Nel modo
abituale di pensare della gente il concetto
di crisi richiama
automaticamente, attraverso un meccanismo di
associazione mentale, la nozione di caos e
conflitto, ma anche l’idea di crescita e di
miglioramento. La crisi può essere il prodromo
che anticipa e precorre una ripresa
palingenetica, che si esplica attraverso
un’opera di sconvolgimento. Nonostante il
termine crisi esprima soprattutto una valenza
negativa, è assolutamente indiscutibile che
l’avvento di una crisi provochi cambiamenti
radicali e duraturi, ma la rottura con l’ordine
preesistente può comportare anche un processo di
crescita e di svolta (in senso evolutivo o
meno), un’occasione di riscatto e rinascita. In
qualche misura, ogni momento di crisi prepara
nel tempo le condizioni oggettive per il suo
superamento, favorendo un processo di
trasformazione profonda del contesto ambientale
in cui la crisi si inserisce ed esercita i suoi
effetti.
Infatti, come
avviene nel caso di un adolescente, che
attraverso un atto di rifiuto e negazione
dell’autorità incarnata dall’adulto - il padre,
il professore, ecc. -, compie un gesto di
autoaffermazione individuale per conquistare la
propria autonomia e maturità, così una
formazione sociale in crisi, nega sé stessa e si
rigenera in modo profondo e totale. Senza un
processo di crisi e negazione non potrebbero
realizzarsi il progresso e l’emancipazione del
genere umano, così come senza una condizione di
disagio, rigetto e disobbedienza, vissuta in
genere dal soggetto in età adolescenziale, non
potrebbe attuarsi pienamente lo sviluppo di una
personalità autonoma, libera e matura.
Il termine
"crisi" discende dall’etimo greco krisis
che vuol dire separazione, scelta,
discernimento, in origine era usato nel campo
medico, in quello teologico e giuridico.
Inizialmente tale voce fu applicata per indicare
situazioni problematiche in contesti militari e
politici che richiedevano una risposta concreta
e risolutiva. Nel 1800 la nozione di crisi venne
adottata anche nella branca dell’economia
politica, in luogo di definizioni più obsolete e
superate quali ristagno o ricaduta. Per “crisi
economica capitalistica” in senso convenzionale
si intende una brusca interruzione nel ciclo
della produzione, che dalla fase espansiva
scivola in quella recessiva in un quadro di
fallimenti, tracolli delle borse finanziarie e
una caduta dei prezzi, causando un periodo di
depressione. Le crisi economico-capitalistiche
hanno cominciato ad affermarsi a partire dalla
prima metà del 1800 con l’avvento della
rivoluzione industriale.
La radice
etimologica del termine “critica” - dal greco
krisis, che deriva dal verbo krino:
separare, discernere, decidere – è la medesima
del concetto di crisi e significa "analizzare".
Uno dei principali difetti della società
odierna, un difetto presente anche e soprattutto
negli ambienti della sinistra, è esattamente ciò
che designo come “crisi della critica”,
derivante dall’assenza di una seria e rigorosa
capacità di indagine e di critica razionale che
consenta di interpretare e comprendere il mondo
circostante, per provare a modificare la società
esistente, renderla migliore e più accettabile
per le future generazioni. Questa “crisi della
critica” si evidenzia anche rispetto all’attuale
scenario di crisi politico-economica mondiale.
Critica della
crisi
Negli ultimi
tempi i mezzi di comunicazione (ossia di
disinformazione e persuasione) di massa stanno
diffondendo diverse menzogne, mezze o false
verità ufficiali, notizie distorte e manipolate
come, ad esempio, l’idea che la fase più critica
sia sul punto di esaurire i suoi effetti più
pesanti e drammatici per lasciare lo spazio ad
una nuova ripresa dell’economia mondiale.
Parimenti, circolano racconti e versioni
discordanti, leggende metropolitane sia
sull’effettiva durata e portata della crisi, sia
sulle sue cause reali. All’inizio sembrava che
qualcuno avesse l’interesse a seminare il panico
generale, perché da una situazione di sgomento e
turbamento sociale avrebbe potuto ricavare
occasioni propizie per realizzare nuove
speculazioni finanziarie, approfittare della
psicosi collettiva per siglare facilmente affari
d’oro e trarre opportunità di lucro individuale.
