Seiko
Ikeda Hibakusha
Avevo 13 anni e frequentavo la
seconda media. Stavo lavorando alla
difesa civile, come gli altri
ragazzi delle scuole. Vidi con i
miei occhi gli orrori del
bombardamento atomico. Ringrazio Dio
per avermi permesso di sopravvivere
fino ad oggi, nonostante le
radiazioni, sì da poter essere qui
oggi per condividere con voi la mia
esperienza. A Hiroshima vivevano
all'epoca 350mila persone. Nell'arco
di pochi secondi la bomba atomica
spazzò via la mia città. Nel raggio
di 4 chilometri dall'epicentro tutto
fu bruciato e distrutto. Da 130 a
150mila persone morirono
immediatamente o nei cinque mesi
successivi. Secondo le stime più
affidabili, nel 1950, cinque anni
dopo l'esplosione della bomba, erano
morte più di 200mila persone. Di
queste, solo 20mila erano soldati
giapponesi e forse altri 20mila
erano soldati stranieri. Fu un
massacro di civili. La bomba
atomica, chiamata Little Boy, pesava
quattro tonnellate e conteneva quasi
un chilo di uranio: il peso di 15
uova di gallina.
Al
momento dell'esplosione si formò una
palla di fuoco di un milione di
gradi centigradi. Si dice che questa
palla di fuoco avesse un diametro di
2-300 metri. Quando esplose la
bomba, la temperatura all'esterno
del fungo atomico raggiunse invece
4mila gradi. Considerate che i
metalli fondono a 1530 gradi, mentre
il vetro fonde a 700-800 gradi. La
temperatura raggiunse quindi livelli
superiori a quelli di un altoforno.
I corpi umani bruciarono
all'istante, come la città stessa.
Alcuni dicono che, in temperature
del genere, un corpo umano evapora.
Poi l'onda d'urto. L'esplosione
travolse tutto ciò che si trovava
nel raggio di 16 chilometri
dall'epicentro. Con la
sovrapressione sprigionata, un boato
sonico esplose in tutte le
direzioni. Infine lo spostamento
d'aria, come un vento fortissimo.
Questa è l'energia sprigionata
dall'onda d'urto. La velocità
massima dello spostamento d'aria
raggiunse 440 metri al secondo,
inimmaginabile se pensiamo che
nessuno degli uragani che ha colpito
il Giappone negli ultimi
sessant'anni ha mai superato gli
85,3 metri al secondo. Una forza
talmente potente non solo da
scaraventare le persone contro gli
edifici ma anche da strappare la
pelle dai corpi umani. A molti, la
pressione fece anche saltare gli
occhi fuori dalle orbite ed
esplodere gli organi interni.
Autobus e tram furono spazzati via
come fuscelli, gli edifici in legno
furono livellati e anche quelli in
muratura furono devastati.
Poi
ci furono le radiazioni. Questo
avviene solo dopo l'esplosione di
bombe nucleari. La radiazione
naturale, che non ha conseguenze
sull'uomo, si misura in Sievert: i
danni agli esseri umani iniziano
alla soglia di un milli-Sievert.
Nell'esplosione della bomba atomica
su Hiroshima, la zona nel raggio di
un chilometro dall'epicentro fu
investita da radiazioni che
raggiunsero 4 Sievert. Le persone
che si trovavano a 100-200 metri
dall'epicentro furono colpite da 17
Sievert, cioè 17mila volte il
livello di soglia minima che inizia
a causare danni al corpo umano.
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La combinazione di
onda termica, onda d'urto e
radiazioni fece danni terribili,
peggio di quanto chiunque avesse
potuto immaginare. Nessun poeta,
nessun pittore potrà mai descrivere
in parole o immagini le scene di
questa tragedia senza precedenti
nella storia dell'umanità. Anche
coloro che ne furono testimoni e ne
subirono le conseguenze hanno
difficoltà a descrivere con
precisione l'evento. E ricordare
solo una parte di ciò che avvenne è
molto lontano dal dare un quadro
complessivo degli avvenimenti.
Sono passati 60 anni.
Ma per me, vittima della bomba, il
ricordo di quel giorno terribile è
più vivo di quanto non lo siano i
sogni della notte scorsa. Da 60
anni, la paura, la tristezza e il
dolore sono il pane quotidiano per
noi, sopravissuti alla bomba. Paura
delle conseguenze sconosciute di
un'esplosione atomica sul corpo
umano. Angoscia per una morte che ci
può cogliere in ogni momento. Quel
giorno, il 6 agosto, mi trovavo a un
chilometro e mezzo dall'epicentro
dell'esplosione, nel quartiere
Tsurumi-Cho. Avevo 13 anni. I
ragazzi delle scuole erano stati
mobilitati nello sforzo bellico del
Paese ed io stavo aiutando a
sgomberare un edificio evacuato.
