20 novembre 2006
Cerreto, Intonaco Si, Intonaco No…ed altro
Lorenzo Morone

 

 

Intonaco Si, Intonaco No…ed altro ancora.

Nel dibattito culturale che si è aperto a Cerreto su “ intonaco si, intonaco no”, dibattito disinteressato e nato al solo scopo di far crescere la nostra comunità, felice perché finalmente si discute “ per migliorare”, senza che già ci sia una conclusione impaccottata “da un uomo solo al comando” e da accettare “a mano alzata”, così come è avvenuto nella decisione di inserire la pietra vulcanica in Piazza S.Martino, ed altro ancora…, vorrei inserirmi attraverso la narrazione di un episodio storico.

Il 20 ottobre 1388 il consiglio generale dei 600 che reggeva di fatto Bologna, sottraendola all’inviso potere centrale del Papato, diede incarico al “muratore” Antonio di Vincenzo di edificare “una bellissima e onorevole chiesa sotto il titolo di San Petronio”. Il muratore, da tecnico serio, andò più volte a Firenze e Milano per farsi un’idea delle due cattedrali in costruzione. Per lo stile, si prese a modello il modernissimo linguaggio gotico di santa Maria del Fiore, ammorbidito dall'impiego d'un materiale «caldo», il mattone. Bologna non aveva cave di pietra da taglio, non disponeva dei marmi di Candoglia come Milano, o toscani come Firenze, la sua tradizione artigiana era legata al cotto, e furono proprio le lesene rosse, i pilastri di cotto in­fiammati dal sole che entra copioso dai finestroni a temperare la verticalità del gotico, ieratica nel duomo di Milano, chiara fredda e razionale nella pietra grigia della cattedrale fiorentina, luminosamente sensuale in san Petronio. I lavori di costruzione della Chiesa, disposta orgogliosamente secondo un inconsueto asse nord-sud, proce­devano con ritmo soddisfacente quando arrivò un cardinale a bloccarli. Non per divergenze di natura estetica, ma per fame di soldi. Era costui il napoletano Baldassarre Cossa, detto «il pirata» per il suo passato di corsaro nelle acque del Mediterraneo. «Uomo di larga coscienza, più adatto a ma­neggiar la spada che l'aspersorio, comprò in contanti il titolo di cardinale e andò come legato a Bologna dove avrebbe sedotto in un solo anno duecentoventi tra nubili, maritate, vedove e monache: una donna al giorno, dedotta la quaresima, le domeniche e le altre feste comandate». (C. Marchi - Grandi peccatori, grandi Cattedrali)

Appena entrato in città, smorzò l'entusiasmo edificatorio dei bolognesi dicendo che nella scala delle scelte prioritarie San Petronio era la meno urgente, sospese i lavori e “intascò” i quattrini.­ Rimase così incompiuta la facciata con il rivestimento in marmo fermatosi ad altezza dello splendido portale realizzato da Jacopo della Quercia, il Maradona degli scultori. Il rivestimento non verrà più completato, lasciando a vista i ricorsi in mattoni, nonostante i tanti cultori di turno del restauro “stilistico” ne reclamassero il completamento “perché nel 1400 non esistevano le facciate in mattoni a faccia vista!”, tuonavano con gratuita certezza. Fu interpellato addirittura Palladio, nel 1500, il quale disse più o meno così: “se facciata dobbiamo fare, sia in puro stile rinascimentale: non possiamo, nel 1500, parlare in “gotico”:  sarebbe un falso!” Sicuramente si ispirò a quanto già fatto da Leon Battista Alberti alla facciata di S.Maria Novella a Firenze: all’esistente facciata trecentesca, rimasta interrotta a metà altezza, sovrappose una parte superiore rinascimentale, lo stile del tempo. Dopo l’unità d’Italia tornarono i cultori del “falso d’epoca”, ma anche questa volta, per fortuna, non se ne fece nulla. “La facciata non si tocca!”, tuonò Carducci  “ resti con i mattoni sporgenti a vista. Gli uomini del XIX secolo non possono mettersi nei panni ideologici ed estetici di quelli del XIV secolo”. E così è stato fino ad oggi: in fondo, la facciata di S.Petronio è come l’incompiuta di Shubert: chi mai oserebbe proporne il completamento? L’ “incompiuto”  è diventato un valore aggiunto. Ma gli esempi sono tanti, spesso contradditori tra loro, venuti fuori da secoli di discussioni ed esperienze. E altri fiumi di inchiostro si verseranno. Ma una cosa è universalmente accettata, almeno dagli anni 30, quando ad Atene fu stilata la Carta del Restauro:  "…nei restauri si dovrebbe avere imparato a riconoscere una delle più radicate e dannose eresie dell'ottocento…che pretende di far fare un voltafaccia al tempo e cancellare ... la storia di un monumento.” (Cesare Brandi) . In parole semplici, una volta venuto meno il concetto di pretesa superiorità dell’arte contemporanea rispetto all’arte del passato, concetto che fino alla Rivoluzione Francese ha portato alla continua, costante trasformazione integrale dei  monumenti, oggi si cerca di rendere leggibile tutta la loro storia, in una sorta di cartella clinica.  Chiaramente sarà  il monumento, indagato storicamente e analizzato nella sua consistenza materiale ad indicare al tecnico attento e competente le scelte più opportune e rispondenti alla sua realtà, caso per caso e senza farsi guidare dalla “moda del tempo”, che oggi è la “pietra a faccia vista”. Certo, una cosa è intervenire su un monumento arrivato a noi integro, una cosa è intervenire su qualcosa giunta dopo tante modifiche e trasformazioni, come era per esempio il palazzo comunale. Inoltre molti edifici che oggi si presentano come di pietra a vista erano coperti in origine da un intonachino, con funzioni protettive, che veniva rifatto di frequente e poteva avere colori diversi. La mancata manutenzione ha prodotto murature che oggi appaiono di pietra, con intonaco detto a “raso di sasso”. Che conseguenze trarre da questo? Se le case erano all'origine intonacate e colorate esse devono ad ogni costo tornare ad esserlo, per rispetto della filologia, delle scienze storiche, dell'autenticità? E che facciamo delle tante Chiese romaniche e gotiche, una volta interamente affrescate per motivi “didattici”, come è ancora S.Francesco d’Assisi, oggi gelidamente in pietra a faccia vista? Io sono, lo ripeto, per il “caso per caso” E’ però chiaro che nell’intervento di restauro una pietra aggiunta oggi avrà finiture diverse da quelle di ieri, e una finestra tompagnata, così resterà solo quale segno di un passato diverso, così come gli archi antistanti l’ex teatro sono stati lasciati in pietra non per motivi estetici, che nel restauro non possono essere presi in considerazione, ma perché furono aggiunti solo in un secondo momento, proprio così: a faccia vista, come certe sottofondazioni e certi muri in tufo aggiunti  nel Convento di S. Antonio dopo il terremoto dell’800. Che facciamo, intonachiamo pure quelli per riportarli indietro nel tempo e mimetizzarli con la struttura originaria? E le carceri, così come la chiesa di S. Maria del Pianto, sono state restaurate con l’intonaco a “raso”, non per uno schiribizzo dei tecnici o della Soprintendenza, ma perché così ci sono pervenute. Non altrettanto però posso dire della scelta di lasciare in “pietrame a faccia vista”  la facciata accanto alla Chiesa di Maria SS di Costantinopoli: scelta assolutamente gratuita, di moda, come lo è stata la scelta del non compromettente colore grigio qualche lustro fa, sostituito poi dall’imperante “giallo papalino” all’interno di chiese che gialle non sono mai state. Teniamo poi presente  che, se lo stesso “stile” si manifesta in modo diverso da zona a zona: da noi costruzioni “barocche” con decorazioni in pietra debolmente intonacate e colorate ce ne sono parecchie, così come in Sicilia e  Puglia, mentre in Piemonte e Liguria il barocco si è manifestato con stucchi e decori realizzati, per risparmiare, in finto marmo, marmo presente, ed in abbondanza, altrove,  non può esistere una regola generale valida dappertutto. Figuriamoci poi a Cerreto, ove la grande cultura barocca che ha espresso un avveniristico impianto urbanistico, nelle costruzioni ha partorito uno stile particolare, dialettale avrebbe detto Zevi, frutto dell’incontro tra le colte maestranze napoletane chiamate a Cerreto per la ricostruzione, e le tradizioni locali, il tutto condito dalla paura del terremoto!

