Intonaco Si, Intonaco No…ed altro ancora.
Nel dibattito culturale che si è aperto a
Cerreto su “ intonaco si, intonaco no”,
dibattito disinteressato e nato al solo scopo di
far crescere la nostra comunità, felice perché
finalmente si discute “ per migliorare”, senza
che già ci sia una conclusione impaccottata “da
un uomo solo al comando” e da accettare “a mano
alzata”, così come è avvenuto nella decisione di
inserire la pietra vulcanica in Piazza S.Martino,
ed altro ancora…, vorrei inserirmi attraverso la
narrazione di un episodio storico.
Il 20 ottobre 1388 il consiglio
generale dei 600 che reggeva di fatto Bologna,
sottraendola all’inviso potere centrale del
Papato, diede incarico al “muratore” Antonio di
Vincenzo di edificare “una bellissima e
onorevole chiesa sotto il titolo di San Petronio”.
Il muratore, da tecnico serio, andò più volte a
Firenze e Milano per farsi un’idea delle due
cattedrali in costruzione. Per lo stile, si
prese a modello il modernissimo linguaggio
gotico di santa Maria del Fiore, ammorbidito
dall'impiego d'un materiale «caldo», il mattone.
Bologna non aveva cave di pietra da taglio, non
disponeva dei marmi di Candoglia come Milano, o
toscani come Firenze, la sua tradizione
artigiana era legata al cotto, e furono proprio
le lesene rosse, i pilastri di cotto infiammati
dal sole che entra copioso dai finestroni a
temperare la verticalità del gotico, ieratica
nel duomo di Milano, chiara fredda e razionale
nella pietra grigia della cattedrale fiorentina,
luminosamente sensuale in san Petronio. I lavori
di costruzione della Chiesa, disposta
orgogliosamente secondo un inconsueto asse
nord-sud, procedevano con ritmo soddisfacente
quando arrivò un cardinale a bloccarli. Non per
divergenze di natura estetica, ma per fame di
soldi. Era costui il napoletano Baldassarre
Cossa, detto «il pirata» per il suo passato di
corsaro nelle acque del Mediterraneo.
«Uomo di larga coscienza, più
adatto a maneggiar la spada che l'aspersorio,
comprò in contanti il titolo di cardinale e andò
come legato a Bologna dove avrebbe sedotto in un
solo anno duecentoventi tra nubili, maritate,
vedove e monache: una
donna al giorno, dedotta la quaresima, le
domeniche e le altre feste comandate».
(C. Marchi - Grandi peccatori, grandi
Cattedrali)
Appena entrato in città, smorzò l'entusiasmo
edificatorio dei bolognesi dicendo che nella
scala delle scelte prioritarie San Petronio era
la meno urgente, sospese i lavori e “intascò” i
quattrini. Rimase così incompiuta la facciata
con il rivestimento in marmo fermatosi ad
altezza dello splendido portale realizzato da
Jacopo della Quercia, il Maradona degli
scultori. Il rivestimento non verrà più
completato, lasciando a vista i ricorsi in
mattoni, nonostante i tanti cultori di turno del
restauro “stilistico” ne reclamassero il
completamento “perché nel 1400 non esistevano
le facciate in mattoni a faccia vista!”,
tuonavano con gratuita certezza. Fu interpellato
addirittura Palladio, nel 1500, il quale disse
più o meno così: “se facciata dobbiamo fare,
sia in puro stile rinascimentale: non possiamo,
nel 1500, parlare in “gotico”: sarebbe un
falso!” Sicuramente si ispirò a quanto già
fatto da Leon Battista Alberti alla facciata di
S.Maria Novella a Firenze: all’esistente
facciata trecentesca, rimasta interrotta a metà
altezza, sovrappose una parte superiore
rinascimentale, lo stile del tempo. Dopo l’unità
d’Italia tornarono i cultori del “falso
d’epoca”, ma anche questa volta, per fortuna,
non se ne fece nulla. “La facciata non si
tocca!”, tuonò Carducci “ resti con i
mattoni sporgenti a vista. Gli uomini del XIX
secolo non possono mettersi nei panni ideologici
ed estetici di quelli del XIV secolo”. E
così è stato fino ad oggi: in fondo, la facciata
di S.Petronio è come l’incompiuta di Shubert:
chi mai oserebbe proporne il completamento? L’
“incompiuto” è diventato un valore aggiunto. Ma
gli esempi sono tanti, spesso contradditori tra
loro, venuti fuori da secoli di discussioni ed
esperienze. E altri fiumi di inchiostro si
verseranno. Ma una cosa è universalmente
accettata, almeno dagli anni 30, quando ad Atene
fu stilata la Carta del Restauro: "…nei
restauri si dovrebbe avere imparato a
riconoscere una delle più radicate e dannose
eresie dell'ottocento…che pretende di far fare
un voltafaccia al tempo e cancellare ... la
storia di un monumento.” (Cesare Brandi) .