Oggi sembra che si giochi nella direzione
opposta, provando a ingenerare l’idea che la
bufera sia cessata per sedare gli animi e
intorpidire le menti delle persone, quasi a
voler prendere tempo per adottare nuove
decisioni per l’avvenire.
Ogni giorno si passa con estrema
facilità dall’ottimismo più roseo al pessimismo
più cupo e viceversa, a seconda dell’esito del
vaticinio quotidiano, per cui gli “esperti”
oscillano da pre-visioni fauste e positive ad
annunci “profetici” meno lieti e più
allarmistici. Il G20 ha trasmesso la convinzione
puramente illusoria di una capacità di
regolamentazione e moralizzazione dei mercati
finanziari con l’intento palese di infondere
fiducia e ottimismo, suscitando nuove speranze e
aspettative verso un risanamento della
situazione. In tal modo le Borse cominciano a
risalire, il presidente Obama alimenta le
speranze annunciando “segnali di ripresa”, ma il
giorno dopo si smentisce o, comunque, non si
sbilancia più di tanto.
Qualcun
altro sostiene, in buona o mala fede, che
l’attuale crisi potrebbe far regredire l’umanità
fino alla “età della pietra”. Ma alla cosiddetta
"età della pietra" (senza offesa per le comunità
umane esistenti in epoca preistorica quando, per
ragioni di sopravvivenza, si impose per millenni
una sorta di "comunismo necessario", definito
"primitivo" dagli studiosi di etnologia e
antropologia culturale) già ci siamo, in virtù
di un sistema di vita che è a tutti gli effetti
"tribale", ossia violento e conflittuale,
crudele e disumano. Viviamo già in un sistema
sociale ad elevato tasso di criminalità,
alienazione e violenza, efferatezza e
disumanizzazione, una società
brutale e spietata,
isterica e nevrotica, in quanto segnata da
sentimenti sempre più diffusi e
laceranti di odio,
egoismo e divisione, da lotte feroci e
furibonde, rozze rivalità e discordie tra gli
esseri umani, invidie e gelosie che degradano e
abbrutiscono le persone costringendole al di
sotto del livello minimo della meschinità e
della pusillanimità, risentimenti e rancori
volgari
e grossolani,
contraddizioni drammatiche e ingiustizie
dolorose, discriminazioni e disuguaglianze
materiali sempre crescenti, dissidi e
controversie di ogni genere e sorta, catastrofi
e guerre sempre più terribili e sanguinose.
Dunque, peggio di così...
Comunque
sia, malgrado la disinformazione di massa in
corso, è ormai evidente a tutti, anche ai più
incauti e incalliti ottimisti, che siamo di
fronte ad una crisi non congiunturale ma
strutturale, una crisi epocale e totale che
investe l'intero apparato produttivo
internazionale, una crisi di sistema che sta
mettendo in discussione il paradigma stesso
dello sviluppo economico e dell'accumulazione
espansiva del capitale, e sta sfatando un falso
mito imposto in Europa e nel mondo intero negli
ultimi decenni. Un mito che è riconducibile a un
modello di vita,
quello edonistico e consumistico, che ora cade
fragorosamente in frantumi.
Di certo il
consumismo non è stato generato dai comunisti,
anzi. La sobrietà e l'austerità del comunismo
potrebbero insegnarci a vivere meglio,
aiutandoci a recuperare un rapporto più
equilibrato, più sano ed autentico con le
persone e con le cose. E’ indubitabile che il
modello economico-consumistico è figlio di
un’economia industrializzata retta sul mercato
capitalistico. Un sistema che ormai rischia il
collasso e la bancarotta (fraudolenta) mondiale,
nella misura in cui la domanda sta precipitando
in modo vertiginoso causando il panico generale,
mentre l’offerta produttiva è aumentata in
maniera sproporzionata.
Si conferma
esattamente la tesi secondo cui saremmo caduti
in piena crisi da sovrapproduzione e
sottoconsumo: finora si è prodotto in eccesso
sfruttando troppo i lavoratori, che si sono
progressivamente impoveriti, per cui i consumi
sono calati vertiginosamente, nonostante la
gente si sia indebitata fino al collo; ora i
magazzini sono strapieni di merci invendute e
gli operai sono gli unici a pagare la crisi con
i licenziamenti e la disoccupazione di massa. Di
conseguenza i consumi continuano a precipitare,
cosicché la crisi rischia di aggravarsi
ulteriormente e si autoalimenta in modo
crescente e irreparabile.
