23 dicembre 2006
Forme e colori aldilà dell'Arno
Giovanni Guerriera

 

 

Nel mese di Novembre ho avuto il piacere di scoprire l’arte ma soprattutto la passione di un mio conterraneo, Nicola Gelormino; la curiosità che nasceva dalla descrizione dettagliata delle sue opere, ha fatto nascere in me il desiderio di approfondire la sua conoscenza dal punto di vista artistico. Questo è il motivo che mi ha spinto a scrivere queste righe, rendendo partecipe i telesini delle abilità in questo campo. La cosa più importante che bisogna sottolineare, è che i suoi lavori sono in continua evoluzione e soprattutto non hanno né tempo né spazio in quanto tutti ispirati dal vivere quotidiano.

 

 

 

RECENSIONE MARGIOTTA DOMENICO

 

Per carpire a fondo tagli su tele, distese di colore e forme astrattizzanti. Per intraprendere un lungo e faticoso viaggio guidato dallo spirito dell’artista, fino a raggiungere quella profonda verità che ogni uomo protegge e conserva come uno scrigno, e ritornare di nuovo in superficie arricchiti da un pezzetto di questa essenza primordiale; per fare tutto ciò, non possiamo attenerci solo all’immagine dell’opera, ma bisogna conoscere il punto di partenza e d’arrivo che questo ragazzo ha segnato nella sua vita.

Nicola Gelormino è partito da se stesso, da quella impercettibile zona d’ombra che offusca e crea confusione, quella terra di nessuno popolata di sensazioni taciute e mai rivelate: come in “Autoritratto“ egli ha dovuto stracciare, con lunghe ferite nere, la parte più superficiale del sé per mostrarci la sua vera essenza. A primo impatto, l’occhio non riesce a districarsi tra zone di colore fumoso e tagli netti di nero, la mente non riesce a trovare appigli di nessuna forma né colore, ma vi è solo una saturazione dell’immagine retinica: applica una destrutturazione del volto materiale e tangibile, per approdare alla vera essenza del suo io.

 

Egli ha dovuto spingersi con sofferenza, vedi i bruschi tagli neri, dietro quella maschera da attore che ognuno di noi si crea per sopravvivere in un mondo che non è molto differente da un grande teatro: tutti recitano una parte, in modo consapevole o no. Ha rinnegato la sua parte, l’immagine sociale per mostrare, a spiragli di colore, quella essenza tanto ricercata da lui, quanto rinnegata dal teatro del mondo.

E’ questa la sua vocazione, spurgarsi da tutte quelle cianfrusaglie che il nostro baule dei ricordi contiene, spogliarsi di quella pesantezza che attanaglia chi come lui vuole essere vero e di conseguenza sentirsi vivo: in poche parole rendersi reale, quindi essere.

Gelormino ha avuto una grande intuizione nel farci cogliere quell’essere in materia, quell’intervallo o pausa tra due note che formano un vero accordo, col grigio della faccina stilizzata: quell’istante in cui il bianco si tramuta in nero, o viceversa, e da forma al grigio. Questo colore è l’essenza stessa di un intervallo tra la vita e la morte che è poi la sua vera essenza.

La ricerca della donna è il punto fermo attorno al quale si muove un aspetto del suo lavoro: punto di partenza di questa ricerca è “Beata“. E’ partito dalla rappresentazione di una donna, lo stereotipo generazionale di bellezza, una bellezza provocante: la linea delicata cede alla virulenza di quella angolosa e accattivante, i chiaroscuri mostrano zone d’ombra e luce che si susseguono repentine a mettere in mostra le forme del corpo nudo riverso su una roccia angolosa e tagliente, la chioma fluente di capelli che hanno la consistenza di fili di spago, la posa stessa riversa a gambe aperte con chiaro intento di mettere in mostra quello che di femminile ed eccitante ha un corpo inteso come semplice merce.

 

 

Allo stesso tempo è misteriosa, quel mistero che verrà più avanti identificato come un tratto imprescindibile dell’esistenza: il colore nero che occupa la maggior parte della scena, il volto celato in parte dalla cascata di capelli, in parte reso empiricamente al di fuori della cornice. E’ un corpo di una donna che non ha nome, ma è chiamata Beata per la posizione che le spetta nella nostra società: su di una roccia e lontano dall’osservatore, sfugge in profondità per non farsi toccare, tanto è inarrivabile la bellezza delle sue forme.

E’ la perfetta realizzazione di quel mito che nella cultura moderna è definito, “l’oggetto del desiderio”.   

