Ansa.it
"Così fan tutti", stesso titolo per grandi giornali Titolo in fotocopia, che richiama quello della celebre opera di Mozart, oggi sulle prime pagine dei tre
principali quotidiani italiani, Corriere della Sera, Repubblica, Stampa. Dedicati alle ingerenze della politica sulle nomine nella sanità, messe in
rilievo dalle intercettazioni dell'inchiesta che coinvolge i coniugi Mastella, i fondi sono scritti rispettivamente da Gian Antonio Stella, Francesco Merlo, Lucia Annunziata. Le intercettazioni sono "la
conferma che la politica ha allungato le mani sulla sanità ", scrive Gian Antonio Stella sul Corsera. Mastella "pensa di fare quel che tutti fanno - scrive Merlo su Repubblica - ma pensa anche che sia giusto.
Con tutta l'anima crede che la politica, la buona politica, sia controllare la macchina, surrogare competenze anche di ginecologia e di oncologia, impossessarsi della leva, non stabilire direzioni e marce ma
sistemarsi e sistemare nella cabina di comando tutti i propri familiari , il proprio clan, la propria tribù ". Sia chiaro, scrive Lucia Annunziata su La Stampa, "che la difesa di Mastella davanti ai cittadini
non può essere basata sull'idea che non ha fatto altro che far politica". Secondo Se questa visione passa, aggiunge la giornalista , "passa un'intera visione della società.
Così fan tutti (ma al Sud di più)
La stampa.it LUCA RICOLFI
Così fan tutti: è stata questa, più o meno, l’autodifesa di Mastella. Così fan tutti: è stato questo il modo in cui i tre principali quotidiani italiani hanno titolato i
loro articoli di fondo sulle dimissioni del ministro della Giustizia. Così fan tutti: è stato questo, probabilmente, il pensiero che ha attraversato la maggior parte dei cittadini, tanto disgustati da questa
politica quanto rassegnati alla sua ubiquità. Qualcuno, ancora più cinicamente, ci ha ricordato: è questa la politica, bellezza! (altro che la «bella
politica» di cui parla l’ignaro Veltroni...). Altri hanno sostenuto che, a ben vedere, Mastella e il giudice che lo accusa finiscono con il somigliarsi. Tutti hanno fatto notare l’universalità, ossia la
diffusione in tutta Italia e in tutti i partiti, dei metodi del clan familiare Mastella. Chiunque abbia una conoscenza diretta di come funziona una Asl,
un’azienda municipalizzata, una redazione Rai, un concorso universitario, difficilmente potrà sostenere che esistano profonde differenze fra il modo in cui lottizza la destra e quello in cui lottizza la
sinistra, o fra i metodi in uso al Nord e quelli in uso al Sud. Insomma la casta è la casta, e a suo modo ha ragione Mastella - come aveva ragione Craxi ai tempi di Mani pulite - a gridare «chi è senza
peccato scagli la prima pietra!». Tutto chiaro e tutto uguale, dunque? Fino a un certo punto. Se sei un moralista, la storia finisce qui. Ma se ci
spogliamo per un attimo della nostra sacrosanta indignazione e ci chiediamo perché la casta fa male all’Italia, le cose diventano un po’ più complicate. Perché la casta ci costa tre volte. Una prima volta per
i suoi privilegi. Una seconda per la sua incapacità di decidere. E una terza per l’immane spreco di risorse pubbliche che i metodi «à la Mastella»
comportano per il Paese. Il primo costo - quello dei privilegi, dei gettoni e delle auto blu - è senz’altro il più vistoso, ma è di entità modesta. La
politica costa all’Italia dai 4 ai 6 miliardi di euro (vedi l’ottimo libro Il costo della democrazia, di Salvi e Villone), una cifra che potando consulenze e benefici ingiustificati si potrebbe forse
dimezzare. Risparmio: 2-3 miliardi di euro. Il secondo costo - quello della non decisione - è di entità sconosciuta, ed è tanto maggiore a seconda degli
scenari alternativi che si provano a immaginare (come sarebbe l’Italia oggi se negli ultimi 10 o 15 anni chi doveva decidere lo avesse fatto). L’ultimo esercizio di questo tipo lo ha fatto recentemente
Confindustria e il risultato è agghiacciante: 200 miliardi di euro sarebbe, secondo Montezemolo, il costo totale della non decisione. Ma per il terzo
costo - quello degli sprechi - la situazione è diversa: la sua entità è enorme, e si può anche quantificare con una certa precisione. Secondo uno studio dell’Osservatorio del Nord-Ovest (di imminente
pubblicazione presso Guerini), il costo degli sprechi della Pubblica Amministrazione si aggira intorno agli 80 miliardi di euro, di cui almeno 45 dovuti alla spesa sociale (sanità, previdenza, assistenza,
istruzione). Ma che cosa si intende per «sprechi»? Nello studio in questione per spreco non si intende genericamente un eccesso di spesa rispetto a quel che si potrebbe fare azzerando tutte le inefficienze,
bensì l’eccesso di spesa eliminabile - a parità di servizi - semplicemente adottando le pratiche migliori (best practices), ossia quelle dei territori più virtuosi.