Improvvisamente, un bagliore di luce
fortissima, mille volte, o forse
diecimila volte, più luminoso del
lampo di un temporale, con scintille
tutt'intorno. Un fortissimo boato e
poi tutto fu buio. Fui scaraventata
a circa 15 metri dall'onda d'urto.
Quando ripresi conoscenza, mi resi
conto che i miei capelli erano tutti
increspati e i miei vestiti erano
bruciati. Dalle mani e dai piedi si
stava staccando la pelle, lasciando
scoperta la carne viva. Ero nuda, ma
non mi vergognavo, pensavo solo a
gridare aiuto. Ero in mezzo a tante
altre persone e tutte urlavano e
cercavano aiuto. Tutti ci muovevamo
nella stessa direzione, come una
processione di fantasmi. La bella
città di Hiroshima trasformata in
una distesa di fiamme, di rovine
annerite.
Ammassati qua e là,
mucchi di cadaveri che sembravano
pesci lasciati a bruciare sulla
griglia, talmente devastati dalle
fiamme che era impossibile capire se
si trattava di un uomo o di una
donna, o se un corpo più piccolo
fosse quello di un bambino o di un
anziano. E poi c'erano persone che
non riuscivano a respirare,
asfissiati dal proprio sangue, e
altri che non avevano più la forza
di chiedere aiuto. Continuavo a
camminare, passando accanto ai morti
e ai feriti. Il corpo mi bruciava e,
insieme ad un'amica, mi gettai nel
fiume. Quando guardai la faccia
della mia amica vidi la pelle che le
colava via dal viso come cera
sciolta dal calore. Mi immaginai che
anche il mio viso era come il suo.
Si buttavano nel fiume sempre più
persone ferite e ustionate. Il fiume
era pieno di gente. Molti stavano
morendo, e man mano scomparivano
nell'acqua. Altri corpi, gonfi,
galleggiavano, trasportati dalla
corrente.
Quando uscii
dall'acqua sentii delle persone che
gridavano, chiedendo aiuto, da sotto
le macerie delle case distrutte. Ero
solo una ragazzina. Non potendoli
aiutare, scappai via. Mi turai le
orecchie per non sentire le grida di
aiuto della gente. Mentre stavo
scappando, vidi un vecchio ferito
gravemente che mi guardava e
chiedeva dell'acqua da bere. Scappai
anche da lui. Tutti questi momenti
me li ricordo ancora benissimo. Più
tardi, mi domandai spesso che cosa
ne era stato di quelle persone. Mi
fa ancora star male il pensiero di
non aver potuto far niente per
aiutarli.
So che voi sapete che
le bombe atomiche uccidono un numero
enorme di persone. Ma è peggio,
perché è una morte senza pietà.
Prima di uccidere, le bombe nucleari
strappano alle persone la loro
umanità. Dall'alto di un colle
guardai la città di Hiroshima: case
bruciate, edifici crollati, incendi
un po' dappertutto. Mi sembrava di
osservare una città diversa,
attraverso l'obiettivo di una
macchina fotografica. Hiroshima non
esisteva più. L'enorme calore
dell'esplosione aveva appiccato
incendi ovunque. L'intera città fu
avvolta dalle fiamme, un mare di
fuoco. Le persone intrappolate sotto
le macerie furono arse vive. Scesi
giù dalla collina e mi diressi verso
la strada statale che dal quartiere
Danbara-Cho attraversava il ponte
Taisho. Lì incontrai i ragazzi della
scuola superiore, insanguinati e
nudi, che piangevano e correvano.
Una donna mi dette un pezzo di
tenda, preso da una casa crollata,
per coprirmi dalla vita in giù.
(Quel giorno tutti gli studenti dei
primi anni delle scuole superiori,
in tutto 8.521 ragazzi e ragazze,
erano stati mandati a lavorare nei
campi: ne morirono 6300.)
Un camion poi mi trasportò, con
altri feriti, ad un ospedale a
Kaita-Cho. Avevo fortissimi dolori
perché i miei vestiti si erano
sciolti per il calore della bomba
atomica e si erano fusi con la
pelle. Ma ero cosciente e lucida.
