accanto
al bancone con dei fogli in mano. Lo seguì fino
all’atrio, a distanza. Lo vide parlare con una
coppia anziana che lo aspettava seduta su una
panchina di ferro e che si era alzata al suo
arrivo. Un breve scambio di fogli e i due
andarono via. Forse era quello il momento,
accelerò, si affiancò a don Ciro e gli spiegò
brevemente che aveva un bisogno urgente di avere
il certificato di avvenuta vaccinazione.
Don Ciro fu gentilissimo, felice di mettersi a
disposizione. Rispose che la cosa si poteva
fare. Con 10 euro il certificato sarebbe stato
pronto l’indomani mattina. Allo sguardo
interrogativo di don Gennaro aggiunse:”vabbè, se
proprio avete fretta, con altri 5 euro può
essere pronto anche tra un’ora”.
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A don Gennaro gli si illuminarono gli
occhi. In un attimo gli venne in mente
che si sarebbe potuto evitare un’altra
alzataccia, l’acqua fredda, i due
autobus, le ore di fila. Accettò ma non
potè fare a meno di chiedere: “Don Cì..scusate…ma
come fate a….”. Don Ciro con aria
professionale rispose: “…e che ci
vuole…quello io prima lavoravo qui…li
facevo io i certificati… li faccio anche
adesso e poi li porto a firmare al mio
amico….” |
“Ma allora la fila qui fuori…i numeretti per
entrare…”
“…e la fila serve per quelli che possono
aspettare il loro turno. Scusate, prima vengono
quelli come voi, quelli che hanno fretta…”
“….sapesse quanta gente debbo aiutare tutti i
giorni…” aggiunse con aria indaffarata sparendo
dietro la porta affianco al bancone. Riapparve
subito, solo con la testa, tenendo la porta
socchiusa: “A proposito,ma voi come vi
chiamate?..” “Cacace...Gennaro Cacace” bisbigliò
don Gennaro con aria soddisfatta, dando
un’occhiata a quei poveracci in fila allo
sportello 3. |