Un po’ in ritardo ho provato ad accostare
due momenti elettorali che,
malgrado la
vicinanza temporale, mi sono
apparsi distanti se non in netta
antitesi tra loro, in termini sia
quantitativi che qualitativi. Mi riferisco
alle elezioni amministrative
di Aprile e al
referendum del 13 Giugno scorso.
Nell’arco di 2 mesi, in moltissime zone
d’Italia i nostri concittadini sono stati
chiamati a votare per ben 3 volte: al primo
turno delle amministrative, al secondo
turno - laddove
si è dovuto ricorrere al ballottaggio - e
per il referendum.
Era facilmente prevedibile che qualcuno si
potesse stancare, o quantomeno non avesse
più tanta voglia
di recarsi alle urne, tenendo conto del
caldo afoso, dell’opera di oscurantismo e
disinformazione svolta dai mass-media e
dalla classe dirigente nazionale, senza
considerare altri motivi, più contingenti e
secondari, che hanno pesato negativamente in
quanto hanno contribuito a distogliere la
gente dal sano proposito di andare a votare.
Infatti,
nel caso delle elezioni amministrative
l’affluenza alle urne è stata elevata, quasi
da primato nazionale. Invece, in occasione
del voto referendario il primato è stato
diametralmente opposto, nella misura in cui
il tasso relativo all’astensionismo è
risultato il più alto nella sequenza storica
dei referendum nazionali e non solo.
Mi sorge dunque spontaneo un interrogativo:
perché la gente diserta in massa le urne
elettorali quando
può intervenire sui propri problemi e
bisogni, mentre affolla i seggi quando in
gioco ci sono più che altro squallidi scopi
di potere che, almeno in teoria, le
dovrebbero essere estranei?
Non è questo un comportamento collettivo
alquanto contraddittorio, almeno in
apparenza?
I cittadini italiani, non solo sono stati
indotti a non votare per il referendum,
sono stati esortati a
recarsi al mare per sfuggire al caldo,
addirittura sono stati “deportati”
sotto gli ombrelloni - ovviamente il mio
vuol essere un commento ironico.
Tuttavia, pensandoci seriamente mi ripugna
constatare come il diritto-dovere di voto
venga valutato
secondo la logica, assolutamente becera, dei
“due pesi e due misure”, cioè secondo le
diverse convenienze politiche, in base a
scopi puramente economici di stampo
classista.
Giudico ignobile cercare in tutti i modi di
incoraggiare i cittadini a votare in massa
per promuovere un ceto politico che mira
solo a perpetuare il proprio potere e si
stringe intorno a meschini interessi che
premiano solo un’esigua minoranza
di affaristi
della politica, mentre con ogni mezzo si
tenta di dissuadere la gente dall’andare a
votare quando la posta in palio è costituita
dai diritti inalienabili di ogni cittadino,
cioè quando si tratta di espandere l’area
della legalità costituzionale su cui si
fondano il benessere e la giustizia sociale
e da cui scaturiscono i massimi vantaggi di
natura politico-democratica dell’intera
comunità nazionale.
E’ probabile che il referendum sia diventato
un “arnese” ormai abusato, un “anticaglia”
politicamente inservibile in quanto sembra
non avere più alcuna validità ai giorni
nostri.
Di sicuro, con le attuali regole, esso non
rappresenta più una misura
vincente ma
costituisce una scelta assolutamente
fallimentare.
Mi chiedo come si sia
potuto compiere un simile sperpero,
nella misura in cui è stato dissipato un
prezioso strumento di democrazia diretta
concesso ai cittadini dalla nostra
Costituzione.
Insomma, dopo aver constatato quel dato di
fatto di cui non si può negare l’evidenza,
non sarebbe male compiere uno sforzo per
cercare di svelare l’intreccio causale che è
all’origine del problema, ossia le ragioni
che hanno determinato lo svuotamento di
forza e di senso dell’istituto referendario.
Se si pensa che in altre nazioni
dell’occidente, in modo particolare negli
Stati Uniti d’America, il tasso
dell’astensionismo elettorale ha raggiunto
un livello cronico, oltrepassando quote da
primato mondiale ( basti ricordare, ad
esempio, che il presidente
Bush è stato
rieletto in pratica con il 20
% dei consensi effettivi del popolo
statunitense), si evince facilmente come sia
urgente, oltre che opportuno, intervenire
con provvedimenti legislativi volti a
modificare alcuni meccanismi elettorali
ormai antiquati, provando anzitutto ad
abbassare il quorum necessario per
convalidare una consultazione referendaria,
ma non solo.