Dunque,
sorge spontanea la domanda: non è da criminali
irresponsabili esortare i cittadini ad essere
"ottimisti", a continuare a "consumare", ossia
indebitarsi, come se nulla fosse, come ha fatto
qualcuno di nostra conoscenza? Indovinate a chi
mi riferisco: ma al bandito, piduista e
populista, isterico e oscurantista, di Arcore,
ovviamente! Nel contempo sorgono altre domande:
si poteva proporre una maggiore sobrietà in
tempi di consumismo sfrenato pompato dalle reti
televisive Mediaset? Si poteva raccomandare
l'austerità ai cittadini italiani
ai tempi della
filosofia iper-consumista dei "tre telefonini a
persona", delle "tre o quattro automobili in
media a famiglia" e via discorrendo? Nel recente
passato, chi avesse osato mettere in discussione
il “dogma consumista” avrebbe quantomeno corso
il rischio di essere scambiato per un idiota.
Natura del
capitalismo e origine della crisi
Sappiamo che il
capitalismo non è un modo di produzione nato per
soddisfare i bisogni primari delle persone, cioè
per fabbricare “valori d’uso”, bensì per
produrre e vendere merci, ossia “valori di
scambio”. In altre parole, il valore d’uso dei
prodotti viene limitato dal valore di scambio
delle merci create dal lavoro sociale degli
operai. Questa è la natura reale dell’economia
capitalista, un sistema retto sulle leggi ferree
della concorrenza, dell’accumulazione e del
profitto economico privato. Sappiamo, inoltre,
che le merci sono prodotte dalla forza-lavoro
degli operai, che costituisce la potenza
creatrice dell’economia reale, forza-lavoro che
rappresenta capitale sociale vivo,
indispensabile al capitale privato per imporre
quel surplus di lavoro da cui estrarre un
surplus di valore, ossia di ricchezza, di cui il
capitale privato si appropria per realizzare
profitti economici a proprio vantaggio.
Sappiamo ancora
che il salario corrisposto all’operaio equivale
a quella quantità di valore, cioè di reddito,
pari al valore d’uso necessario al mantenimento
dell’operaio e della sua famiglia. Il valore in
eccesso, creato dal lavoro sociale degli operai,
corrisponde al plusvalore, al surplus di reddito
estratto dal lavoro operaio ed espropriato dal
capitalista. In pratica, le merci prodotte in
quantità eccessiva dallo sfruttamento del
plus-lavoro della manodopera salariata, vengono
messe in vendita sul mercato per ottenere
profitti privati a beneficio esclusivo della
borghesia capitalista. Ora, quando le merci
restano invendute sul mercato, si determina una
crisi di sovrapproduzione e, di conseguenza, una
caduta verticale del saggio di profitto, come
periodicamente si è già verificato nella storia
secolare del capitalismo: la più grave
depressione economica fu quella del 1929. A
riguardo occorre precisare che la crisi del ’29
si inserì in un momento di espansione
dell’economia statunitense, mentre il contesto
attuale non è esattamente lo stesso, in quanto
gli Usa sono entrati già da qualche anno in una
fase di declino. Sappiamo, comunque, come il
capitalismo ne è uscito: attingendo ingenti
risorse finanziarie di origine statale ed
occupando, soprattutto militarmente, nuove aree
di mercato per piazzare le merci prodotte,
mediante guerre di conquista neocoloniale e
neoimperialista che hanno condotto al secondo
tragico conflitto mondiale.
Vogliono farci
credere che la crisi odierna è un fenomeno
contingente causato da operazioni speculative
compiute nel settore finanziario da una banda di
affaristi e speculatori senza scrupoli.
Pretendono di imporre la leggenda metropolitana
secondo cui il sistema economico è stato
avvelenato da eccessive speculazioni in borsa,
immettendo una serie di titoli azionari definiti
(appunto)“tossici”: i famigerati subprime.
