Soldato Ryan,
scusami se ti chiamo così, ma non conosco il tuo
nome ed ho pensato di dartene uno, uno di quelli
diventato famoso in quell’altro mattatoio della
storia chiamato Normandia.
Forse hai perso il conto, ma sono due anni che
sei lì, anche se qualcuno ti aveva assicurato
che sarebbe stata una guerra lampo. Quante volte
a bordo del tuo gigantesco “Tank”, sferragliando
in quel truce teatro di distruzione e di morte,
ti sono tornate in mente le tue verdi e
sconfinate praterie o quelle squallide ma
amichevoli, complici periferie dove sei
cresciuto. Quante volte hai ripensato al giorno
in cui hai accettato di arruolarti, ammaliato
dal mito della “lotta al terrorismo
internazionale”, della nobile missione di
“esportare la democrazia”, mentre in cuor tuo,
forse, pensavi a quel mucchio di dollari che nel
tuo paese mai avresti messo insieme in tempi
così brevi.
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Ora sei lì, da 735 interminabili giorni,
impantanato in una lurida guerra guerra
senza fine, perennemente in allerta, con
il dito sul grilletto in ogni ora del
giorno e pochi secondi per pensare se
premerlo o no. Se sbagli la decisione,
puoi vivere, se no puoi anche
guadagnarti una medaglia al valore,
quella che i tuoi capi danno ai feriti e
chiamano la Purple Heart. Se ti va male,
torni a casa avvolto in
una bandiera, come è già successo al tuo
amico Walter, John, Vanessa, Genevieve,
Michael e mille e più altri Michael e
mille e più altri ancora.
Ed è così che spari a qualunque cosa si
muova, spari a qualunque cosa tu pensi
possa esploderti addosso. Ti hanno hanno
detto di farlo, ti hanno detto che è un
tuo diritto sparare ogni volta che ti
senti minacciato, ogni volta che senti
la tua vita in pericolo. Le “regole
d’ingaggio”, le chiamano. |
E
tu spari, e chissà quanti altri uomini sono
morti e quanti ne moriranno, quante altre donne,
quanti bambini innocenti piangeranno i loro
cari, spesso colpevoli solo di essere nati in
quella terra dove vissero i Sumeri, tra il Tigri
e l’Eufrate, sede mille e mille anni fa della
prima culla della civiltà.
Così hai sparato anche qualche sera fà, ricordi,
sì, la sera del 4 marzo. Eri lì da ore, l’occhio
nel mirino, il dito sul grilletto, come sempre,
in quel chek-point sulla maledetta strada dell’aereoporto.
Hai sentito da lontano il rumore di un auto,
l’hai sentita avvicinarsi, hai seguito i fari
nel buio della sera. Veniva verso di te. Questi
mi fanno saltare in aria, hai pensato. Hai avuto
paura, ti sei irrigidito e hai sparato, sparato,
sparato, finchè non hai visto l’auto fermarsi.
Pochi secondi e nel silenzio di morte che è
calato tra te e loro ti è venuto il dubbio che
potevi aver sbagliato. Ed avevi sbagliato,
perchè hai ucciso un innocente,un italiano per
bene e ferito chi era con lui,tutti colpevoli
solo di voler scappare al più presto da quell’inferno.
Prima o poi qualcuno ci dirà perchè è successo,
forse ti processeranno, forse riconfermeranno
che è stato un “cortocircuito informativo” tra
noi e voi, ma la cosa non cambia.
E’
la guerra, la tua sporca guerra, soldato Ryan,
una guerra costata fin’ora, solo al tuo
Paese,160 miliardi di dollari, compresi i
preparativi. Sono tanti, sai, sono 4 miliardi di
dollari al mese, 177 milioni di dollari al
giorno, 122.820 dollari al minuto, più di 2000
dollari al secondo. Il tuo stipendio ogni due o
tre secondi. Quello di un italiano medio, ogni
secondo.
Una montagna di dollari che si aggiunge alla
montagna di euro degli “alleati”, soldi
destinati alla morte e sottratti alla vita.
Ora ti lascio, Ryan, quì da noi è Pasqua, giorno
di pace, ma per te sarà un’altra Pasqua di
guerra. Forse in queste ore sei di pattuglia,
forse ti muovi “a grappolo”, “a copertura
totale”, e non sai se arrivi vivo fino a
stasera. Però almeno oggi non sparare, soldato
Ryan. Lo so,capisco il tuo dramma, dipende dalla
fortuna. E allora buona fortuna e buona Pasqua
anche a te. |