In parole semplici, una volta venuto meno il
concetto di pretesa superiorità dell’arte
contemporanea rispetto all’arte del passato,
concetto che fino alla Rivoluzione Francese ha
portato alla continua, costante trasformazione
integrale dei monumenti, oggi si cerca di
rendere leggibile tutta la loro storia, in una
sorta di cartella clinica. Chiaramente sarà il
monumento, indagato storicamente e analizzato
nella sua consistenza materiale ad indicare al
tecnico attento e competente le scelte più
opportune e rispondenti alla sua realtà, caso
per caso e senza farsi guidare dalla “moda del
tempo”, che oggi è la “pietra a faccia vista”.
Certo, una cosa è intervenire su un monumento
arrivato a noi integro, una cosa è intervenire
su qualcosa giunta dopo tante modifiche e
trasformazioni, come era per esempio il palazzo
comunale. Inoltre molti edifici che oggi si
presentano come di pietra a vista erano coperti
in origine da un intonachino, con funzioni
protettive, che veniva rifatto di frequente e
poteva avere colori diversi. La mancata
manutenzione ha prodotto murature che oggi
appaiono di pietra, con intonaco detto a “raso
di sasso”. Che conseguenze trarre da questo? Se
le case erano all'origine intonacate e colorate
esse devono ad ogni costo tornare ad esserlo,
per rispetto della filologia, delle scienze
storiche, dell'autenticità? E che facciamo delle
tante Chiese romaniche e gotiche, una volta
interamente affrescate per motivi “didattici”,
come è ancora S.Francesco d’Assisi, oggi
gelidamente in pietra a faccia vista? Io sono,
lo ripeto, per il “caso per caso” E’ però chiaro
che nell’intervento di restauro una pietra
aggiunta oggi avrà finiture diverse da quelle di
ieri, e una finestra tompagnata, così resterà
solo quale segno di un passato diverso, così
come gli archi antistanti l’ex teatro sono stati
lasciati in pietra non per motivi estetici, che
nel restauro non possono essere presi in
considerazione, ma perché furono aggiunti solo
in un secondo momento, proprio così: a faccia
vista, come certe sottofondazioni e certi muri
in tufo aggiunti nel Convento di S. Antonio
dopo il terremoto dell’800. Che facciamo,
intonachiamo pure quelli per riportarli indietro
nel tempo e mimetizzarli con la struttura
originaria? E le carceri, così come la chiesa di
S. Maria del Pianto, sono state restaurate con
l’intonaco a “raso”, non per uno schiribizzo dei
tecnici o della Soprintendenza, ma perché così
ci sono pervenute. Non altrettanto però posso
dire della scelta di lasciare in “pietrame a
faccia vista” la facciata accanto alla Chiesa
di Maria SS di Costantinopoli: scelta
assolutamente gratuita, di moda, come lo è stata
la scelta del non compromettente colore grigio
qualche lustro fa, sostituito poi dall’imperante
“giallo papalino” all’interno di chiese che
gialle non sono mai state. Teniamo poi presente
che, se lo stesso “stile” si manifesta in modo
diverso da zona a zona: da noi costruzioni
“barocche” con decorazioni in pietra debolmente
intonacate e colorate ce ne sono parecchie, così
come in Sicilia e Puglia, mentre in Piemonte e
Liguria il barocco si è manifestato con stucchi
e decori realizzati, per risparmiare, in finto
marmo, marmo presente, ed in abbondanza,
altrove, non può esistere una regola generale
valida dappertutto. Figuriamoci poi a Cerreto,
ove la grande cultura barocca che ha espresso un
avveniristico impianto urbanistico, nelle
costruzioni ha partorito uno stile particolare,
dialettale avrebbe detto Zevi, frutto
dell’incontro tra le colte maestranze napoletane
chiamate a Cerreto per la ricostruzione, e le
tradizioni locali, il tutto condito dalla paura
del terremoto!
