La mia casa, a Telese, era al quadrivio
e, fino a quando non sono andato via per motivi
di lavoro, credo di aver avuto una finestra
privilegiata sulla vita di questa cittadina che
qui aveva il suo epicentro.
Il quadrivio era il nostro “Foro” e i tre
bar che vi si affacciavano rappresentavano, a
Terme chiuse, i pochi se non gli unici posti di
incontro e socialità.
Foto Aldo Maturo - 1996
Il
Bar Sport, per lunghissimi anni all’angolo di
casa mia, era il locale pubblico più
importante. Credo non abbia mai conosciuto un
periodo di crisi e nel grosso salone retrostante
hanno trascorso parte della loro vita molti
telesini, la sigaretta penzoloni tra le labbra,
gli occhi socchiusi, impegnati in continue
partite a tressette e scala quaranta mentre i
più giovani si alternavano in interminabili
tornei di biliardo, dalla “bazzica” alla
carambola, in un ambiente che non aveva nulla da
invidiare alle tante ricostruzioni
cinematografiche. Sempre pieno di fumo, che
saliva come nebbia azzurrina verso i lampioni
verdi a picco sul bigliardo, il locale alternava
il vociare e i commenti più coloriti ad un
improvviso religioso silenzio quando un
giocatore si impostava in avanti e cominciava a
far scivolare più volte la stecca sul ponticello
del pollice poggiato sull’indice, prima del
tocco che faceva schizzare la palla in
geometriche evoluzioni, con un susseguirsi di
sponde, palle e rimpalli al cui suono ci si
sentiva autorizzati a parlare e rianimare il
confuso cicaleccio. La mia camera era sopra il
salone del bar e tante volte ho studiato con il
sottofondo di quel “sonoro”. Più volte ho dovuto
attendere la fine dei tornei per poter dormire.
Ormai ero capace di conoscere le “voci” e non di
rado capivo, dagli urli, chi, come o perchè
aveva sbagliato, a carte o a bigliardo.
Il “Bar ‘e Santella”, per i neon “Bar
Vassallo”, era poco più avanti, verso la
stazione,e aveva l’ingresso principale sul viale
mentre l’ “ingresso bigliardino” era di fianco,
nell’omonimo “ ‘int ‘u vicolo ‘e Santella”. Era
il punto di ritrovo di noi ragazzini non ancora
ammessi a giocare al Bar Sport, dove eravamo
tollerati al massimo come spettatori silenziosi
a braccia conserte, in estasi davanti ai “colpi”
di bravura dei più grandi. Da Santella si
passava quasi ogni giorno, come per un rito.
Chini sul bigliardino, ci buttavamo in tornei
pieni di urla, di sudore e spesso di fazzoletti
messi nelle buche delle porte per riciclare a
tempo indeterminato l’ultima pallina. I gettoni,
infatti,costavano quasi quanto tre sigarette,
che si vendevano sfuse, in mano o in una
bustina: 20 lire e poi 50, prima di entrare
anche loro nella spirale dell’inflazione
continua. Il trucco del fazzoletto era garantito
da uno della squadra in attesa di giocare, che
faceva da “palo”. Quando si distraeva,
puntualmente ci sorprendeva Santella o il
povero marito, Don Arcangelo, che
entravano all’improvviso, insospettiti da
partite interminabili non compatibili con
l’acquisto di uno o due gettoni. Ma eravamo
certi che irrompevano perchè, con l’orecchio
“appizzato”, non sentivano da tempo il
caratteristico tonfo delle 10 palline che al
ribaltarsi del raccoglitore precipitano giù ad
ogni nuova partita. Ed era quello il momento
delle sgridate, del parapiglia e della fuga
disordinata dalla vicina porta del vicolo,
lasciando spesso nel bigliardino i fazzoletti
non recuperati in tempo e di fronte ai quali,
vero corpo del reato, non avevamo alcun alibi.
Ma il giorno dopo si ritornava e la buona
Santella faceva finta di aver dimenticato i
“fetienti” del giorno prima. Dopo qualche
anno avemmo la copertura di Fulvio, il figlio
più piccolo di Santella, che intanto era
cresciuto ed era stato cooptato nella nostra
combriccola.
L’altro Bar,di fronte al Bar Sport, era più
piccolo, ad angolo, privilegiato dai forestieri,
riconoscibili dalle immancabili buste e borse,
che lì attendevano la fermata delle “corriere”
per i paesi vicini. Penalizzato dal continuo
alternarsi di gestori e di nomi sempre nuovi,
poteva contenere due o tre tavolini e chi vi
entrava spesso lo faceva solo per una
consumazione mordi e fuggi. D’estate,invece, i
tavolini dilagavano sul marciapiede, a
ventaglio, e per tre mesi chi voleva
attraversare il marciapiedi doveva dribblare
sedie e tavolini.
La concorrenza al Bar Sport venne dal Bar di
Cleonice, poco dopo il quadrivio, verso la
Chiesa, che un bel giorno piazzò nel locale un
bellissimo bigliardo, dove si poteva giocare
smollicando fette di pane e mortadella
innaffiate con birra e gazzosa. La cosa andò
avanti per un pò ma la centralità del Bar Sport
ebbe presto il sopravvento.
