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La politica è operazione di verità - 28-05-04 -Gianluca Aceto |
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Molte volte, d’improvviso, capita che
le nostre stanze si facciano buie e sature. Occorre allora aprire
gli scuri e lasciarsi attraversare dall’aria fresca e dalla luce.
Non c’è alternativa, o almeno così a me sembra. Accade la stessa
cosa quando le giornate si fanno pesanti, e ti accorgi che il
malessere dell’uno non è che la sfaccettatura dell’oblio a cui il
mondo tenacemente usa condannarsi.
Succede così che ti prenda la smania di precipitarti con tutto il corpo nella strada, a mettere insieme quegli accadimenti che altrimenti continuerebbero ad apparire separati. Succede che gli occhi comincino a guardare con diversa attenzione a quelle cose che prima ti lasciavano indifferente o quasi. Succede che ti avvinghi il vizio della memoria; perché, come scrive Nichi Vendola, «la memoria è il rapporto teso e spesso squilibrato tra il nostro ‘ieri’ e il nostro ‘oggi’, è la bussola con cui cerchiamo la rotta del futuro, è il sedimento profondo della coscienza. La memoria è il sale della vita, la capacità di ordinare gli eventi in una trama di senso e in una gerarchia di valori». Ti può succedere ai quindici anni o ai trenta o ai cinquanta, o magari quando stringi la mano a qualcuno e ti accorgi di quanto l’età abbia rinsecchito la tua. Può succedere. Sono i sintomi di una malattia difficile da prevedere e curare, difficile da descrivere. A questa malattia do il nome di “politica”. Ci sono mille modi di vivere questa malattia. In alcuni casi, capita che dopo i primi anni di febbri e fervori, essa non lasci nel malato che un senso di frustrazione e di vuoto, anticamera del ripiegamento accidioso in se stessi. In altri, la malattia evolve e trasforma il soggetto in una sorta di freddo e lucido calcolatore. Ancora, può succedere che essa diventi un modo come un altro per farsi uno spazio, una posizione, un patrimonio, nel mezzo di una società che fa del privilegio e dell’ingiustizia la regola aurea del proprio andare avanti. Per me la politica continua ad essere il sobbalzo dell’anima davanti alle cose storte, l’indignazione profonda che muove dalle disparità e dalle disuguaglianze, il grido strozzato in gola quando tutto ti pare sbagliato. La politica è l’arrabbiatura che chiude lo stomaco, il pensiero che sveglia di notte, il modo di affrontare i problemi per risolverli. È la gioia che prende quando capita di trovare una soluzione non alle angosce proprie ma a quelle degli altri. La politica, per come la intendo, è innanzitutto un’operazione di verità. E dire la verità ai detentori del potere è sempre rischioso. Questa scelta rivoluzionaria è ciò che i greci antichi chiamavano parresìa, l’attività verbale in cui il soggetto fa uso della sua libertà e sceglie il parlar franco invece della persuasione, la verità invece della falsità o del silenzio, il rischio di morte invece della vita e della sicurezza, la critica invece dell’adulazione, il dovere morale invece del proprio tornaconto o dell’apatia morale. Insomma, come ci ha insegnato il filosofo della storia Walter Benjamin, la rivoluzione si fa dal passato. Ho visto il mio paese mortificarsi e imbruttirsi. Telese era uno spazio da definire, un futuro da mettere in piedi, una pagina bianca su cui scrivere poesia e versi. La classe dirigente ci ha invece regalato una prosa kitsch e scurrile, di basso livello. A partire dal 1990, abbiamo visto come sia possibile fare dell’arbitrio il modo corrente di operare e governare, mentre i bisogni, le aspettative, le speranze degli amministrati venivano relegate a mere soperchierie. Bisognava adoperarsi per costruire un senso comunitario che non avevamo, ma non si sono neppure accorti che il territorio si frantumava in mille pezzi turbinanti e mugulanti. La classe dirigente non ha visto né sentito. Era impegnata ad adagiarsi sull’unica dimensione che conosceva e conosce: il presente, la gestione, il tornaconto. Volevano tutto e subito, e l’hanno preso. Del passaggio della “razza padrona” telesina rimangono i numeri illusori e ingannevoli che il sindaco può “magnificare” da un palco da comizi. Occorre tornare alla cura delle cose comuni, che non sono soltanto gli oggetti, le strade, il bilancio comunale, ma anche quelle speranze soffocate che meritano di trovare espressione. Bisogna farsi venire i calli alle mani, a furia di lavorare per il bene di tutti, ma senza rinunciare a un po’ – giusto un po’ – di levità e poesia. Ce lo dice Antoine de Saint-Exupéry nel Piccolo Principe: «E’ il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa importante». Occorre tornare alla politica, mettere un messaggio in una bottiglia e affidarla alla clemenza del mare. Qualcuno prima o poi scorrerà le righe che avremo scritto, e magari ne capirà la poesia anche se si cela sotto forma di prosa. Gianluca Aceto
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Per intervenire: invia@vivitelese.it