In “Leggerezza” coglie con geniale prontezza l’attimo in cui una donna sta per svestirsi in un moto ascensionale che la tramuterà nella donna: ferma l’immagine nel momento in cui il velo, mosso da un turbine divino, mostra un capezzolo. Esso è accentuato dal contrasto cromatico tra il bianco-purezza del velo e il monocromo evanescente del giallo sabbia; un giallo che da color sabbia sta per tramutare in oro, quindi il colore divino, della trascendenza: anche in questo colore, coglie l’intervallo che separa un primo tono di sabbia da uno d’oro, la mutevolezza dell’essere.

 

 

 

Simbolicamente, l’impatto provato dall’osservatore è di forte intensità: la donna sveste la vagina, con le gambe strette in atteggiamento difensivo o anche timoroso, si vergogna ed è timida. Simboli, come la vagina e il capezzolo, sono usati come riferimento ad una donna tra tante: una che come le altre porta i simboli della sua natura femminile, resa nel passaggio che la porterà a divenire la donna, da soggetto diviene oggetto per mezzo dell’amore, un amore reso assoluto dal candido bianco del velo e dal colore giallo misto di sabbia e d’oro.

Per attuare questo passaggio, ricorrente in tutte le opere sin qui esposte, Gelormino ha delineato due momenti o passaggi: il primo è l’amore. L’amore è la luce che si muove dal suo essere per mostrarsi, rendersi reale, altrimenti resta solo una fantasia, un sogno, privo di qualsiasi sostanza.

 

 

Devono essere proprio a questo collegate le opere che ritraggono donne, come in “Carnevale“, una donna è vestita di un fantomatico costume e indossa una maschera: è una donna, nella parte bassa con una lunga veste che ricorda un vestito in maschera del ‘700 veneziano; ma allo stesso tempo è la donna, perché mostra alcune nudità e indossa la maschera, quindi normalità unita al mistero che cela il volto.

Un oscuro intervallo si cela dietro questo quadro, e quell’oscuro intervallo è l’amore. Non è un’opera statica, ma è di un’intensità e di un dinamismo sconvolgente, reso ancora più accentuato dalla veste che scende fino all’inversosimile, e il forte contrasto della parte alta della figura: troppo piccola in proporzione alla parte bassa.

È persino inquietante per la pallidezza del corpo, il busto scavato e semipiatto, infine il contrasto col fondo nero che sbalza la figura contro l’osservatore che si trova disarmato dal movimento verso di sé. Questo salto verso chi guarda è equilibrato dall’aureola di colori e forme geometriche, dal forte sapore surreale, disposte dietro le spalle della figura in primo piano che viene cosi incastonata all’interno del quadro, è un freno al suo slancio dimensionale.   

 

 

 

Egli ricerca la donna, e non una qualsiasi: questo si vede né “I colori dell’anima” dove affianca due donne; una di Picasso (quella di sinistra) e l’altra di Modigliani ( destra ). Sono identiche nella corporeità, per lui non è il corpo l’oggetto da ritrarre, o meglio da ricercare: infatti, lo ritrae stilizzato al massimo senza dargli né contorni sinuosi né forma di donna, quasi dei totem di legno, fissi.

Quello che vuole mostrare sono i volti, la donna di Picasso ha un volto stilizzato, omogeneo e senza alcun accenno di sensazione: è una maschera fissa, come fisso è il suo corpo. La donna di Modigliani, invece, ha un carattere ben accentuato nel volto: imprime questo nel ciglio destro aggrottato quasi a scrutare l’osservatore, in quello sinistro irto e ampio per rendere la contrapposizione movimento e trazione, ancora la contrapposizione simbolica del corpo tolemaico e del viso. Tutto ciò rende pulsante e vivo il volto, le maggiori zone d’ombra che ravvivano le alture del viso, due occhi impenetrabili per ogni osservatore che non conosce la donna da ritrarre, non conosce l’oggetto della sua ricerca.

Adesso occorre chiarezza, in quanto l’opposizione tra due donne che assumono destini diversi, a due nomi di grandi artisti non deve essere visto come accenno di critica o giudizio alcuno riguardo due grandi personalità come Picasso e Modigliani, ma va vista come principio della fonte d’ispirazione: il film “I colori dell’anima”. Il mio lavoro di critica mi premeva di chiarire questo punto: è stata l’ispirazione presa dal film a porre in antitesi due nomi e due concezioni della donna, Picasso e Modigliani sono stati chiamati in causa come semplici attori che rivestono una parte che non gli appartiene.

Tornando ora alla nostra discussione, il secondo punto è la consapevolezza, essere con te stesso in assoluta solitudine, essere semplicemente attento, presente. Non è, al contrario dell’amore, una relazione: l’altro non è necessario. Non è un andare all’esterno: è un entrare in sé. La consapevolezza è il movimento a ritroso della luce verso la sua fonte, il suo ritornare alla sorgente.

