Un
uomo sta passeggiando lungo la riva di un fiume,
quando si accorge che c’è una persona che sta
affogando, lottando inutilmente contro le
rapide.
Improvvisamente si avvede che dall’altra parte
della riva un pescatore si è nel frattempo
tuffato in acqua nel generoso tentativo di
raggiungere il disgraziato che sta affogando:
con fatica riesce ad agguantarlo e a trascinarlo
a terra, ove gli pratica la respirazione bocca a
bocca, salvandolo.
Ma
dopo pochi minuti si ripete una situazione
analoga: un altro uomo rischia di soccombere nel
fiume e il medesimo pescatore si getta in suo
aiuto e ancora una volta riesce nel suo eroico
intento.
Ma
in breve di nuovo la situazione si ripete, una
due tre volte ancora, fino a quando il
pescatore, di fronte ad un altro in pericolo di
vita, invece di buttarsi in acqua comincia a
correre risalendo la corrente del fiume.
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Stupito, lo spettatore lo ferma
chiedendogli: ” Ma che stai facendo?
Perché non cerchi di salvare quel
disgraziato come hai fatto con gli
altri?”
“ Questa volta - risponde il pescatore -
voglio andare a vedere chi diavolo getta
in acqua questi uomini”.
La storia di Saul Alinsky rappresenta in
maniera plastica la frustrazione di
quanti lavorano nel mondo
dell’emarginazione rimettendo in
discussione, ogni giorno, il proprio
lavoro di fronte alle poche vittorie ed
alle tante sconfitte. La cosa è ancor
più evidente nel carcere, che ogni tanto
esce dalle nebbie che lo circondano per
finire sotto i riflettori. |
Lo
vediamo in questi giorni con gli spazi occupati
dall’amnistia. L’iniziativa ha coinciso con la
morte del Papa che già nel 2000,in occasione
dell’Anno Santo, e poi durante la visita al
parlamento, il 14 novembre 2002, aveva invitato
l’Italia ad un provvedimento di clemenza. Alla
Camera si sono rispolverate le proposte di legge
già finite in un cassetto ed altre vi si sono
affiancate, scritte per l’occasione, con l’unico
risultato, a quanto pare, di seminare altri
paletti sul cammino del governo verso la fine
della legislatura.
Dubito che, in prossimità delle elezioni -
imminenti o prossime - qualche gruppo politico
assuma disinvoltamente la paternità di un
provvedimento clemenziale, notoriamente sgradito
ad una larga parte dell’elettorato poco
sensibile ai “rumori” del carcere. Ed è
difficile altresì che passi sottobanco, visto
che nel 1992 il Parlamento aveva modificato
l’art.79 della Costituzione portando le modalità
di approvazione dell’amnistia dal 50%+1 dei voti
favorevoli dei presenti in aula ad una
maggioranza qualificata dei due terzi dei
componenti di ciascuna Camera.
La
differenza, in termini di quorum, non è da poco
e l’ impresa diventa impossibile senza un’intesa
trasversale. Questa maggior rigidità procedurale
si disse fosse stata determinata dalla volontà
di non reiterare le vecchie abitudini che
avevano visto 21 amnistie succedersi dal 1947 al
1990. Altri dissero che, di fronte al fenomeno
di “mani pulite”, era necessario per il Paese un
forte segnale di moralizzazione che non
escludesse i politici coinvolti nelle varie
inchieste.
Isola di Pianosa
Di
questi ultimi segnali, a chi vive nel carcere di
qua o al di là delle sbarre, non ne sono
arrivati molti mentre l’ arrivo quotidiano di
centinaia e centinaia di arrestati è un dato
reale e statistico, che ha portato le presenze a
56.000 unità circa su poco più di 43.000 posti
letto disponibili, tanto che è stata presa in
esame la riapertura dell’isola di Pianosa.
L’amnistia – come si sa - estingue il reato e,
se vi è stata condanna, fa cessare l’esecuzione
della condanna e delle pene accessorie.
