Le ore non passavano mai quella notte nel
vecchio carcere di New Orleans. I detenuti
italiani che l’indomani dovevano essere
scarcerati vissero la loro notte più lunga, con
l’ansia della vigilia di un grande evento.
L’interminabile attesa con gli occhi sbarrati
nel buio era comprensibile perchè, riconosciuti
innocenti, stavano per riassaporare il sapore
della libertà.
La loro brutta avventura era iniziata
sei mesi prima, il 15 ottobre 1890, quando
David Hennessy, capo della polizia di New
Orleans, rientrando a casa era stato circondato
da alcuni uomini e brutalmente assassinato.
Come era prevedibile per il personaggio
coinvolto, si scatenò una immediata caccia
all’uomo con centinaia di perquisizioni e
l’immediato arresto di diversi italiani, teste
calde della città, ospiti inopportuni. Il
sindaco tuonò contro questi “… emigranti
appartenenti alla peggiore specie di europei, i
meridionali italiani…gli individui più pigri,
depravati e indegni che esistono…più
indesiderabili dei polacchi…”
Il processo che ne seguì tradì le
aspettative e gli italiani furono assolti, “ per
aver corrotto i giurati..” dissero i giornali e
la città. Vennero comunque riportati al carcere
per essere poi scarcerati il giorno dopo.
Fuori la comunità italiana aveva festeggiato e
qualcuno nel rione aveva osato alzare la
bandiera italiana su un pennone più alto di
quella americana. Per gli yankee era il massimo
degli oltraggi.
E
così quel 14 marzo 1891, fin dalle prime ore del
mattino, cominciò ad arrivare gente davanti al
carcere, decine di persone,centinaia, migliaia e
alla fine erano quasi 20.000.
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Le guardie capirono subito e su ordine
del Direttore rinchiusero tutti i
detenuti in cella ma lasciarono fuori
gli italiani, undici uomini appartenenti
alla comunità siciliana, quella comunità
che, giunta per sostituire gli schiavi
neri nei campi di cotone, si era fatta
odiare dagli americani perché aveva
scalato in breve tutti i passaggi,
conquistando una fortissima posizione
nel mercato del pesce e della frutta.
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L’attacco al carcere non trovò alcuna
resistenza, il portone fu abbattuto e centinaia
di uomini inferocititi irruppero all’interno a
caccia degli italiani. In un corridoio trovarono
i primi tre e gli spararono al volto a
bruciapelo: due morirono immediatamente ed uno
restò agonizzante tutto il giorno in una pozza
di sangue. Altri sei scapparono verso la sezione
femminile ma le detenute, all’arrivo delle
squadre della morte, si misero ad urlare
indicando il lato dove erano fuggiti. I sei
italiani si trovarono imbottigliati in un angolo
cieco e furono crivellati senza pietà con
centinaia di colpi. All’appello mancavano altri
due. Li cercarono dappertutto mettendo ogni
angolo del carcere a ferro e fuoco. Ne trovarono
uno nascosto sotto il letto di una cella.
Parlava da solo, non si sa se perché psicopatico
o per la paura. Lo afferrarono, lo portarono nel
corridoio e gli spararono al volto ma l’uomo non
morì. Lo trascinarono allora, come un sacco,
davanti al carcere dove la folla impazzita degli
assalitori sostava e rumoreggiava. Lo appesero a
un lampione fra mille imprecazioni e invettive.
L’uomo con un ultimo istinto di sopravvivenza si
rigirò su se stesso e cominciò a tirarsi su
lungo la corda. Crollò ciondoloni quando la
gente cominciò a sparargli come a un bersaglio
mobile, riempiendolo di sputi.
L’ultimo detenuto si finse morto in un angolo
del carcere. Lo scoprirono, lo presero e lo
portarono in un cortile per fucilarlo poi ci
ripensarono e lo diedero in pasto alla folla
inferocita. Lo impiccarono, la corda si spezzò,
lo appesero di nuovo e questa volta gli
spararono da tutti i lati, inebriati dall’acre
odore del sangue che fluttuava dalle ferite.
Gli undici cadaveri restarono esposti per giorni
in uno spiazzo vicino al carcere. Le donne
passavano, li indicavano ai figli ed inzuppavano
i loro fazzoletti nel sangue per un macabro
souvenir.
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La reazione dell’Italia fu immediata.
Ritirò il suo ambasciatore a Washington
e altrettanto fece l’America con Roma.
Alla partenza dell’ambasciatore italiano
il governatore del Kansas dichiarò : “
la partenza dell’ambasciatore non ci
recherà più danno di quanto farebbe il
venditore italiano di banane davanti
alla Casa Bianca se decidesse di
tornarsene a casa”.
Il New York Times scrisse che il
linciaggio aveva messo al sicuro la vita
e la proprietà della gente di New
Orleans mentre il Globe Democrat
aggiunse che gli abitanti si erano
limitati ad esercitare i loro diritti di
sovranità popolare e legittima difesa.
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In diversi States continuò a lungo la caccia
all’italiano. L’11 maggio di quell’anno nel West
Virginia vennero linciati altri tre italo
americani. Sul conto degli italiani fiorirono
storielle e barzellette ma per noi c’era poco da
ridere in un’America dove la corda e il sapone
erano la soluzione più immediata e in qualche
Stato era vietato l’ingresso dei bambini
italiani nelle scuole dei “bianchi”.
La
diplomazia lavorò ininterrottamente ed al
risultato finale contribuì anche il divario
degli armamenti. Era il tempo della Triplice
Alleanza e l’Italia aveva investito tutto sulla
Regia Marina per stare all’altezza della
portentosa macchina da guerra prussiana. Avevamo
11 corazzate da 14 mila tonnellate l’una, 54
navi da guerra e due milioni e mezzo di soldati.
L’America non era ancora la potenza di oggi ed
aveva tre piccole navi da guerra e 130.000
soldati!
La pace ritornò al solito modo,
comprandola. 2.500 dollari ad ogni famiglia di
italiano ucciso ed una dichiarazione del
Presidente USA al Congresso dove riconosceva che
il linciaggio era stato un incidente deplorevole
e disonorevole. Ma per quel linciaggio nessuno
pagò.
La drammatica storia, tratta dalle
cronache del tempo, ci ricorda che anche questa
fu “la Merica”, come diceva tanta nostra gente
del Sud, terra sognata da milioni di italiani
che vi emigrarono senza meta con il peso delle
umiliazioni accettate solo con la speranza di
dimenticare la fame e la miseria. Vi sbarcavano
da annerite navi a vapore dopo un mese di mare.
Poi lì, sperduti sul molo, trascinandosi dietro
la mappatella e la valigia di cartone
marrone, con gli angoli scrostati. Panciuta e
rigonfia per le tante piccole misere cose
necessarie per la sopravvivenza dei primi
giorni, era legata tutt’intorno con
l’immancabile spago per evitare che esplodesse
durante il viaggio disperdendo al vento gli
oggetti più cari.
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