La verità è che
il capitalismo è, per sua natura, un sistema
economico tossico, drogato e velenoso per i
lavoratori. Finché il capitalismo ha assicurato
a gran parte dei lavoratori occidentali un certo
grado di reddito e di benessere materiale, sia
pur relativo, tutto sommato ha funzionato, è
stato accettato o comunque sopportabile,
nonostante i livelli di sfruttamento e di
oppressione, malgrado le ingiustizie e le
diseguaglianze, le storture, le aberrazioni e le
contraddizioni evidenti. Tutto sommato, gli
aspetti immorali, alienanti e abominevoli del
capitalismo erano di secondaria importanza, come
le stesse disparità di trattamento sindacale e
di retribuzione salariale, finché il sistema ha
garantito a buona parte della popolazione
occidentale quella prosperità e quel benessere
materiale tali da permettersi consumi di natura
voluttuaria. Persino il fatto che i supermanager
guadagnassero compensi cento volte superiori
rispetto al salario medio di un operaio, era un
dato accettato e accettabile. In ogni caso
l’elemento fondamentale è sempre stato per tutti
(compresi i sindacati e i partiti della sinistra
borghese e riformista) che i lavoratori
percepissero emolumenti salariali sufficienti a
mantenere un tenore di vita di tipo
consumistico, che oggi non è più possibile.
L’attuale crisi
non è affatto congiunturale, momentanea o
accidentale, ma sistemica, è una crisi
strutturale di portata epocale. E’ una crisi
globale di sovrapproduzione e sottoconsumo,
derivante dall’eccessivo sviluppo delle forze
produttive, che è stata aggravata e accelerata
da un processo di esaurimento e saturazione dei
mercati internazionali. Questa rappresenta la
differenza sostanziale e lo straordinario
elemento di novità rispetto alle crisi
precedenti, per cui quella in corso sembra
essere la crisi conclusiva del ciclo storico
compiuto dal modo di produzione capitalistico.
Per risolvere tale crisi non serviranno
misure-tampone o interventi ormai inutili e
tardivi, volti alla regolamentazione dei
mercati, all’eliminazione dei “paradisi
fiscali”, all’autoriduzione dei compensi per i
manager, oppure alla svalutazione monetaria del
dollaro o altri provvedimenti di pura facciata e
di natura demagogica. Probabilmente sarà la
classe operaia internazionale a portare la
risposta risolutiva alla crisi economica
globale. In quale modo? Rivoltando come un
calzino l’intero sistema economico e sociale...
Globalizzazione
economica e delocalizzazione industriale
In uno scenario
di globalizzazione economica come quello
delineatosi negli ultimi anni, hanno senza
dubbio inciso alcuni fenomeni di
delocalizzazione industriale. Tali processi di
ristrutturazione tecnologica e di trasferimento
degli impianti produttivi obsoleti nei paesi
industrialmente arretrati del Sud del mondo,
laddove il costo del lavoro è decisamente
inferiore, hanno favorito e incentivato uno
sfruttamento crescente della manodopera a basso
costo, ma nel contempo hanno contribuito a
indebolire le condizioni economico-sindacali e
il potere d’acquisto dei salari dei lavoratori
occidentali, causando effetti di indebitamento e
sottoconsumo di massa. Ciò significa che in ogni
caso quella in atto è una crisi di
sovrapproduzione e sottoconsumo, nel senso che
altrove (non più Italia ma, ad esempio, in
Albania, in Turchia o in Romania) si è prodotto
in eccesso rispetto alla domanda reale offerta
da un mercato sempre più liberalizzato e, di
conseguenza, sempre più impoverito e, in ultima
analisi, saturo.
Il fatto è che le
masse dei produttori, ossia le classi
lavoratrici, formano anche il principale bacino
di utenza e consumo delle merci, che restano
invendute proprio perché gli operai percepiscono
salari sempre più bassi e detengono un potere
d'acquisto sempre più debole e inconsistente.
Oggi, con i licenziamenti in corso e la minaccia
incombente della disoccupazione, condannate ad
uno stato di precarietà permanente, le masse
consumano inevitabilmente di meno, oppure sono
costrette a indebitarsi fortemente. Non a caso
sono in costante aumento gli acquisti a rate,
ossia cresce l'indebitamento economico, e ciò
che non fa altro che appesantire l'attuale
recessione economica. Insomma, si tratta di un
circolo vizioso destinato ad aggravarsi sempre
più. Ma questa immagine potrebbe essere
addirittura eufemistica o riduttiva.