Per ora lo studio si limita a tre ambiti: la sanità, la scuola, le (false) pensioni d’invalidità. Per ognuno di questi tre ambiti viene calcolato quanti miliardi
di euro spreca ogni regione. E i risultati sono impressionanti, non tanto per le cifre quanto per le differenze territoriali che mettono in evidenza. A prezzi 2004, lo spreco di risorse è pari a 15,8 miliardi
nella sanità, a 12,6 miliardi nella scuola, a circa 7 miliardi nel settore delle pensioni d’invalidità. Complessivamente, lo spreco medio di risorse nei tre settori considerati si aggira intorno al 22%, più
precisamente al 18% nella sanità, al 25% nella scuola, al 32% nelle pensioni di invalidità. Metà degli sprechi (17 miliardi) è concentrata in tre sole
regioni, ossia in Calabria, Campania, Sicilia (le tre regioni controllate dalla criminalità organizzata), mentre tre regioni - Lombardia, Veneto e Friuli Venezia Giulia - risultano sistematicamente nel gruppo
dei territori più virtuosi, e dunque con sprechi prossimi a zero (naturalmente non in assoluto, ma in questa accezione relativa di spreco). Nelle Regioni rosse - Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche - gli
sprechi sono all’11,2%, nelle regioni meridionali a bassa intensità criminale sono al 33,3%, nelle tre regioni ad alta intensità mafiosa raggiungono il 43,7%.
Come dobbiamo leggere queste differenze ? È semplice, distinguendo fra i costi diretti e i costi indiretti della politica, fra i metodi e i risultati. Sui costi
diretti hanno perfettamente ragione indignati e qualunquisti, che sottolineano l’ubiquità dei privilegi della casta e la somiglianza fra i metodi della politica a prescindere dagli schieramenti e dalle zone
del Paese. Ma sui costi indiretti ci andrei piano. Un’analisi fredda della spesa pubblica regionale mostra che - se la giudichiamo dagli sprechi che provoca - la casta ci costa di più al Sud che al Nord.
Nell’ambito del Sud ci costa molto di più nelle regioni di mafia che nelle altre. Nell’ambito del Centro-Nord, infine, ci costa molto di meno nel
Lombardo-Veneto che altrove. A che cosa dobbiamo simili differenze? Non lo so con sicurezza, ma sospetto che abbiano qualche ragione quanti - come Raffaele La Capria - ci hanno ricordato in questi giorni che
un ceto politico, specie a livello locale, è anche espressione dei cittadini che lo votano. La casta è una, ma se i danni che riesce a provocare sono di entità così diversa da una zona all’altra del Paese,
forse è innanzitutto a noi stessi, come cittadini e come elettori, che dovremmo guardare per cercare di migliorare le cose.
Così fan tutti
Gian Antonio Stella 18 gennaio 2008
Corriere della sera
PADIGLIONE PER PADIGLIONE, REPARTO PER REPARTO, CORSIA PER CORSIA Sanità e tessere, così fan tutti Dalle intercettazioni su Mastella la conferma che la politica ha
allungato le mani sulla sanità «Cercasi radiologo targato Ds». «AAA. Cercasi pediatra vicino An». «AAA. Cercasi neurochirurgo convintamente Udc».