All'ospedale dove mi prestarono le
prime cure c'erano persone con
ferite terribili. Arrivavano a
ondate e ben presto l'ospedale era
stracolmo. Misero delle stuoie in
terra nei corridoi, perché i feriti
potessero sdraiarsi, come pesci
esposti al mercato. Anche qui non
era possibile capire se questi corpi
gonfi e anneriti appartenessero a
donne o uomini. Alcuni gridavano,
chiamando la mamma o il papà, e
chiedendo acqua. Ma non c'era acqua
a sufficienza e molti morirono in
mezzo a terribili sofferenze,
coperti di mosche, con i vermi nelle
ferite purulenti, in mezzo ad un
fetore insopportabile. Morirono così
tante persone che si organizzarono
dei camion per portar via i cadaveri
ammucchiati. Ricordo di aver visto
nei mucchi molti corpi con mani e
piedi piccoli. Più tardi, seppi che
i cadaveri venivano accatastati
all'esterno e bruciati con il
petrolio, sebbene per le famiglie il
corpo dei propri morti sia sacro.
Dopo le cure stavo un
po' meglio e riuscii ad
addormentarmi in una stanza. Ma
quando mi svegliai le palpebre erano
talmente gonfie che non riuscivo ad
aprire gli occhi e la bocca riuscivo
solo a socchiuderla. In modo
fortunoso mio padre aveva saputo che
ero stata trasportata in
quell'ospedale; insieme ad un vicino
di casa, venne a cercarmi con una
barella. Il mio povero babbo non
riusciva a riconoscere sua figlia
tra tutti i feriti. Si aggirava
nelle corsie chiamando: «Seiko, il
tuo papà è venuto a prenderti».
Quando sentii la sua voce, gridai
«Papà» ma non riuscivo a vederlo. Mi
trasportarono a casa con la barella
quella notte, perché ci dissero che
era pericoloso muoversi di giorno.
Quando rientrai al
villaggio non era facile essere
assistiti da un medico. Molti si
arrangiavano alla meglio con le cure
in casa. Due volte al giorno mio
padre ripuliva le mie ferite,
asportando il pus e applicando
ossido di zinco e olio di ricino
alle ustioni. Urlavo per il dolore e
lui mi rimproverava. Il dolore era
atroce, come se mi stesse scuoiando.
Avevo una fortissima diarrea,
vomitavo, ed avevo la febbre alta;
gridavo per il dolore e non ero
molto lucida. Ero davvero tra la
vita e la morte e i vicini
cominciarono a prepararmi il
funerale. Quando invece sopravissi,
tutti parlarono di miracolo.
Due giorni dopo
l'esplosione della bomba, una mia
compagna di scuola delle elementari,
Chie Okisue, tornò al villaggio da
Hiroshima. Non era ferita e fu una
grande gioia per la sua famiglia. Ma
dopo meno di un mese cominciò a star
male e non riusciva più ad alzarsi
da letto. Quando la mattina si
pettinava, i capelli le restavano in
mano a ciocche, finché non li perse
tutti. Poi il torace e lo stomaco si
indurirono e comparvero in tutto il
corpo macchie viola. Cominciò a
perdere sangue dal naso, dalla
bocca, dalle orecchie. Quando
finalmente arrivò un medico, la
madre era ormai disperata. E la
ragazza stessa gridava di non voler
morire, che aveva ancora così tante
cose che voleva fare nella vita.
Morì per sindrome acuta da
irradiazione. Passò un mese e la
maggior parte delle persone che
tornarono al villaggio da Hiroshima
morirono.
Io invece dopo tre
mesi cominciai a stare meglio.
Riuscivo a camminare e le ferite si
stavano rimarginando. Ma sentivo
qualcosa di strano, di diverso, al
viso. Cercai uno specchio ma i miei
me lo avevano nascosto. Cercai
dappertutto e alla fine riuscii a
trovarne uno. Quando vidi allo
specchio la mia faccia fu uno choc
tremendo. Non avevo mai visto niente
di simile. Era di un colore rosso
scuro, come la carne di fegato, e la
pelle era durissima. L'angolo
sinistro delle labbra era rovesciato
e il mento era saldato al collo. Non
credevo ai miei occhi. Da quel
giorno a tutte le sofferenze fisiche
si aggiunsero anche quelle
psicologiche.
