Era il 1993 quando
l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite
proclamò il 3 Maggio Giornata Mondiale della
Libertà di Stampa, dando seguito così ad una
Raccomandazione adottata dall’UNESCO nel 1991.
Scopo della Raccomandazione,mantenere
alta l’attenzione in difesa dei media, dagli
attacchi alla
loro
indipendenza e dedicare un
tributo ai giornalisti che hanno perso la vita
nell’esercizio della loro professione.
Il 3 maggio è
diventato quindi nel corso degli anni, occasione
per monitorare la libertà di informazione in
molti Paesi dove questo diritto viene troppo
spesso ignorato,con censure e chiusure di
quotidiani, in spregio alle più elementari
regole del vivere civile ma anche motivo per la
realizzazione di iniziative volte ad
incoraggiare proposte a difesa di tale libertà.
E’anche il giorno della riflessione tra gli
addetti ai lavori circa le prospettive della
stampa, dell’informazione in generale sempre più
spesso minacciata, imbavagliata da moderni
sovrani che reclamano compiacenza se non aperta
connivenza.
Tuttavia, è
altresì diventato anche un momento da dedicare
alla memoria, al dovuto tributo verso quei
cronisti che, pur di raccontare verità troppo
spesso scomode, hanno pagato a caro prezzo il
loro impegno professionale. Le loro colpe aver
assolto il proprio dovere, liberi dai
condizionamenti dei poteri, mafioso e politico
in particolare e di aver messo nero su bianco
nomi, cognomi, illeciti ed abusi per rendere un
servizio ai cittadini, a tutti noi.
Riflettere su
quanto la libertà di stampa possa descrivere il
livello di maturità democratica di un Paese,
credo sia doveroso oltre a rappresentare un
nobile esercizio che rende merito a chi, per
informare,ha sacrificato la vita.
Undici i
giornalisti assassinati da mafie e terrorismi
negli ultimi 40 anni, di questi otto solo in
quella terra di confine e caos che è la Sicilia,
con un picco toccato fra i ‘70 gli ’80. Nomi
illustri ma anche semplici cronisti assurti agli
onori della cronaca per aver creduto nella
verità, armati di penna e di parole che, da
sole, sanno spesso far male più di ogni altra
cosa.
Come dimenticare
Mino Pecorelli, il giornalista kamikaze
come alcuni lo definirono. Direttore di “OP”,
Osservatorio Politico dalle cui pagine non
lesinava strali al potere politico e
finanziario, a mafia e P2. Per primo pubblicò le
lettere dalla prigione di Aldo Moro e, seppur in
maniera criptica, tipica del suo stile, anticipò
la morte del Generale Carlo Alberto Dalla
Chiesa. La sera del suo assassinio, in redazione
fu ritrovata l’ultima copertina di “OP” con il
titolo “Tutti gli assegni del Presidente”,
chiara allusione a Giulio Andreotti.
Tra
i primi ad essere uccisi dalla mafia siciliana,
Cosimo Cristina, 25 anni, un ragazzo.
Sempre in prima linea contro ogni sorta di
pregiudizio etnico o religioso, amava occuparsi
degli emarginati.
Molti lo
prendevano in giro, qualcuno lo chiamava D’Artagnan.
A Termini, uno che vuole fare il cronista e non
l’avvocato o l’impiegato alla Regione è un
fallito. Se tocca i mafiosi è matto. Cosimo
Cristina, nel giudizio comune, era un po’ tutte
queste cose.
La
sua condanna le indagini sugli appalti a Termini
Imerese.
Mauro De Mauro,foggiano
ma impiantato in terra siciliana, dove
collaborava per testate locali spingendosi oltre
i “semplici” affari di Cosa Nostra. Portò avanti
indagini scomode, scrisse dell’attentato Mattei,
realizzò un dossier sul
golpe Borghese.
Affari sporchi, delicati dove qualcuno avrebbe
preferito non mettesse il naso. Nella bianca
Sicilia dei Ciancimino, dei Salvo e dei Lima,
già essere additati come comunista equivaleva ad
una condanna.
Il 9 maggio 1978,
a Roma,in via Caetani, viene ritrovato il corpo
senza vita dell’Onorevole Aldo Moro; in quegli
stessi momenti, un giovane cronista siciliano,
Peppino Impastato, viene barbaramente
trucidato.
Non gli si perdonò
l’onta di essersi ribellato alle logiche
mafiose, ai giochi di potere sporchi di sangue e
ricatti nei quali era coinvolta la sua stessa
famiglia; un figlio reietto, un traditore che
ogni giorno dai microfoni di Radio Out,
sciorinava nomi e cognomi dei rais della sua
città, Cinisi.Aveva 30 anni. Il mandante “zù
Tanu” Badalamenti.
Nell’84 è la volta di
Giuseppe Fava,
giornalista e scrittore, fondatore del
quotidiano antimafia “I Siciliani”. Una giorno,
in uno dei rari momenti di sconforto, confidò ad
un collega “qualche
volta mi dovrai spiegare chi ce lo fa fare.
Tanto, lo sai come finisce prima o poi: mezzo
milione a un ragazzotto qualunque e quello ti
aspetta sotto casa”.
Continuò
per la sua strada,
senza remore.
Ai suoi funerali nessun rappresentante delle
Istituzioni.
Ma anche la
camorra ha giocato la sua parte, condannando a
morte Giancarlo Siani, giovane cronista
de “Il Mattino”, a soli 26 anni. Certo, di lui
si ricorderanno in molti, vista la recente
uscita nelle sale cinematografiche del film che
racconta i suoi ultimi quattro mesi di vita nel
corso dei quali aveva dedicato la propria
attività a raccontare le probabili collusioni
tra camorra e mafia corleonese.
Senza dimenticare
Mauro Rostagno, fondatore di Radio “Tele
Cine”, dalla quale lanciava chiare accuse di
collusione fra mafia e potere locale ed i cui
assassini, ancora oggi, non hanno un nome.
Poi ci sono le
vittime del terrorismo, due nomi su tutti:
Carlo Casalegno e Walter Tobagi.Il
primo, Vice Direttore de “La Stampa”, quotidiano
dalla linea editoriale assolutamente ostile alle
strategie terroristiche; il secondo giornalista
de “L’Avvenire”.
L’ultimo in ordine
di tempo di questa aberrante lista, si chiamava
Giuseppe Alfano.
Siciliano,insegnante di un istituto tecnico, non
iscritto all’Albo ma collaborava, da sempre, con
testate e radio locali, dalle quali portava
avanti il suo lavoro d’informazione contro la
criminalità. Impegno, allo stato puro.
Uniti dallo stesso
destino, prima delegittimati, poi denigrati,
infine lasciati soli senza difese, uccisi ancor
prima di essere ammazzati.
Il
filo conduttore che lega gli “attori” di questa
storia tutta italiana è l’idea,l’onestà
intellettuale ed un profondo, assoluto senso del
dovere sempre teso alla verità, alla giustizia,
alla libertà di ognuno di noi e la lezione che
ne deriva il rifiuto dell’ineluttabilità che non
tollera alternative inducendoci a rinunciare
alla giustizia senza nemmeno aver provato a far
sentire la propria voce.
“La
mafia uccide, il silenzio pure”
Peppino Impastato
Nuccio Franco
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