Nel mese di Novembre ho avuto il piacere di
scoprire l’arte ma soprattutto la passione di un
mio conterraneo, Nicola Gelormino; la curiosità
che nasceva dalla descrizione dettagliata delle
sue opere, ha fatto nascere in me il desiderio
di approfondire la sua conoscenza dal punto di
vista artistico. Questo è il motivo che mi ha
spinto a scrivere queste righe, rendendo
partecipe i telesini delle abilità in questo
campo. La cosa più importante che bisogna
sottolineare, è che i suoi lavori sono in
continua evoluzione e soprattutto non hanno né
tempo né spazio in quanto tutti ispirati dal
vivere quotidiano.
RECENSIONE
MARGIOTTA DOMENICO
Per carpire a
fondo tagli su tele, distese di colore e forme
astrattizzanti. Per intraprendere un lungo e
faticoso viaggio guidato dallo spirito
dell’artista, fino a raggiungere quella profonda
verità che ogni uomo protegge e conserva come
uno scrigno, e ritornare di nuovo in superficie
arricchiti da un pezzetto di questa essenza
primordiale; per fare tutto ciò, non possiamo
attenerci solo all’immagine dell’opera, ma
bisogna conoscere il punto di partenza e
d’arrivo che questo ragazzo ha segnato nella sua
vita.
Nicola Gelormino
è partito da se stesso, da quella impercettibile
zona d’ombra che offusca e crea confusione,
quella terra di nessuno popolata di sensazioni
taciute e mai rivelate: come in “Autoritratto“
egli ha dovuto stracciare, con lunghe ferite
nere, la parte più superficiale del sé per
mostrarci la sua vera essenza. A primo impatto,
l’occhio non riesce a districarsi tra zone di
colore fumoso e tagli netti di nero, la mente
non riesce a trovare appigli di nessuna forma né
colore, ma vi è solo una saturazione
dell’immagine retinica: applica una
destrutturazione del volto materiale e
tangibile, per approdare alla vera essenza del
suo io.
Egli ha dovuto
spingersi con sofferenza, vedi i bruschi tagli
neri, dietro quella maschera da attore che
ognuno di noi si crea per sopravvivere in un
mondo che non è molto differente da un grande
teatro: tutti recitano una parte, in modo
consapevole o no. Ha rinnegato la sua parte,
l’immagine sociale per mostrare, a spiragli di
colore, quella essenza tanto ricercata da lui,
quanto rinnegata dal teatro del mondo.
E’ questa la sua
vocazione, spurgarsi da tutte quelle
cianfrusaglie che il nostro baule dei ricordi
contiene, spogliarsi di quella pesantezza che
attanaglia chi come lui vuole essere vero e di
conseguenza sentirsi vivo: in poche parole
rendersi reale, quindi essere.
Gelormino ha
avuto una grande intuizione nel farci cogliere
quell’essere in materia, quell’intervallo o
pausa tra due note che formano un vero accordo,
col grigio della faccina stilizzata: quell’istante
in cui il bianco si tramuta in nero, o
viceversa, e da forma al grigio. Questo colore è
l’essenza stessa di un intervallo tra la vita e
la morte che è poi la sua vera essenza.
La ricerca della
donna è il punto fermo attorno al quale si muove
un aspetto del suo lavoro: punto di partenza di
questa ricerca è “Beata“. E’ partito dalla
rappresentazione di una donna, lo stereotipo
generazionale di bellezza, una bellezza
provocante: la linea delicata cede alla
virulenza di quella angolosa e accattivante, i
chiaroscuri mostrano zone d’ombra e luce che si
susseguono repentine a mettere in mostra le
forme del corpo nudo riverso su una roccia
angolosa e tagliente, la chioma fluente di
capelli che hanno la consistenza di fili di
spago, la posa stessa riversa a gambe aperte con
chiaro intento di mettere in mostra quello che
di femminile ed eccitante ha un corpo inteso
come semplice merce.
Allo stesso
tempo è misteriosa, quel mistero che verrà più
avanti identificato come un tratto
imprescindibile dell’esistenza: il colore nero
che occupa la maggior parte della scena, il
volto celato in parte dalla cascata di capelli,
in parte reso empiricamente al di fuori della
cornice. E’ un corpo di una donna che non ha
nome, ma è chiamata Beata per la posizione che
le spetta nella nostra società: su di una roccia
e lontano dall’osservatore, sfugge in profondità
per non farsi toccare, tanto è inarrivabile la
bellezza delle sue forme.
E’ la perfetta
realizzazione di quel mito che nella cultura
moderna è definito, “l’oggetto del
desiderio”.