Dovrebbero avere l'onestà di pubblicare annunci così, i partiti: sarebbero più trasparenti. Perché questo emerge dalle intercettazioni della «Mastella Dynasty»: la conferma che la politica ha allungato le
mani sulla sanità. Padiglione per padiglione, reparto per reparto, corsia per corsia. A donna Alessandrina, che oltre a preparare cicatielli con ragù di tracchiole si diletta di spartizione di poltrone,
sarebbero servite «due cortesie: una in Neurochirurgia e una in Cardiologia». Il marito invece, a sentire lo sfogo telefonico del consuocero Carlo
Camilleri, si sarebbe arrabbiato assai per «l'incarico di primario a ginecologia al fratello di Mino Izzo... Ma ti pare... Proprio il fratello di uno di Forza Italia che è di Benevento ed è contro di me... Ma
non teniamo un altro ginecologo a cui dare questo incarico?». Vi chiederete: che se ne fa Clemente d'un ginecologo «suo»? E poi, con nove milioni di processi pendenti e i tagli folli ai bilanci dei tribunali
e i giudici che si portano la carta igienica da casa, come faceva il ministro della Giustizia a trovare il tempo di occuparsi della bottega clientelare?
Ecco il punto: è in corso da anni, ma diventa sempre più combattuto e feroce, un vero e proprio assalto dei segretari, dei padroni delle tessere, dei capicorrente
al mondo della sanità. Visto come un territorio dove distribuire piaceri per raccogliere consensi. Vale per il Sud, vale per il Nord. Per le regioni d'un colore o di un altro. Nella Vibo Valentia in mano al
centrosinistra ardono le polemiche sulla decisione di distribuire 40 primariati (di cui 38 a compaesani vibonesi: evviva l'apertura alle intelligenze mondiali), 85 «primariati junior» e 153 bollini d'«alta
specializzazione» in coincidenza con le primarie del Pd e il consolidamento del Partito Democratico Meridionale di Loiero, capace di folgorare un uomo noto in città come il primario del 118 Antonio Talesa,
prima con An. Nel Veneto divampano quelle sull'«arroganza» (parola del capogruppo leghista in Regione Franco Manzato) di Giancarlo Galan. Il quale è
messo in croce da un paio di settimane dai suoi stessi alleati del centro-destra per le nomine dei direttori generali nelle Asl. «Poltrone per la Lega, una. Per An, zero. Per l'Udc, zero. Per i fedelissimi
del presidente, tutte le altre», ha riassunto un giornale non sinistrorso come Libero. «Un sistema feudale», secondo Raffaele Zanon, di An. In pratica, accusa Stefano Biasioli, il segretario della Cimo, la
più antica delle sigle sindacali dei medici ospedalieri, additata come vicina ai moderati, «Galan ha nominato 23 fedelissimi su 24 direttori. Tranne che a Bussolengo (lì ha dovuto cederne uno al sindaco di
Verona Tosi) sono tutti suoi. Di Forza Italia...». Ma non diverse sono le accuse, a parti rovesciate, contro la gestione delle Asl «unioniste» toscane,
umbre, emiliano-romagnole, «solo che lì il "partito" è così forte che se ne stanno tutti quieti e zitti», rincara Biasioli. Per non dire dei veleni intorno alla distribuzione di cariche nella sanità campana,
cuore delle inchieste di oggi. O degli scontri interni alla destra per l'accaparramento dei posti in Sicilia, dove su tutti svetta l'Udc di Totò Cuffaro. Il quale non casualmente è un medico in una terra in
cui i medici (compresi quelli legati alla mafia come Michele Navarra o più recentemente Giuseppe Guttadauro) hanno sempre pesato tantissimo. Quanto
questo peso sia attuale si è visto, del resto, alle ultime comunali di Messina. Quando tra i candidati c'erano almeno 111 medici. In buona parte ospedalieri. Tra i quali, in particolare, una ventina del «Papardo»,
la più importante struttura peloritana: il primario di oculistica e quello del laboratorio analisi, il primario di medicina e quello di neurologia, il primario di pneumologia e quelli di chirurgia vascolare,
cardiologia, rianimazione. Quasi tutti schierati con An. E indovinate a che partito apparteneva il direttore generale? Esatto: An. «Li hanno militarizzati tutti», accusò indignato Nunzio Romeo, il candidato