Ebbene,
il recente risultato referendario, se è da
ritenersi deludente, conferma soltanto una
tendenza in atto già da molti anni che, con
il voto del 13 Giugno scorso, ha raggiunto
il suo limite storico, nella misura in cui è
da tempo che l’istituto del referendum ha
cessato di essere uno strumento utile per
promuovere ed eventualmente vincere
determinate battaglie politico-sociali,
concernenti questioni vitali per una
democrazia ed uno stato di diritto.
La spinta
positiva, in senso
democratico-partecipativo,
dell’istituto referendario, ha funzionato
soprattutto negli anni ’70, in occasione dei
referendum sul divorzio e sull’aborto,
esaurendosi in quella fase. Non c’è dubbio
che tale forza propulsiva si
è dispiegata
soprattutto in un contesto storico più
generale in cui era prevalente l’azione
progressista esercitata dai partiti politici
e dai movimenti sociali negli anni che
intercorrono dal 1968 al 1977. In quel
decennio la prassi e la funzione dei partiti
e dei movimenti politici, dei sindacati e
di altre
istituzioni democratiche, erano assai
diffuse e rilevanti nella nostra società
come anche in altre nazioni dell’occidente.
In un certo senso l’attuale processo di
crisi dell’efficacia politica dell’istituto
referendario, come pure
di altri organi della democrazia
liberal-borghese,
rappresenta uno dei principali indicatori di
una situazione più articolata e complessa
che investe l’intera società contemporanea.
Mi riferisco al declino della democrazia nel
suo complesso, non solo nelle sue forme più
dirette e partecipative - come nel caso del
referendum o di
altre pratiche assembleari -, ma altresì
nella sua versione classica di origine
liberale, una crisi che assale l’ordinamento
parlamentare borghese, che è un cardine
della tradizione politico-costituzionale
dell’occidente.
Un simile argomento richiede un ampio spazio
di riflessione e non può risolversi in poche
righe perché
risulterebbe svilito e banalizzato,
nella misura occorre affrontare il tema
della cosiddetta “globalizzazione
neocapitalista”, o meglio della
“globo-colonizzazione” del mondo secondo un
modello economico-sociale e
politico-istituzionale che è in fase di
costruzione e di imposizione su scala
planetaria ma che è di provenienza
anglosassone.
Certo, sussistono altri elementi che hanno
concorso alla progressiva decadenza
dell’istituto referendario. Si tratta di
fattori episodici e contingenti,
comunque poco
rilevanti, ma che si collocano nel quadro
più vasto della crisi della democrazia e
della sovranità degli stati nazionali, ormai
soppiantati da apparati decisionali più
forti e da nuovi assetti di comando e di
gestione dell’economia e della società, che
poco o nulla hanno di democratico, nella
misura in cui si tratta di organismi non
elettivi ma di carattere economico e
verticistico (si
pensi al Fondo Monetario Internazionale,
alla Banca Mondiale, alle multinazionali,
eccetera).
La prepotente ascesa di tali strutture di
controllo economico-politico a livello
planetario, sta ridimensionando, se non
addirittura svuotando il potere dei vecchi
stati nazionali basati sulla democrazia
parlamentare ed ispirati da ragioni e
sentimenti di
origine ottocentesca, essendo il liberalismo
una corrente politico-culturale nata e
sviluppatasi nel secolo XIX, sopravvissuta
fino al XX secolo ma divenuta ormai
anacronistica. Ciò è vero non perché lo
afferma il sottoscritto, ma perché lo
attesta la realtà della storia, con la sua
cruda e spietata forza di persuasione.
In questa nuova dimensione,
senz’altro riduttiva ed
umiliante, della politica e degli
stati nazionali moderni, è possibile
cogliere e comprendere la funzione di un
sistema
democratico-rappresentativo che si
delinea con tratti sempre più autoritari, al
punto che oggi è lecito parlare di
“democrazia autoritaria”, con tutti gli
effetti devastanti e degenerativi che ciò
comporta sul terreno delle istituzioni
politico-democratiche più tradizionali, tra
cui il referendum.