Soluzioni di
comodo
L’ipotesi più
accreditata, proveniente da molti ambienti
sedicenti “progressisti” e “di sinistra”,
suggerita per vincere la crisi odierna (una
crisi senza precedenti e riferimenti storici in
assoluto) non sarebbe nel superamento o
nell’abolizione definitiva del capitalismo (che
mi pare francamente l'unica via d'uscita per
evitare conseguenze più catastrofiche per
l'intero genere umano), ma in una soluzione di
stampo "keynesiano", una risposta già
sperimentata in passato con esiti solo
transitoriamente positivi.
La storia ci
insegna che l'intervento dello Stato viene
invocato (dai padroni capitalisti e dai loro
servi e lacchè) solo in tempi di crisi e di
grave depressione economica, per "socializzare
le perdite", ovvero per salvare gli interessi
delle imprese capitalistiche private, oppure per
assorbire e nazionalizzare le banche ormai
fallite, insomma per soccorrere il sistema
capitalistico quando rischia di collassare,
facendo ancora una volta pagare gli effetti,
drammatici e dolorosi, della crisi
esclusivamente alle masse lavoratrici, mentre in
tempi di "vacche grasse" si pretende di
ripristinare e rilanciare la "libertà del
mercato", ovvero una totale e sfrenata
"anarchia" dei profitti e degli affari senza
alcun controllo e alcuna ingerenza da parte
dello Stato, tornando a privatizzare gli utili e
tornando a violare sistematicamente ogni regola
ed ogni più elementare diritto. Beh, mi pare una
soluzione di comodo e di convenienza ad
esclusivo vantaggio dei soliti sciacalli e
speculatori, affaristi cinici e privi di
scrupoli, che restano puntualmente impuniti per
i loro misfatti e i loro delitti contro la
società.
Necessità di una
rottura storica rivoluzionaria
Non essendo un
fatalista, non credo all’ineluttabilità del
crollo del capitalismo, come non credo
all’ineluttabilità del destino in generale.
Semmai posso accettare e concepire l’idea di
necessità, intesa in un’accezione non
deterministica o meccanicistica, bensì come una
tendenza potenzialmente intrinseca allo sviluppo
storico. In tal senso penso alla necessità del
crollo della società esistente, ovvero alla
necessità di una rottura storica rivoluzionaria.
Una necessità oggettivamente determinata che si
deve accompagnare e legare a condizioni
volontaristiche e a fattori soggettivi, quindi
ad elementi di volontà e capacità politiche,
alla possibilità ed alla capacità di un’azione
politicamente rivoluzionaria.
Ciò che finora è
mancato nella mia riflessione è soprattutto
un’analisi critica concernente gli aspetti e le
problematiche di ordine soggettivo e
volontaristico, ossia un ragionamento politico
che consideri ed esamini le contraddizioni tra
le forze sociali e politiche nel quadro storico
esistente. Non sono talmente ingenuo o sciocco
da illudermi che il crollo del capitalismo sia
inevitabile o che i capitalisti, di loro
spontanea volontà, possano provvedere a farsi
espropriare e a socializzare i mezzi della
produzione economica. Non ci può essere alcun
dubbio su questo punto.
Sono sinceramente
convinto che tale compito rivoluzionario (e
sottolineo il termine "rivoluzionario" per
indicare il senso, la volontà e la necessità
della rottura storica che è una tendenza
potenzialmente intrinseca al momento di crisi e
di transizione davvero epocale che stiamo
vivendo, una crisi di sistema che è molto più
vasta e complessa di quanto sembri) è un atto
soprattutto volontaristico e soggettivo, che
spetta alle forze produttive, ossia alle classi
lavoratrici, se e quando queste sapranno
organizzarsi materialmente e politicamente per
la conquista e la (auto)gestione del potere e
della proprietà economica. Allo stato attuale,
tale risultato sembra ancora lontano dalla sua
realizzazione storica. Infatti, il proletariato
internazionale, le masse lavoratrici stanno già
rispondendo alla crisi capitalista, ma le lotte
operaie, benché condotte ad un livello ancora
elementare e in forme spontanee, vengono
puntualmente oscurate dai mass-media ufficiali,
che evidentemente temono la diffusione e
l’estensione delle lotte di classe su una scala
più vasta. Ma ricordo che siamo solo ad uno
stadio iniziale e non ancora esplosivo della
crisi e, quindi, nella fase originaria ed
embrionale delle contraddizioni di classe tra la
borghesia capitalista e il proletariato
internazionale.
Lucio Garofalo
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