del Mpa. Peccato che lui stesso fosse medico e presidente dell'Ordine dei Medici e guidasse a nome del medico Raffaele Lombardo una lista Pietro
Marrazzo, il governatore del Lazio, dice che basta, per quanto lo riguarda è ora di finirla: «Se vogliamo marcare una svolta di sistema io ci sto. Sono qui. Disposto a rinunciare già domani mattina alla
facoltà di nominare i direttori generali». Ma quanti colleghi lo seguirebbero? E cosa direbbero i partiti che sostengono la sua giunta all'idea di rinunciare alla possibilità di incidere su un settore chiave
come questo? E' una tentazione comune a tutti, accusa Carlo Lusenti, segretario dell'Anao: «Se non sempre, la politica mette il naso 9 volte su 10. Per
carità, non c'è solo la politica. Ci sono le lobby universitarie, le cordate, i sindacati... Però...». «E' un'intrusione massiccia. Capillare», conferma Biasioli, presidente della Società ligure di chirurgia
Edoardo Berti Riboli: «Nel nostro ambiente si procede soltanto grazie al partito. Fra destra o sinistra non faccio differenze. Hanno la stessa voracità,
solo che la sinistra è molto più strutturata». Capita nell'«azzurra» Lombardia dove la stessa Padania scatenò due anni fa una campagna contro «lo strapotere di Comunione e Liberazione negli ospedali
regionali». Arrivando a pubblicare un elenco di «primari ciellini» e un'indimenticabile lettera di Raffaele Pugliese. Lettera in cui il primario del Niguarda ricordava ai «suoi» pazienti quanto fosse
fantastica la sanità lombarda. Quindi? «Mi permetto di suggerirLe di sostenere la rielezione dell'attuale presidente della giunta regionale Roberto
Formigoni». E torniamo al tema: alcuni saranno bravi, altri geniali, altri straordinari. Ma perché dovremmo affidare la nostra pelle a un medico scelto per la tessera? E se il «mio» chirurgo fosse un
fedelissimo trombone?
Repubblica
Così fan tutti di FRANCESCO MERLO
A NOI, scettici scanzonati che pensavamo di avere visto tutto, quel che più ci allarma nella pochade mastellare è l'avere appreso dalle intercettazioni telefoniche che i
ginecologi in Campania sono laureati da Mastella e nelle sedi dei partiti. Che per un amministratore di Asl l'essere parente di un consuocero politico vale più di
un expertise; e che la cuginanza con la signora Mastella è, nella scienza oncologica, un titolo più qualificante di un corso pluriennale di specializzazione. Insomma, finalmente sappiamo cosa chiedere al
primario che ci vista in ospedale: non se è animato dalla passione di Ippocrate, e neppure in quale università si è laureato, ma da quale parentela è garantito, quale moglie di partito certifica le sue
competenze. Per il resto, fateci caso, il giudice e il suo imputato si somigliano: nella facondia, nell'uso forte dell'indignazione, probabilmente
nell'inadeguatezza, sicuramente negli accenti di sincerità che sono, in entrambi i casi, convincenti e disarmanti. E soprattutto si somigliano la vacuità di una giustizia montata sull'umore antipolitico e la
vacuità di una politica montata sull'amore familiare. Il giudice è sincero quando veste di Diritto la secrezione biliosa dell'uomo qualunque contro la politica. Ma anche Mastella è sincero perché davvero non
capisce cosa c'è di male a vestire da statista la propria moglie. Dice Mastella, profondamente scandalizzato: "Non capisco perché non indagano anche
sulle mogli degli altri!". Davvero crede che sia normale scambiare e confondere la propria famiglia con lo Stato: non più "l'Etat, c'est moi" ma "l'Etat, c'est ma femme". Così stando le cose, è evidente che
per un vero, grande statista è meglio essere ammogliati. Non puoi gestire un territorio né governare una Regione se sei single, se sei solo. Chi ci metti nel posto di maggiore responsabilità? Chi fai eleggere
presidente del Consiglio regionale se non hai neppure una moglie, una fedele Sandra? La disperazione di Mastella intenerisce anche noi, ma al tempo
stesso ci lascia sbigottiti. Ci smonta l'ingenuità infantile del "così fan tutti, perché perseguitate solo me?". Ma c'è di più: non solo Mastella pensa di fare quel che tutti fanno, ma pensa anche che sia