Circa sei mesi dopo
il bombardamento tornai a scuola. Ma
sul treno che prendevo per andare in
città la gente guardava la mia
faccia e smisi di andarci. Chi
potevo incolpare delle mie
sofferenze, dove potevo chiedere
risarcimento…? Ero sconvolta e
desideravo morire. Nella mia
disperazione, fui salvata dalle
parole di mio padre. Papà era sempre
accanto a me, mi curava e mi
accudiva. Ma, una volta, stava
parlando con un vicino e non sapeva
che lo stavo ascoltando. Disse: «Il
suo corpo è stato completamente
ustionato, ha avuto la febbre
altissima. Non riuscivo neanche a
spostarla. La prossima volta, se
scoppia una bomba atomica, voglio
tenerla stretta tra le mie braccia e
morire insieme a lei. Ma adesso sta
migliorando, nonostante le brutte
cicatrici. E' straordinario che cosa
possa fare un corpo umano. Io credo
proprio che Seiko sopravivrà».
Queste parole mi fecero piangere e
decisi di farmi forza, di continuare
a vivere. Da allora, guardo solo
avanti perché, lo so, se guardo
indietro gli occhi si riempiono di
lacrime.
Non riesco a
descrivere la sofferenza degli anni
di scuola superiore. La mamma
continuava a dire «se solo
riuscissimo a farti bella … se solo
potessi riavere il tuo viso di prima
…» e mi portò più di quindici volte
dal chirurgo plastico. La posizione
delle labbra è ritornata quasi come
prima ed è migliorata molto anche la
pelle stiracchiata del collo.
Ma il mio viso non sarà mai quello
di prima. Non volevo diventare
bella, rivolevo solo la mia faccia.
Sono passati tanti anni, ho avuto
una vita lunga. Sono stata più
fortunata di quelli che vidi quel
giorno per la strada o nel fiume,
colpiti da atroci sofferenze senza
sapere chi incolpare. Non
dimenticherò mai i volti di quelle
persone agonizzanti. Ciò che più mi
fa soffrire è il pensiero delle
persone che non ho potuto aiutare,
forse alcune erano anche persone che
conoscevo. Sono passati 60 anni e
ancora oggi ci sono vittime della
bomba che muoiono a causa delle
radiazioni. Le vittime non si
libereranno mai delle radiazioni
assorbite, come non si libereranno
mai della paura, per tutti i giorni
della loro vita. Se viene un mal di
pancia, si ha paura che possa essere
un cancro. Se viene un mal di testa,
si ha paura che sia leucemia. Noi,
sopravvissuti, abbiamo continuato ad
esprimere la sofferenza e la rabbia,
ma anche la speranza in un mondo di
pace dal quale le armi nucleari
siano bandite. Ma perché gli uomini
continuano a fare la guerra? La
guerra cambia le persone, le fa
impazzire. Uccidere è un crimine,
eppure alcuni lo fanno. La vita non
è un dono individuale, è un dono per
la comunità. E' un dono che
attraversa le generazioni. Hiroshima
è il luogo ideale per capire la
dignità della vita umana. Ma guerra,
terrorismo, armi nucleari
distruggono la vita. La guerra non
uccide solo noi, ma anche i nostri
genitori, i figli, fratelli, sorelle
e amici. Nella guerra nucleare non
ci sono né vincitori né vinti. Può
portare solo alla distruzione
dell'umanità, alla fine del pianeta
terra. Se l'umanità non eliminerà le
armi nucleari, le armi nucleari
elimineranno l'umanità.
Non si può sradicare
l'odio con l'odio. Non ci sarà pace
finché ci sarà odio. Noi, i
sopravissuti alla bomba atomica,
abbiamo superato l'odio che
provavamo in passato. Adesso siamo
convinti che riusciremo a
trasformare il sospetto in fiducia,
l'odio in comprensione, la
separazione in armonia, per superare
tutte le divisioni e cambiare il
flusso della storia dell'umanità. Le
armi nucleari sono state create
dall'uomo, come la guerra. Se saremo
capaci di scaldare il cuore con
l'amore, l'amore per tutti gli
esseri umani, con l'intelligenza
riusciremo ad eliminare le armi
nucleari. Se gli uomini e le donne
useranno la loro intelligenza, le
guerre saranno prevenute invece che
combattute. Non è possibile la
convivenza tra umanità e armi
atomiche.
Vi siete mai
domandati se davvero l'umanità del
21mo secolo abbia a cuore il
benessere delle generazioni future?
Siamo tutti diventati così spietati
da provare per le generazioni future
solo violenza e odio? Non credo.
Sono qui oggi perché, come
sopravissuta della bomba di
Hiroshima, ho una responsabilità.
Insieme agli altri Hibakusha, è
nostro compito condividere con gli
altri la nostra esperienza e
lavorare insieme per trasmettere il
messaggio che le armi nucleari
devono essere eliminate, che
dobbiamo impegnarci per porre fine a
tutte le guerre. |