In “Leggerezza”
coglie con geniale prontezza l’attimo in cui una
donna sta per svestirsi in un moto ascensionale
che la tramuterà nella donna: ferma l’immagine
nel momento in cui il velo, mosso da un turbine
divino, mostra un capezzolo. Esso è accentuato
dal contrasto cromatico tra il bianco-purezza
del velo e il monocromo evanescente del giallo
sabbia; un giallo che da color sabbia sta per
tramutare in oro, quindi il colore divino, della
trascendenza: anche in questo colore, coglie
l’intervallo che separa un primo tono di sabbia
da uno d’oro, la mutevolezza dell’essere.
Simbolicamente,
l’impatto provato dall’osservatore è di forte
intensità: la donna sveste la vagina, con le
gambe strette in atteggiamento difensivo o anche
timoroso, si vergogna ed è timida. Simboli, come
la vagina e il capezzolo, sono usati come
riferimento ad una donna tra tante: una che come
le altre porta i simboli della sua natura
femminile, resa nel passaggio che la porterà a
divenire la donna, da soggetto diviene oggetto
per mezzo dell’amore, un amore reso assoluto dal
candido bianco del velo e dal colore giallo
misto di sabbia e d’oro.
Per attuare
questo passaggio, ricorrente in tutte le opere
sin qui esposte, Gelormino ha delineato due
momenti o passaggi: il primo è l’amore. L’amore
è la luce che si muove dal suo essere per
mostrarsi, rendersi reale, altrimenti resta solo
una fantasia, un sogno, privo di qualsiasi
sostanza.
Devono essere
proprio a questo collegate le opere che
ritraggono donne, come in “Carnevale“, una donna
è vestita di un fantomatico costume e indossa
una maschera: è una donna, nella parte bassa con
una lunga veste che ricorda un vestito in
maschera del ‘700 veneziano; ma allo stesso
tempo è la donna, perché mostra alcune nudità e
indossa la maschera, quindi normalità unita al
mistero che cela il volto.
Un oscuro
intervallo si cela dietro questo quadro, e
quell’oscuro intervallo è l’amore. Non è
un’opera statica, ma è di un’intensità e di un
dinamismo sconvolgente, reso ancora più
accentuato dalla veste che scende fino all’inversosimile,
e il forte contrasto della parte alta della
figura: troppo piccola in proporzione alla parte
bassa.
È persino
inquietante per la pallidezza del corpo, il
busto scavato e semipiatto, infine il contrasto
col fondo nero che sbalza la figura contro
l’osservatore che si trova disarmato dal
movimento verso di sé. Questo salto verso chi
guarda è equilibrato dall’aureola di colori e
forme geometriche, dal forte sapore surreale,
disposte dietro le spalle della figura in primo
piano che viene cosi incastonata all’interno del
quadro, è un freno al suo slancio
dimensionale.
Egli ricerca la
donna, e non una qualsiasi: questo si vede né “I
colori dell’anima” dove affianca due donne; una
di Picasso (quella di sinistra) e l’altra di
Modigliani ( destra ). Sono identiche nella
corporeità, per lui non è il corpo l’oggetto da
ritrarre, o meglio da ricercare: infatti, lo
ritrae stilizzato al massimo senza dargli né
contorni sinuosi né forma di donna, quasi dei
totem di legno, fissi.
Quello che vuole
mostrare sono i volti, la donna di Picasso ha un
volto stilizzato, omogeneo e senza alcun accenno
di sensazione: è una maschera fissa, come fisso
è il suo corpo. La donna di Modigliani, invece,
ha un carattere ben accentuato nel volto:
imprime questo nel ciglio destro aggrottato
quasi a scrutare l’osservatore, in quello
sinistro irto e ampio per rendere la
contrapposizione movimento e trazione, ancora la
contrapposizione simbolica del corpo tolemaico e
del viso. Tutto ciò rende pulsante e vivo il
volto, le maggiori zone d’ombra che ravvivano le
alture del viso, due occhi impenetrabili per
ogni osservatore che non conosce la donna da
ritrarre, non conosce l’oggetto della sua
ricerca.
Adesso occorre
chiarezza, in quanto l’opposizione tra due donne
che assumono destini diversi, a due nomi di
grandi artisti non deve essere visto come
accenno di critica o giudizio alcuno riguardo
due grandi personalità come Picasso e Modigliani,
ma va vista come principio della fonte
d’ispirazione: il film “I colori dell’anima”. Il
mio lavoro di critica mi premeva di chiarire
questo punto: è stata l’ispirazione presa dal
film a porre in antitesi due nomi e due
concezioni della donna, Picasso e Modigliani
sono stati chiamati in causa come semplici
attori che rivestono una parte che non gli
appartiene.
Tornando ora
alla nostra discussione, il secondo punto è la
consapevolezza, essere con te stesso in assoluta
solitudine, essere semplicemente attento,
presente. Non è, al contrario dell’amore, una
relazione: l’altro non è necessario. Non è un
andare all’esterno: è un entrare in sé. La
consapevolezza è il movimento a ritroso della
luce verso la sua fonte, il suo ritornare alla
sorgente.
