09 Aprile2005
La voglia di vivere
Aldo Maturo

 

 

La mia casa, a Telese, era al quadrivio e, fino a quando non sono andato via per motivi di lavoro, credo di aver avuto una finestra privilegiata sulla vita di questa cittadina che qui aveva il suo epicentro.

Il quadrivio era il nostro “Foro” e i tre bar che vi si affacciavano rappresentavano, a Terme chiuse, i pochi se non gli unici posti di incontro e socialità.

 

 

Foto Aldo Maturo - 1996

 

Il Bar Sport, per lunghissimi anni all’angolo di casa mia,  era il locale pubblico più importante. Credo non abbia mai conosciuto un periodo di crisi e nel grosso salone retrostante hanno trascorso parte della loro vita molti telesini, la sigaretta penzoloni tra le labbra, gli occhi socchiusi, impegnati in continue partite a tressette e scala quaranta mentre i più giovani si alternavano in interminabili tornei di biliardo, dalla “bazzica” alla carambola, in un ambiente che non aveva nulla da invidiare alle tante ricostruzioni cinematografiche. Sempre pieno di fumo, che saliva come nebbia azzurrina verso i lampioni verdi a picco sul bigliardo, il locale alternava il vociare e i commenti più coloriti ad un improvviso religioso silenzio quando un giocatore si impostava in avanti e cominciava a far scivolare più volte la stecca sul ponticello del pollice poggiato sull’indice, prima del tocco che faceva schizzare la palla in geometriche evoluzioni, con un susseguirsi di sponde, palle e rimpalli al cui suono ci si sentiva autorizzati a parlare e rianimare il confuso  cicaleccio. La mia camera era sopra il salone del bar e tante volte ho studiato con il sottofondo di quel “sonoro”. Più volte ho dovuto attendere la fine dei tornei per poter dormire. Ormai ero capace di conoscere le “voci” e non di rado capivo, dagli urli, chi, come o perchè aveva sbagliato, a carte o a bigliardo.

 

Il “Bar ‘e Santella”, per i neon  “Bar Vassallo”,  era poco più avanti, verso la stazione,e aveva l’ingresso principale sul viale mentre l’ “ingresso bigliardino” era di fianco, nell’omonimo “ ‘int ‘u vicolo ‘e Santella”. Era il punto di ritrovo di noi ragazzini non ancora ammessi a giocare al Bar Sport, dove eravamo tollerati al massimo come spettatori silenziosi a braccia conserte, in estasi davanti ai “colpi” di bravura dei più grandi. Da Santella si passava quasi ogni giorno, come per un rito.  Chini sul bigliardino, ci buttavamo in tornei pieni di urla, di sudore e spesso di fazzoletti messi nelle buche delle porte per riciclare a tempo indeterminato l’ultima pallina. I gettoni, infatti,costavano quasi quanto tre sigarette, che si vendevano sfuse, in mano o in una bustina:   20 lire e poi 50, prima di entrare anche loro nella spirale dell’inflazione continua. Il trucco del fazzoletto era garantito da uno della squadra in attesa di giocare, che   faceva da “palo”. Quando si distraeva, puntualmente ci sorprendeva Santella o il povero marito, Don Arcangelo, che entravano all’improvviso, insospettiti da partite interminabili non compatibili con l’acquisto di uno o due gettoni. Ma eravamo certi che irrompevano perchè, con l’orecchio “appizzato”,  non sentivano da tempo il caratteristico tonfo delle 10 palline che al ribaltarsi del raccoglitore precipitano giù ad ogni nuova partita. Ed era quello il momento delle sgridate, del parapiglia e della fuga disordinata dalla vicina porta del vicolo, lasciando spesso nel bigliardino i fazzoletti non recuperati in tempo e di fronte ai quali, vero corpo del reato, non avevamo alcun alibi. Ma il giorno dopo si ritornava e la buona Santella faceva finta di aver dimenticato  i “fetienti” del giorno prima. Dopo qualche anno avemmo la copertura di Fulvio, il figlio più piccolo di Santella, che intanto era cresciuto ed era stato cooptato nella nostra combriccola.

 

L’altro Bar,di fronte al Bar Sport, era più piccolo, ad angolo, privilegiato dai forestieri, riconoscibili dalle immancabili buste e borse, che  lì attendevano la fermata delle “corriere” per  i paesi vicini. Penalizzato dal continuo alternarsi di gestori e di nomi sempre nuovi, poteva contenere due o tre tavolini e chi vi entrava spesso lo faceva solo per una consumazione mordi e fuggi. D’estate,invece, i tavolini dilagavano sul marciapiede, a ventaglio, e per tre mesi chi voleva attraversare il marciapiedi doveva dribblare sedie e tavolini.

 

La concorrenza al Bar Sport venne dal Bar di Cleonice, poco dopo il quadrivio, verso la Chiesa, che un bel giorno piazzò nel locale un bellissimo bigliardo, dove si poteva giocare smollicando fette di pane e mortadella innaffiate con birra e gazzosa. La cosa andò avanti per un pò ma la centralità del Bar Sport ebbe presto il sopravvento.