Ritorna questo tema in “Chocolat“, in cui si ritrae in primo piano dando le spalle al barista che sta servendo un uomo al bancone, ad un uomo e una donna seduti a chiacchierare, simboli di un mondo indifferente e ristretto: si mostra in profonda solitudine, ma attento a quello che gli sta capitando alle spalle, vigile nella sua introspezione.

Inoltre bisogna anche dare una certa rilevanza alla timidezza del personaggio in primo piano nel rimanere quasi estraniato dal contesto, in modo consapevole dato che da le spalle a quel mondo e guarda verso un altro sognato: questo distacco è reso in maniera netta dalla divisione degli spazi in profondità, una profondità netta, tagliente tra il primo piano e il secondo che non permette il passaggio dell’aria e quindi una continuità formale; e dalla serie di piatte forme geometriche che portano ad una saturazione dell’immagine, piatta anch’essa, dell’uomo che quasi nasconde la sua vera essenza al resto della gente del bar, per mostrarla a noi in modo tale che ci faccia capire il suo cosciente stato di solitudine consapevole.

Per arrivare poi alla conclusione del cammino in “Anima Animus“, un ibrido in profonda estasi, accentuata dal colore rosso, dal dito nella bocca e dalla mano che arriva in basso, quasi a toccare l’organo genitale. Non è una semplice eccitazione dell’atto sessuale, perché non sappiamo sé è uomo o donna: infatti, è un androgino, un essere che ha compiuto la sua fusione ed è arrivato a quella polarizzazione d’amore e consapevolezza racchiuse in un unico essere, che palpita di nuova vita.

E’ l’atto finale di una lunga odissea in cui trova la forma di polarità più elevata, amore e consapevolezza, come uomo-donna, vita-morte, oscurità-luce, corpo-anima. Amore e consapevolezza è la polarità più elevata, l’ultima, là dove accade la trascendenza. Ecco perché nei lavori sopra citati egli non riprende la fine della trascendenza, ancora non si è congiunto con la donna amata.

L’amore nel cammino di Gelormino è essenziale. Ha dovuto perdere se stesso, per riconquistarsi. Vede l’amore come la sola possibilità di perdere se stesso totalmente. Sembra un paradosso, ma ha dovuto addentrarsi nell’amore, entrare in relazione, in modo da poter poi tornare a se stesso. Amore, quindi, come crescita spirituale, esso funziona come uno specchio: è molto difficile conoscere se stessi, a meno che non si sia visto riflesso il proprio volto negli occhi di qualcuno che ci ama.

Come devi guardarti in uno specchio per vedere il tuo volto fisico, cosi devi guardare nello specchio dell’amore per vedere il tuo volto spirituale. Insomma Gelormino vede l’amore come uno specchio spirituale: esso nutre, integra, prepara al viaggio interiore, ti ricorda il tuo volto originale. 

Nei suoi momenti di amore profondo, ci sono bagliori del volto originale, sebbene questi affiorino come riflessi furtivi e inafferrabili: così come nelle sue lunghe notti di luna piena, vedeva la “Luna” riflessa nel lago, nella quiete del lago; allo stesso modo l’amore funziona come un lago. La luna riflessa nel lago è l’inizio della sua ricerca della vera luna. Se non hai mai visto la luna riflessa nel lago, non cercherai mai la luna reale.

 Domenico Margiotta

 

 

 

 

Curriculum Vitae Gelormino Nicola

 

NOME Nicola Gelormino

NATO  Benevento

IL        01 maggio 1984

 

STUDI

Iscritto all'Università degli studi di Firenze, Facoltà di Architettura, corso di laurea Triennale in Scienze dell’Architettura

 

APPROFONDIMENTI CULTURALI

 

  • arti visive, scultura, musica, teatro e architettura;

  • opere pittoriche su formati e materiali vari, ispirati da uno studio trascorso e attuale, sui più protagonisti dell’arte moderna;

  • opere in acquerello che richiamano gli scorci più importanti della città di Firenze;

  • partecipazione nel Dicembre 2005 al concorso di pittura in memoria dell’artista Massimo Rao organizzato dal Rotary Club della Valle Telesina;

 

 

 

 

Curriculum Vitae Margiotta Domenico

 

NOME Domenico Margiotta

NATO  Foggia

IL        24 agosto 1984

 

STUDI

Iscritto all'Università degli studi di Firenze, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Triennale in Storia e Tutela dei Beni Artistici

 

APPROFONDIMENTI CULTURALI

 

  • arti visive, scultura, musica, teatro e architettura, letteratura e fotografia;

  • critiche e saggi inerenti a questi temi dal punto di vista storico-critico;

  • pubblicazioni di poesie su riviste cartacee e su vari siti web dedicati alla letteratura;

  • composizioni varie di racconti e romanzi;

  • partecipazioni a diversi concorsi di poesia;

 

 

 

     

Turismo, Enogastronomia, Arte, Spettacolo


Per intervenire: invia@vivitelese.it