Quanto detto innanzi è, secondo me, valido oggi. Domani….

Di sicuro non bastano anni di laurea, di specializzazione e di studi per avere certezze. Di sicuro però ci sono dei principi che troppo spesso trascuriamo: il restauro, come il risanamento statico, va fatto per limiti di edificio, non di proprietà: realizzare facciate che hanno tanti colori quanti sono i proprietari è inaccettabile!. Altra regola, che troppo spesso dimentichiamo, è che gli elementi di “arredo” originari vanno recuperati e conservati anche se deteriorati, fuori asse e/o non conformi alle nostre regole estetiche: è inconcepibile coprire o spostare vecchi portali e/o finestre in pietra e /o tufo o addirittura bocciardarli o sostituirli con nuovi elementi, sia pur simili a quelli preesistenti: sono interventi non solo scorretti, ma soprattutto irreversibili. Da aborrire sono poi le integrazioni o le trasformazioni “in stile”, assurdi falsi d’epoca, come troppo spesso avviene nell’arredo, a volte vero trionfo del Kitch in stile. Un’opera architettonica non è un quadro che dopo la realizzazione avrà sempre lo stesso aspetto. Una città, una costruzione, vive e si modifica nel tempo, ed ogni intervento deve parlare la propria lingua.  Solo ad un occhio superficiale certe stratificazioni, certi arricchimenti, possono sembrare coevi: in realtà sono un insieme di stili ognuno riferito ad una precisa epoca. Ed è chiaro che il monumento restaurato non sarà mai più il monumento originario, ma ne rispetterà in modo assoluto le caratteristiche scientificamente provate e documentate e ritornerà a nuova vita anche con integrazioni che parlino un linguaggio moderno. Nessuno oggi si metterebbe a parlare con un linguaggio del passato, fosse pure quello usato dai più grandi poeti e/o letterati: sa già che sarebbe preso per matto!       

” lo stato originario è un mito, un'idea astorica, atta a sacrificare l'opera d'arte ad un concetto astratto e a rappresentarla in uno stato che non è mai esistito”( Paul Philippot).

Concludo con un augurio: spero che il dibattito si allarghi ad altri contributi che tengano conto di una grande verità ribadita dall’ottimo Nicola Ciaburri: …la città fondata dopo il terremoto del 1688 rispecchia un modello economico e sociale che trova i suoi elementi di sviluppo nella produzione (lavorazione dei panni di lana, artigianato, ecc) e non nella coltivazione agricola. Leggere Cerreto come aggregato rurale è come scambiare  il teatro e la musica napoletana per teatro e musica popolari... Spero che a qualcuno ora sia più chiaro perché “ce la tengo tanto” col museo della civiltà contadina (non con i contadini, dal cui mondo mi onoro di provenire) aperto nel Monte di Pietà, monumento simbolo di quella Cerreto che Nicola e Renato Pescitelli amano tanto, con i fatti, non con le chiacchiere.

Arch. Lorenzo Morone.

 

 

     

 Valle Telesina


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