Ritorna questo
tema in “Chocolat“, in cui si ritrae in primo
piano dando le spalle al barista che sta
servendo un uomo al bancone, ad un uomo e una
donna seduti a chiacchierare, simboli di un
mondo indifferente e ristretto: si mostra in
profonda solitudine, ma attento a quello che gli
sta capitando alle spalle, vigile nella sua
introspezione.
Inoltre bisogna
anche dare una certa rilevanza alla timidezza
del personaggio in primo piano nel rimanere
quasi estraniato dal contesto, in modo
consapevole dato che da le spalle a quel mondo e
guarda verso un altro sognato: questo distacco è
reso in maniera netta dalla divisione degli
spazi in profondità, una profondità netta,
tagliente tra il primo piano e il secondo che
non permette il passaggio dell’aria e quindi una
continuità formale; e dalla serie di piatte
forme geometriche che portano ad una saturazione
dell’immagine, piatta anch’essa, dell’uomo che
quasi nasconde la sua vera essenza al resto
della gente del bar, per mostrarla a noi in modo
tale che ci faccia capire il suo cosciente stato
di solitudine consapevole.
Per arrivare poi
alla conclusione del cammino in “Anima Animus“,
un ibrido in profonda estasi, accentuata dal
colore rosso, dal dito nella bocca e dalla mano
che arriva in basso, quasi a toccare l’organo
genitale. Non è una semplice eccitazione
dell’atto sessuale, perché non sappiamo sé è
uomo o donna: infatti, è un androgino, un essere
che ha compiuto la sua fusione ed è arrivato a
quella polarizzazione d’amore e consapevolezza
racchiuse in un unico essere, che palpita di
nuova vita.
E’ l’atto finale
di una lunga odissea in cui trova la forma di
polarità più elevata, amore e consapevolezza,
come uomo-donna, vita-morte, oscurità-luce,
corpo-anima. Amore e consapevolezza è la
polarità più elevata, l’ultima, là dove accade
la trascendenza. Ecco perché nei lavori sopra
citati egli non riprende la fine della
trascendenza, ancora non si è congiunto con la
donna amata.
L’amore nel
cammino di Gelormino è essenziale. Ha dovuto
perdere se stesso, per riconquistarsi. Vede
l’amore come la sola possibilità di perdere se
stesso totalmente. Sembra un paradosso, ma ha
dovuto addentrarsi nell’amore, entrare in
relazione, in modo da poter poi tornare a se
stesso. Amore, quindi, come crescita spirituale,
esso funziona come uno specchio: è molto
difficile conoscere se stessi, a meno che non si
sia visto riflesso il proprio volto negli occhi
di qualcuno che ci ama.
Come devi
guardarti in uno specchio per vedere il tuo
volto fisico, cosi devi guardare nello specchio
dell’amore per vedere il tuo volto spirituale.
Insomma Gelormino vede l’amore come uno specchio
spirituale: esso nutre, integra, prepara al
viaggio interiore, ti ricorda il tuo volto
originale.
Nei suoi momenti
di amore profondo, ci sono bagliori del volto
originale, sebbene questi affiorino come
riflessi furtivi e inafferrabili: così come
nelle sue lunghe notti di luna piena, vedeva la
“Luna” riflessa nel lago, nella quiete del lago;
allo stesso modo l’amore funziona come un lago.
La luna riflessa nel lago è l’inizio della sua
ricerca della vera luna. Se non hai mai visto la
luna riflessa nel lago, non cercherai mai la
luna reale.
Domenico
Margiotta
Curriculum Vitae
Gelormino Nicola
NOME
Nicola Gelormino
NATO
Benevento
IL
01 maggio 1984
STUDI
Iscritto all'Università degli studi di Firenze,
Facoltà di Architettura, corso di laurea
Triennale in Scienze dell’Architettura
APPROFONDIMENTI CULTURALI
-
arti visive, scultura, musica, teatro e
architettura;
-
opere pittoriche su formati e materiali
vari, ispirati da uno studio trascorso e
attuale, sui più protagonisti dell’arte
moderna;
-
opere in acquerello che richiamano gli
scorci più importanti della città di
Firenze;
-
partecipazione nel Dicembre 2005 al concorso
di pittura in memoria dell’artista Massimo
Rao organizzato dal Rotary Club della Valle
Telesina;
Curriculum Vitae
Margiotta Domenico
NOME
Domenico Margiotta
NATO
Foggia
IL
24 agosto 1984
STUDI
Iscritto all'Università degli studi di Firenze,
Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea
Triennale in Storia e Tutela dei Beni Artistici
APPROFONDIMENTI CULTURALI
-
arti visive, scultura, musica, teatro e
architettura, letteratura e fotografia;
-
critiche e saggi inerenti a questi temi dal
punto di vista storico-critico;
-
pubblicazioni di poesie su riviste cartacee
e su vari siti web dedicati alla
letteratura;
-
composizioni varie di racconti e romanzi;
-
partecipazioni a diversi concorsi di poesia;
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