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Come ammazzare la moglie e vivere
felici. E’ una delle storielle che Bruno
Tinti, Procuratore Aggiunto di Torino,
riporta nel suo libro “Toghe rotte”,
cronaca di ingiustizia quotidiana,
raccontata da chi la giustizia la fa
tutti i giorni. Il libro, presentato da
Marco Travaglio, è uscito da meno di un
mese ed è scritto da Tinti ed altri
colleghi che hanno deciso di condurre
per mano il lettore nelle aule dei
nostri tribunali per fargli toccare con
mano la giustizia ingiusta.
Non è un libro per addetti ai lavori. E
stato scritto per essere letto da tutti,
chiaro, semplice, spietato, divertente. |
Ritornando alla nostra storiella, diciamo subito che le mogli
possono stare tranquille. La storia è
reversibile e può essere destinata anche ai
mariti: la riassumo in maniera ancora più
semplice di quanto ha fatto l’autore
sfrondandola di tutti gli aspetti tecnici. Forse
è al limite dell’assurdo, ma non tanto. E’ però
indicativa di come, scattando determinati
meccanismi processuali, pur a fronte di un
delitto, si possa uscire dalla porta principale
del tribunale invece che da quella sotterranea
che porta al carcere.
Un uomo, all’inizio del 2006, dopo aver sperperato tutti i beni
della moglie senza fargliene accorgere (in
realtà l’ha truffata) decide di ucciderla e lo
fa anche in maniera spietata, come solo si può
fare quando l’amore si trasforma in odio.
Commesso il delitto, chiama il suo avvocato e si fa accompagnare dai
carabinieri dove si autodenunzia. Dichiara di
aver ucciso la moglie perché, asserisce, lo
tradiva con il suo migliore amico, descrive le
modalità, indica il luogo dove si trova il
cadavere, consegna l’arma del delitto e le
chiavi dell’appartamento per consentire di
verificare quanto ha dichiarato.
I carabinieri corrono a casa dove possono constatare che è
tutto vero, avvisano il magistrato, fanno gli
accertamenti e i rilievi del caso.
Il nostro uomo non viene arrestato perché il Pubblico Ministero sa
che il Giudice delle Indagini Preliminari
difficilmente concederebbe la custodia cautelare
mancando uno dei tre requisiti previsti dal
codice e in particolare:
a)
non sussiste pericolo di inquinamento di prove, perché è
stato lo stesso marito ad avvertire i
carabinieri, ha confessato il delitto, ha
offerto spontaneamente tutte le prove necessarie
e quindi non c’è più niente da inquinare;
b)
non sussiste pericolo di fuga per gli stessi motivi. Se
avesse voluto fuggire non sarebbe andato dai
carabinieri;
c)
non sussiste pericolo di reiterazione del reato, perché di
certo non se ne andrà in giro ad uccidere mogli.
Una ne aveva, l’ha uccisa e ormai basta così.
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D’altra parte il suo comportamento
processuale è stato ineccepibile: si è
costituito, ha confessato, si è messo a
disposizione degli inquirenti.
L’indagine perciò è brevissima e in
pochi mesi viene portato davanti al
Giudice con l’accusa di omicidio
aggravato. Pena prevista: ergastolo. A
questo punto scatta la strategia
difensiva e tramite i suoi legali chiede
di essere processato con il rito
abbreviato, che prevede la riduzione di
un terzo della pena. |
Di fronte alle due circostanze aggravanti - omicidio con sevizie e
reato commesso al fine di occultarne un altro
(non farle scoprire la truffa) - chiede le
attenuanti: è vero che l’ha uccisa, però lei lo
aveva tradito con il suo amico che, d’accordo
con il marito omicida, confermerà integralmente
tale versione tanto ormai nessuno può smentirlo.
L’omicidio quindi è stato commesso in uno stato d’ira dovuto a fatto
ingiusto di lei e merita questa forma di
attenuante.
Il nostro protagonista si preoccupa anche di risarcire il danno ai
parenti della moglie, per cui merita anche
l’attenuante del risarcimento danni. Se poi gli
si aggiungono le attenuanti generiche (è stato
sempre un lavoratore, mai una contravvenzione,
ha confessato, etc..) avrà messo sul piatto
della bilancia una serie di circostanze
attenuanti che il giudice dovrà valutare per
vedere se “pesano” più delle aggravanti, cioè se
sono prevalenti. Se decide in tal senso la pena
prevista passa dall’ergastolo alla reclusione da
24 a 30 anni : considerata la dinamica dei fatti
quasi certamente si partirà dai 24 anni.
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Con una discutibile contabilità
processuale comincia a scalare dai 24
anni iniziali le riduzioni dovute per le
attenuanti fino ad arrivare ad un
residuo di sette anni e mezzo. Siccome
ha chiesto il rito abbreviato bisogna
decurtare un altro terzo e siamo a
cinque anni. Però i fatti sono avvenuti
prima del 2 maggio 2006 - termine
fissato dal legislatore per fruire
dell’ultimo indulto - ed allora gli
spetta anche lo sconto di questi tre
anni di indulto. Ne restano quindi due.
A questo punto, dice, o gli viene data
la sospensione condizionale della pena
(prevista per le pene fino a due anni) o
gli viene dato l’affidamento in prova al
servizio sociale (previsto per le pene
fino a tre anni). |
In realtà il nostro protagonista si è dimenticato che gli sconti
hanno un limite e che un altro articolo (il 67
del codice penale) prevede che quando concorrono
più circostanze attenuanti la iniziale pena
dell’ergastolo non può ridursi a meno di 10 anni
di reclusione.
Ma lui non si demoralizza. Vanno bene i 10 anni, però bisogna sempre
togliere i 3 anni dell’indulto 2006 e siamo a 7
che non sconterà tutti perché per ogni anno di
carcere con buona condotta lo Stato “regala” 90
giorni di sconto che valgono come pena espiata:
si chiama liberazione anticipata. Maturata la
metà pena (tre anni e mezzo di cui ha espiato
veramente solo due anni e mezzo o poco più
perché un anno circa è il frutto di 315 giorni
di sconto per la citata liberazione anticipata)
potrà chiedere di essere ammesso alla
semilibertà (uscirà dal carcere al mattino e ci
ritornerà la notte solo per dormire) e dopo
qualche mese, appena sceso sotto i tre anni,
potrà chiedere di essere ammesso ai servizi
sociali, che significa stare a casa,
lavorare,essere seguiti di tanto in tanto da un
assistente sociale.
Da una pena prevista di 24 anni, per un perverso meccanismo
contabile, ne potrebbe scontare solo due e
mezzo. Il meccanismo ha funzionato e tutto
sommato il carcere sarà solo un breve incidente
di percorso.
Quella descritta – liberamente ricostruita da un episodio del citato
libro - non è una storia tanto folle ma, pur
apparendo surreale, è il frutto di elaborazioni
processuali applicabili a tutti i reati in un
susseguirsi di duelli vissuti tutti i giorni
nelle aule di giustizia di questo Paese dove,
sotto il cartello “la giustizia è eguale per
tutti e si esercita nel nome del popolo”, è
sempre più difficile assicurare la giustizia
vera e, quando accade, non sempre è giusta e
ancor meno eguale.
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