16 aprile 2005
L’uomo del fiume
Aldo Maturo

 

 

Un uomo sta passeggiando lungo la riva di un fiume, quando si accorge che c’è una persona che sta affogando, lottando inutilmente contro le rapide.

Improvvisamente si avvede che dall’altra parte della riva un pescatore si è nel frattempo tuffato in acqua nel generoso tentativo di raggiungere il disgraziato che sta affogando: con fatica riesce ad agguantarlo e a trascinarlo a terra, ove gli pratica la respirazione bocca a bocca, salvandolo.

Ma dopo pochi minuti si ripete una situazione analoga: un altro uomo rischia di soccombere nel fiume e il medesimo pescatore si getta in suo aiuto e ancora una volta riesce nel suo eroico intento.

Ma in breve di nuovo la situazione si ripete, una due tre volte ancora, fino a quando il pescatore, di fronte ad un altro in pericolo di vita, invece di buttarsi in acqua comincia a correre risalendo la corrente del fiume.

Stupito, lo spettatore lo ferma chiedendogli: ” Ma che stai facendo? Perché non cerchi di salvare quel disgraziato come hai fatto con gli altri?”

“ Questa volta - risponde il pescatore - voglio andare a vedere chi diavolo getta in acqua questi uomini”.

La storia di Saul Alinsky rappresenta in maniera plastica la frustrazione di quanti lavorano nel mondo dell’emarginazione rimettendo in discussione, ogni giorno, il proprio lavoro di fronte alle poche vittorie ed alle tante sconfitte. La cosa è ancor più evidente nel carcere, che ogni tanto esce dalle nebbie che lo circondano per finire sotto i riflettori.

Lo vediamo in questi giorni con gli spazi occupati dall’amnistia. L’iniziativa ha coinciso con la morte del Papa che già nel 2000,in occasione dell’Anno Santo, e poi durante la visita al parlamento, il 14 novembre 2002, aveva invitato l’Italia ad un provvedimento di clemenza. Alla Camera si sono rispolverate le proposte di legge già finite in un cassetto ed altre vi si sono affiancate, scritte per l’occasione, con l’unico risultato, a quanto pare, di seminare altri paletti sul cammino del governo verso la fine della legislatura.

Dubito che, in prossimità delle elezioni - imminenti o prossime - qualche gruppo politico assuma disinvoltamente la paternità di un provvedimento clemenziale, notoriamente sgradito ad una larga parte dell’elettorato poco sensibile ai “rumori” del carcere. Ed è difficile altresì che passi sottobanco, visto che nel 1992 il Parlamento aveva modificato l’art.79 della Costituzione portando le modalità di approvazione dell’amnistia dal 50%+1 dei voti favorevoli dei presenti in aula ad una maggioranza qualificata dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera.

La differenza, in termini di quorum, non è da poco e l’ impresa diventa impossibile senza un’intesa trasversale. Questa maggior rigidità procedurale si disse fosse stata determinata dalla volontà di non reiterare le vecchie abitudini che avevano visto 21 amnistie succedersi dal 1947 al 1990. Altri dissero che, di fronte al fenomeno di “mani pulite”, era necessario per il Paese un forte segnale di moralizzazione che non escludesse i politici coinvolti nelle varie inchieste.

Isola di Pianosa

Di questi ultimi segnali, a chi vive nel carcere di qua o al di là delle sbarre, non ne sono arrivati molti mentre l’ arrivo quotidiano di centinaia e centinaia di arrestati è un dato reale e statistico, che ha portato le presenze a 56.000 unità circa su poco più di 43.000 posti letto disponibili, tanto che è stata presa in esame la riapertura dell’isola di Pianosa.

L’amnistia – come si sa - estingue il reato e, se vi è stata condanna, fa cessare l’esecuzione della condanna e delle pene accessorie. L’indulto invece condona in tutto o in parte la pena inflitta o la commuta in altra specie di pena, ma non incide sul reato, che resta invariato nella sua fattispecie giuridica.

Un provvedimento di amnistia, dunque, serve a svuotare nell’immediatezza le carceri dai detenuti e gli scaffali delle cancellerie dai milioni di fascicoli in attesa di giudizio, ma quest’opera di bonifica non serve a risolvere il problema della giustizia penale e della politica penitenziaria.

L’esperienza del passato ci ha insegnato che, a legislazione o giurisprudenza immutata, nello spazio di due o tre anni il problema del sovraffollamento si ripropone nella sua drammaticità. Un’altissima percentuale degli “amnistiati”, infatti, ritorna in carcere, per naturale predisposizione a violare disinvoltamente le leggi alla ricerca di una vita più facile o per scelte condizionate dalla impossibilità di rientrare in una società che apre periodicamente le porte del carcere ma chiude disinvoltamente quelle dell’accoglienza.

Il progetto di restyling giudiziario in corso in questi giorni diventa perciò pericoloso se non rientra in un piano di più ampio respiro. Ancor peggio se resta solo un progetto. In tal caso serve a creare ingiuste aspettative nei detenuti, già passati dalle illusioni alle delusioni dell’estate 2000 e, più di recente, allo stillicidio di giorni in attesa dell’ultimo indulto risoltosi in un indultino, applicato a poche migliaia di persone.

Il tema carcere non è merce elettorale, perchè dietro la demagogia, dietro le quinte dei convegni e dei dibattiti televisivi, c’è il destino di 56.000 detenuti giornalmente “residenti” cui si aggiungono i drammi di altrettante famiglie. Senza contare che in un anno sono quasi 100.000 i “pendolari” del carcere o quelli che soggiornano a tempo determinato nelle nostre strutture. Sono solito paragonare le carceri ad una gigantesca pentola a pressione che nessuno può pensare di scoprire all’improvviso dopo aver tenuto per anni il fuoco acceso ed il coperchio chiuso per non sentirne la puzza.

Ne sono convinto anche se è indubbio che vi è una costante ed insanabile contraddizione tra una sacrosanta esigenza di sicurezza che sale dal Paese e la necessità di maggiori investimenti in termini di risorse umane e finanziarie per rendere decorose le nostre strutture penitenziarie.

Per chi ci lavora è ormai abituale vedere un carcere rattoppato a causa di una disattenzione storica ed invero politicamente trasversale. Da sempre si fanno i conti della serva con un bilancio che a stento e male assicura la gestione del quotidiano.

L’emergenza finanziaria che caratterizza il Paese non consente di aspettarsi di più per il carcere. Ma allora non bisogna aspettarsi di più dal carcere, questo mondo oscuro che, come una discarica, periodicamente si bonifica con un’amnistia o un indulto. Per le funzioni di questa istituzione va preso in considerazione un “investimento” continuo perché un carcere solo custodiale è un carcere violento e continuerà a restituire cittadini violenti in un processo di reciproca irreversibile autoalimentazione che ne accentua il fallimento.

Un carcere a dimensione d’uomo, invece, non è una contraddizione in termini, ma è un luogo in cui la società tenta doverosamente un investimento sull’uomo, sapendo in ogni caso che non è possibile radiografare la mente umana e quindi a volte può esserci un prezzo da pagare. Ricordando in tal caso, con Don Gelmini, che fa più rumore un albero che cade che cento alberi che crescono.

Questo il dilemma. Basta scegliere, come il pescatore di Alinsky: o si nuota insieme o si va sul ponte. A guardare o a buttar giù.

 

    

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