giusto. Con tutta l'anima crede che la politica, la buona politica, sia controllare la macchina, surrogare competenze anche di ginecologia e di oncologia, impossessarsi della leva, non stabilire direzioni e
marce ma sistemarsi e sistemare nella cabina di comando tutti i propri familiari, il proprio clan, la propria tribù: "E' possibile che noi dell'Udeur non abbiamo un ginecologo ? Come possiamo permettere che
si vada da un medico che è fratello di uno di Forza Italia?". Certo, è sincera la disperazione di Mastella, ma è anche disperante perché Mastella, come
dice spesso, si sente Mastellik, un apota che nessuno si mette in tasca, che nessuno può imbrogliare, il più ganzo e il più ganzamente specchiato, onestissimo italiano ruspante, familista fatto in casa come
le torte di Ceppaloni: "Mi dimetto perché tra la famiglia e il potere scelgo la famiglia". Ecco: Mastella è disperante perché neppure gli passa per la
mente di essere, lui, proprio in virtù di questo eccitato familismo di Stato di cui va fiero - lo stesso che travolse il governatore e la governatora della Banca d'Italia - uno dei protagonisti dello sfascio
del paese. E' difficile essere ottimisti ma mai l'Italia potrà risollevarsi se non comincia a dividere le ragioni dello stato dalle ragioni della famiglia. Attenzione alla giustizia, però. E' vero che la
politica continua a perdere la faccia. Ad ogni intercettazione, ad ogni retroscena, ad ogni rivelazione non viene fuori il reato della politica, ma la
mancanza di dignità della politica. E la dignità, almeno per noi, vale più del Diritto. Dietro la foglia di ogni banale fatto di cronaca, troppo spesso spacciato per delitto, sta sempre e comunque nascosto il
fico groviglioso di sciatteria e di immondizia politiche. E qui, nella mastelleide, abbiamo addirittura la prova che non c'è più differenza tra un ospedale e il Tg1, che l'occupazione del potere è la stessa
dappertutto, dalla Rai sino all'ultimo spazzino comunale. L'importante è allocare uomini di fiducia, come una volta i campieri agli angoli del latifondo.
Ormai la politica, parafrasando Lenin, sostituisce anche l'elettrificazione. Ma può un giudice dar corpo giudiziario all'umore popolare - e qualunquista - contro
lo strapotere della politica? Le considerazioni etico politiche che sembrano animare le motivazioni di quest'inchiesta, anche nell'uso terribile dell'arresto, sono probabilmente in sintonia con il cattivo
sangue del Paese; ma un umore, anzi un malumore, non è la fucina del Diritto. Diciamo la verità: da quel che sinora è venuto fuori, quest'inchiesta
sembra appartenere alla famiglia delle inchieste di Potenza, a quelle indagini italiane, sempre più frequenti, che non al codice penale rimandano ma al moralismo ideologico e alla giustizia spettacolo, alla
ruota del pavone. Perciò, come dicevamo, in questa vicenda giudice e imputato finiscono con il somigliarsi. Abbiamo visto Mariano Maffei, il procuratore
capo di santa Maria Capua a Vetere in una straordinaria performance a Matrix, la trasmissione di Enrico Mentana. Anche Maffei sembrava sincero, come Mastella. Anch'egli ha parlato a lungo, scandendo - come
Mastella - la propria indignazione, con il tono, lo stesso di Mastella alla Camera, di chi sta pronunziando un testamento spirituale. Ma solo si capiva che Maffei era indignato: "sono servitore dello Stato da
44 anni", "sono un funzionario della giustizia", "hanno offeso la mia onorata reputazione", "il ministro Mastella ha insultato la mia professionalità...". Ecco: una volta il qualunquismo gianniniano voleva,
contro la politica pervasiva e prepotente, per battere i fronzoli e le vischiosità della democrazia, mandare un ragioniere a capo dello Stato. Oggi
contro il familismo di Stato, contro i cugini delle mogli, contro gli oncologi di partito, sembra che il qualunquismo abbia scelto le procure. Alle fine tutti pensano di essere lo Stato. Dobbiamo rassegnarci
che non ci sia lo Stato, ma un affollamento di surrogati di Stato? (18 gennaio 2008) |