D’estate ci si spostava tutti verso le Terme ed
allora uno dei passaggi obbligati era la sosta o
il gelato al Bar di Geppino Orfitelli, davanti
alle Terme. Pur lavorando alle Poste, aveva
aperto in quegli anni un locale di pochi metri
quadri, grazioso, con una tettoia a sbalzo, al
tempo ardita. Tutt’intorno, fino al retrostante
pergolato, tanti tavolini da dove si teneva
sotto controllo il piazzale, delimitato da
quattro giganteschi platani che non sapevano di
dover un giorno far da quattro cantoni all’
aiuola con la Madonnina. Dal Bar di Geppino
c’era un osservatorio privilegiato per il
cancello pedonale delle terme e da lì si partiva
a caccia, quando si vedeva entrare o
uscire una bella bagnante. E il Bar di
Geppino sarebbe diventato, qualche anno dopo,
anche il quartiere generale delle Giurie, ogni
volta che - rubando il tempo all’università -
organizzavamo la Gimkana o le tante, storiche
Caccia al Tesoro, veri safari automobilistici in
giro per i paesi della provincia.
La spianata vicino al torrente Seneta, a metà
strada tra il quadrivio e la stazione, era il
nostro campetto. Pochi coraggiosi ciuffi
d’erba, tante pietre e tanta polvere, l’acqua
della Seneta, non ancora cementato, sempre in
agguato e pronta a portarsi via i palloni
permaflex, nuovi o vissuti. La porta era
delimitata, di volta in volta, dai sassi più
grandi, punto di contesa quando una squadra
chiamava il goal e l’altra eccepiva il
palo o quando il portiere la restringeva
poco a poco col piede,approfittando
dell’ammucchiata sotto l’altra porta.
La mia generazione ha trascorso interi pomeriggi
su quel campetto, ad orario fisso. A Telese,
infatti, non c’erano Licei o Istituti Superiori
e la scuola pubblica, per noi, era a
Benevento. Si partiva tutte le mattine, con
qualunque tempo, col treno delle sei e cinque
dalla vecchia, cara, odiata stazione e si
tornava alle due e un quarto di pomeriggio. Il
tempo di pranzare e via al campetto, a
rincorrere un pallone per più di un’ora. Poi
tutti a casa a studiare e smaltire il sudore.
Non esisteva un dopo cena, perchè al mattino la
sveglia non faceva sconti e il treno, con le
carrozze di legno, II e III classe, se ne
andava, per quanto ci fossimo organizzati per
ritardarne ogni volta la partenza. La complice
bonomia del capostazione, infatti, tollerava che
chi era arrivato prima, dopo aver passato in
rassegna tutti i vagoni senza salire,apriva man
mano gli sportelli, dirigendosi verso la coda
del treno, mentre a seguire altri complici li
richiudevano per dare tempo ai ritardatari di
arrivare. Il treno partiva quando erano chiusi
gli ultimi sportelli dell’ultimo vagone, segno
che c’eravamo tutti o che comunque, per quel
giorno, i dormiglioni di turno, superata ogni
tolleranza, dovevano rassegnarsi alla
corriera.
Terme di Telese -
Piscina Goccioloni - 1966
D’estate arrivava “il tempo delle mele” e ci si
trasferiva in pianta stabile alle terme,dove le
giornate trascorrevano in un turbinio di ore tra
i “Goccioloni”, la “Pista”, il “Cerro” e, per i
più fortunati, la “Pineta”. Le bagnanti
non passavano inosservate e le notizie sul loro
arrivo, provenienza, tempo di permanenza,
albergo o affittacamere, presenza di padri,madri
o fratelli pericolosi diventavano, con la
complicità di varie fonti di informazione,
patrimonio individuale da non condividere con
nessuno, se non con gli amici più intimi. Le
serate intorno alla “Pista”, con lo storico
complesso del maestro Settesoldi, rimanevano
suggestive ed indimenticabili, infinita materia
di racconti fantasiosi per le lunghe serate
d’autunno, sotto un portone o passeggiando lungo
il viale ingiallito.
Plastico del Progetto del Lago - 1966
Il
Lago era l’alternativa alle Terme. Mega piscina
popolare, è stato luogo di balneazione e di
battesimo del nuoto per generazioni di ragazzi.
Intere famiglie vi confluivano dai paesi e
province vicine, lasciando sul posto il segno
inconfondibile del loro passaggio. Lo sviluppo
del lago è stato oggetto di mille programmi
politici e turistici, svaniti come le nebbie
invernali che lo coprono nel primo mattino.
La nostra vita, da ragazzi prima e da
giovanissimi poi, è stata scandita da questi
ritmi, vissuta in un paese che sentivamo nostro
e di cui eravamo orgogliosi, coltivando mille
idee, nel culto dell’amicizia, della
condivisione dei sacrifici, delle difficoltà e
dei tanti interessi, che pur potevano essere
diversificati. Il nostro tempo libero, che
comunque è cresciuto con noi in termini di
contenuti culturali ed ideologici, era pieno e
soddisfacente, nessuno ce lo organizzava e ne
eravamo i soli artefici, con mille iniziative,
laiche o parrocchiali, con giornate intere
trascorse a programmare, creare e frequentare
circoli culturali, incontri,
dibattiti,cineforum, ad organizzare giornalini
(allora ciclostilati), manifestazioni teatrali o
sportive, cercando di conciliare tutto – anche
se non sempre ci si riusciva - con lo studio e,
perchè no, con i primi amori, indigeni o
d’importazione.
Una vita fatta di poco ma piena di voglia di
vivere, di sole, di spazi liberi, di idee, di
amicizia, di lunghe ore di studio, di speranze,
sconfitte e delusioni, di programmi per il
futuro conditi con canzoni passate alla storia
della musica, mentre si avvicinava a grandi
passi la rivoluzione culturale del ’68, che pur
ci ha trovati in prima linea anche se non tutti
dalla stessa parte.
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