Quanto detto innanzi è, secondo me, valido oggi.
Domani….
Di
sicuro non bastano anni di laurea, di
specializzazione e di studi per avere certezze.
Di sicuro però ci sono dei principi che troppo
spesso trascuriamo: il restauro, come il
risanamento statico, va fatto per limiti di
edificio, non di proprietà: realizzare facciate
che hanno tanti colori quanti sono i proprietari
è inaccettabile!. Altra regola, che troppo
spesso dimentichiamo, è che gli elementi di
“arredo” originari vanno recuperati e conservati
anche se deteriorati, fuori asse e/o non
conformi alle nostre regole estetiche: è
inconcepibile coprire o spostare vecchi portali
e/o finestre in pietra e /o tufo o addirittura
bocciardarli o sostituirli con nuovi elementi,
sia pur simili a quelli preesistenti: sono
interventi non solo scorretti, ma soprattutto
irreversibili. Da aborrire sono poi le
integrazioni o le trasformazioni “in stile”,
assurdi falsi d’epoca, come troppo spesso
avviene nell’arredo, a volte vero trionfo del
Kitch in stile. Un’opera architettonica non è un
quadro che dopo la realizzazione avrà sempre lo
stesso aspetto. Una città, una costruzione, vive
e si modifica nel tempo, ed ogni intervento deve
parlare la propria lingua. Solo ad un occhio
superficiale certe stratificazioni, certi
arricchimenti, possono sembrare coevi: in realtà
sono un insieme di stili ognuno riferito ad una
precisa epoca. Ed è chiaro che il monumento
restaurato non sarà mai più il monumento
originario, ma ne rispetterà in modo assoluto le
caratteristiche scientificamente provate e
documentate e ritornerà a nuova vita anche con
integrazioni che parlino un linguaggio moderno.
Nessuno oggi si metterebbe a parlare con un
linguaggio del passato, fosse pure quello usato
dai più grandi poeti e/o letterati: sa già che
sarebbe preso per matto!
” lo stato originario è un mito,
un'idea astorica, atta a sacrificare l'opera
d'arte ad un concetto astratto e a
rappresentarla in uno stato che non è mai
esistito”( Paul
Philippot).
Concludo con un augurio: spero che il dibattito
si allarghi ad altri contributi che tengano
conto di una grande verità ribadita dall’ottimo
Nicola Ciaburri: …la città fondata dopo il
terremoto del 1688 rispecchia un modello
economico e sociale che trova i suoi elementi di
sviluppo nella produzione (lavorazione dei panni
di lana, artigianato, ecc) e non nella
coltivazione agricola. Leggere Cerreto come
aggregato rurale è come scambiare il teatro e
la musica napoletana per teatro e musica
popolari... Spero che a qualcuno ora sia
più chiaro perché “ce la tengo tanto” col
museo della civiltà contadina (non con i
contadini, dal cui mondo mi onoro di provenire)
aperto nel Monte di Pietà, monumento simbolo di
quella Cerreto che Nicola e Renato Pescitelli
amano tanto, con i fatti, non con le
chiacchiere.
Arch. Lorenzo Morone.
|