 

D’estate ci si spostava tutti verso le Terme ed allora uno dei passaggi obbligati era la sosta o il gelato al Bar di Geppino Orfitelli, davanti alle Terme. Pur lavorando alle Poste, aveva aperto in quegli anni un locale di pochi metri quadri, grazioso, con una tettoia a sbalzo, al tempo ardita.  Tutt’intorno, fino al retrostante pergolato, tanti tavolini da dove si teneva sotto controllo il piazzale, delimitato da quattro giganteschi platani che non sapevano di dover un giorno  far da quattro cantoni all’ aiuola con la Madonnina. Dal Bar di Geppino c’era un osservatorio privilegiato per il cancello pedonale delle terme e da lì si partiva a caccia, quando si vedeva entrare o uscire una bella bagnante. E il Bar di Geppino sarebbe diventato, qualche anno dopo, anche il quartiere generale delle Giurie, ogni volta che - rubando il tempo all’università -  organizzavamo la Gimkana o le tante, storiche Caccia al Tesoro, veri safari automobilistici in giro per i paesi della provincia. 

 

La spianata vicino al torrente Seneta, a metà strada tra il quadrivio e la stazione, era il nostro campetto. Pochi coraggiosi ciuffi d’erba, tante pietre e tanta polvere, l’acqua della Seneta,  non ancora cementato, sempre in agguato e pronta a portarsi via i palloni permaflex, nuovi o vissuti.  La porta era delimitata, di volta in volta, dai sassi più grandi, punto di contesa quando una squadra chiamava il goal e l’altra eccepiva il palo o quando il portiere  la restringeva poco a poco col piede,approfittando dell’ammucchiata sotto l’altra porta.

 

La mia generazione ha trascorso interi pomeriggi su quel campetto, ad orario fisso. A Telese, infatti, non c’erano Licei o Istituti Superiori e  la scuola pubblica, per  noi, era a Benevento. Si partiva tutte le mattine, con qualunque tempo, col treno delle sei e cinque dalla vecchia, cara, odiata stazione e si tornava alle due e un quarto di pomeriggio. Il tempo di pranzare e via al campetto, a rincorrere un pallone per più di un’ora. Poi tutti a casa a studiare e smaltire il sudore. Non esisteva un dopo cena, perchè al mattino la sveglia non faceva sconti e il treno, con le carrozze di legno, II e III classe, se ne andava, per quanto ci fossimo organizzati per ritardarne ogni volta la partenza. La complice bonomia del capostazione, infatti, tollerava che chi era arrivato prima, dopo aver passato in rassegna tutti i vagoni senza salire,apriva man mano gli sportelli, dirigendosi verso la coda del treno, mentre a seguire altri complici li richiudevano per dare tempo ai ritardatari di arrivare. Il treno partiva quando erano chiusi gli ultimi  sportelli dell’ultimo vagone, segno che c’eravamo tutti o che comunque, per quel giorno, i dormiglioni di turno, superata ogni tolleranza, dovevano rassegnarsi alla corriera.

 

 

           Terme di Telese - Piscina Goccioloni - 1966

 

D’estate arrivava “il tempo delle mele” e ci si trasferiva in pianta stabile alle terme,dove le giornate trascorrevano in un turbinio di ore tra i “Goccioloni”, la “Pista”, il “Cerro” e, per i più fortunati, la “Pineta”. Le bagnanti non passavano inosservate e le notizie sul loro arrivo, provenienza, tempo di permanenza, albergo o affittacamere, presenza di padri,madri o fratelli pericolosi diventavano, con la complicità di varie fonti di informazione, patrimonio individuale da non condividere con nessuno, se non con gli amici più intimi. Le serate intorno alla “Pista”, con lo storico complesso del maestro Settesoldi, rimanevano suggestive ed indimenticabili, infinita materia di racconti fantasiosi per le lunghe serate d’autunno, sotto un portone o passeggiando lungo il viale ingiallito.

 

             Plastico del Progetto del Lago - 1966

 

Il Lago era l’alternativa alle Terme.  Mega piscina popolare, è stato luogo di balneazione e di battesimo del nuoto per generazioni di ragazzi. Intere famiglie vi confluivano dai paesi e province vicine, lasciando sul posto il segno inconfondibile del loro passaggio. Lo sviluppo del lago è stato oggetto di mille programmi politici e turistici, svaniti come le nebbie invernali che lo coprono nel primo mattino.

 

La nostra vita, da ragazzi prima e da giovanissimi poi, è stata scandita da questi ritmi, vissuta in un paese che sentivamo nostro e di cui eravamo orgogliosi, coltivando mille idee, nel culto dell’amicizia, della condivisione dei sacrifici, delle difficoltà e dei tanti interessi, che pur potevano essere diversificati. Il nostro tempo libero, che comunque è cresciuto con noi in termini di contenuti culturali ed ideologici, era pieno e soddisfacente, nessuno ce lo organizzava e ne eravamo i soli artefici, con mille iniziative, laiche o parrocchiali,  con giornate intere trascorse a programmare, creare e frequentare  circoli culturali, incontri, dibattiti,cineforum, ad organizzare giornalini (allora ciclostilati), manifestazioni teatrali o sportive, cercando di conciliare tutto – anche se non sempre ci si riusciva -  con lo studio e, perchè no, con i primi amori, indigeni o d’importazione.

 

Una vita fatta di poco ma piena di voglia di vivere, di sole, di spazi liberi, di idee, di amicizia, di lunghe ore di studio, di speranze, sconfitte e delusioni,  di programmi per il futuro conditi con canzoni passate alla storia della musica, mentre si avvicinava a grandi passi la rivoluzione culturale del ’68, che pur ci ha trovati in prima linea anche se non tutti dalla stessa parte.

 

 

     

Riflessioni di Aldo Maturo


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