L’indulto invece condona in tutto o in parte la
pena inflitta o la commuta in altra specie di
pena, ma non incide sul reato, che resta
invariato nella sua fattispecie giuridica.
Un
provvedimento di amnistia, dunque, serve a
svuotare nell’immediatezza le carceri dai
detenuti e gli scaffali delle cancellerie dai
milioni di fascicoli in attesa di giudizio, ma
quest’opera di bonifica non serve a risolvere il
problema della giustizia penale e della politica
penitenziaria.
L’esperienza del passato ci ha insegnato che, a
legislazione o giurisprudenza immutata, nello
spazio di due o tre anni il problema del
sovraffollamento si ripropone nella sua
drammaticità. Un’altissima percentuale degli
“amnistiati”, infatti, ritorna in carcere, per
naturale predisposizione a violare
disinvoltamente le leggi alla ricerca di una
vita più facile o per scelte condizionate dalla
impossibilità di rientrare in una società che
apre periodicamente le porte del carcere ma
chiude disinvoltamente quelle dell’accoglienza.
Il
progetto di restyling giudiziario in corso in
questi giorni diventa perciò pericoloso se non
rientra in un piano di più ampio respiro. Ancor
peggio se resta solo un progetto. In tal caso
serve a creare ingiuste aspettative nei
detenuti, già passati dalle illusioni alle
delusioni dell’estate 2000 e, più di recente,
allo stillicidio di giorni in attesa dell’ultimo
indulto risoltosi in un indultino, applicato a
poche migliaia di persone.
Il
tema carcere non è merce elettorale, perchè
dietro la demagogia, dietro le quinte dei
convegni e dei dibattiti televisivi, c’è il
destino di 56.000 detenuti giornalmente
“residenti” cui si aggiungono i drammi di
altrettante famiglie. Senza contare che in un
anno sono quasi 100.000 i “pendolari” del
carcere o quelli che soggiornano a tempo
determinato nelle nostre strutture. Sono solito
paragonare le carceri ad una gigantesca pentola
a pressione che nessuno può pensare di scoprire
all’improvviso dopo aver tenuto per anni il
fuoco acceso ed il coperchio chiuso per non
sentirne la puzza.
Ne
sono convinto anche se è indubbio che vi è una
costante ed insanabile contraddizione tra una
sacrosanta esigenza di sicurezza che sale dal
Paese e la necessità di maggiori investimenti in
termini di risorse umane e finanziarie per
rendere decorose le nostre strutture
penitenziarie.
Per chi ci lavora è ormai abituale vedere un
carcere rattoppato a causa di una disattenzione
storica ed invero politicamente trasversale. Da
sempre si fanno i conti della serva con un
bilancio che a stento e male assicura la
gestione del quotidiano.
L’emergenza finanziaria che caratterizza il
Paese non consente di aspettarsi di più per il
carcere. Ma allora non bisogna aspettarsi di più
dal carcere, questo mondo oscuro che, come una
discarica, periodicamente si bonifica con
un’amnistia o un indulto. Per le funzioni di
questa istituzione va preso in considerazione un
“investimento” continuo perché un carcere solo
custodiale è un carcere violento e continuerà a
restituire cittadini violenti in un processo di
reciproca irreversibile autoalimentazione che ne
accentua il fallimento.
Un
carcere a dimensione d’uomo, invece, non è una
contraddizione in termini, ma è un luogo in cui
la società tenta doverosamente un investimento
sull’uomo, sapendo in ogni caso che non è
possibile radiografare la mente umana e quindi a
volte può esserci un prezzo da pagare.
Ricordando in tal caso, con Don Gelmini, che fa
più rumore un albero che cade che cento alberi
che crescono.
Questo il dilemma. Basta scegliere, come il
pescatore di Alinsky: o si nuota insieme o si va
sul ponte. A guardare o a buttar giù. |