Barbarie in carcere e fuori
Il barbaro assassinio di Stefano
Cucchi, un giovane di 31 anni arrestato per 20
grammi di fumo e pestato a sangue dai suoi
carcerieri, è assai simile alle vicende di
Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino e ad altri
casi del genere:
http://www.repubblica.it/2009/06/sezioni/cronaca/aldrovandi-processo/aldovrandi-condanna/aldovrandi-condanna.html
http://www.reti-invisibili.net/aldrovandi/
http://www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o10283.
Segnalo altri link riguardanti
l'assassinio di Stefano Cucchi:
http://www.carta.org/campagne/diritti+civili/18667
http://www.beppegrillo.it/2009/10/stefano_cucchi.html
http://napoli.indymedia.org/node/10583
Non si tratta di episodi
sporadici ed isolati, ma di sanguinosi pestaggi
riconducibili ad una “regola” non
scritta, una consuetudine ritenuta “normale”,
praticata impunemente dai cosiddetti “tutori
dell’ordine”, ossia i tutori dell’ordine
costituito, di una società malata, retta sul
delitto, sull’ingiustizia, sullo sfruttamento e
sulla violenza legalizzata.
L’usanza squadrista di malmenare
in caserma o in galera il poveraccio di turno,
un’abitudine criminale che talvolta conduce alla
morte del malcapitato, è un “rito”
incivile e rozzo, un’“istituzione”
barbara, indegna di uno Stato di diritto, che
appartiene alla realtà dei regimi fascisti e
dittatoriali. Si tratta notoriamente di una
“prassi” seguita impunemente da chi, almeno
sulla carta, dovrebbe garantire la legalità
costituzionale e democratica. Invece, coloro che
detengono ed esercitano il monopolio della forza
pubblica, ovvero le cosiddette “forze
dell’ordine”, fanno parte di una macchina
repressiva costruita a scapito dei più deboli,
degli oppressi e degli emarginati.
Il brutale omicidio (un omicidio
di Stato, altro che "caduta accidentale"!)
di Stefano Cucchi, su cui la magistratura ha
aperto un'inchiesta, dimostra ancora una volta
che le forze dell'ordine si accaniscono in modo
vile e crudele contro gli elementi più deboli e
indifesi della società, i reietti e gli
emarginati, i diseredati e i miserabili, gli
ultimi nella scala e nella considerazione
sociale, i vinti nella spietata competizione per
la sopravvivenza, vittime della disapprovazione
e della condanna sociale, vittime della
repressione poliziesca e carceraria, mentre non
perseguono, anzi favoriscono e proteggono gli
sfruttatori della povera gente, i veri corrotti
e criminali, i veri aguzzini:
http://www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o10350.
Viviamo in un paese in cui i
corruttori, i ricchi e i potenti fanno e
disfanno ciò che vogliono e restano puntualmente
impuniti: sfruttano ed umiliano il lavoro
altrui, ingannano e derubano il prossimo,
truffano lo Stato, evadono sistematicamente il
fisco, guadagnano e riciclano denaro sporco e lo
trasferiscono all'estero, e tutto ciò
impunemente, beneficiando dell'ennesimo atto di
amnistia offerta dallo "scudo fiscale":
http://www.repubblica.it/2009/07/sezioni/economia/scudo-fiscale/scudo-fiscale/scudo-fiscale.html.
Il nuovo condono fiscale è un
provvedimento varato da un governo composto da
una banda filo-criminale che si conferma forte
con i deboli e debole con i forti, ma che è
stato approvato anche grazie alla colpevole
complicità ed alla tacita connivenza di alcuni
rappresentanti dell'opposizione parlamentare:
http://www.repubblica.it/2009/09/sezioni/economia/fisco-2/bagarre-in-aula/bagarre-in-aula.html
http://www.facebook.com/note.php?note_id=143877846601.
Lucio Garofalo
Il rovescio della
medaglia
Ricordate le
polemiche sollevate dall'indulto concesso dal
Parlamento italiano nel 2006? Ebbene, alla luce
dei recenti episodi di cronaca, credo che non ci
siano dubbi sul suo fallimento. Le tragiche
vicende di questi giorni hanno riportato alla
ribalta dell’attualità politica nazionale il
tema, sempre rovente, della giustizia e della
sicurezza carceraria in Italia, ossia la
questione della giustizia borghese, dei diritti
e della giustizia in una società ancora
classista come la nostra, forse più che nel
passato. A tale proposito credo valga la pena di
spendere qualche parola, riflettendo a partire
da alcuni dati di fatto.
Anzitutto, il
provvedimento d’indulto approvato a larghissima
maggioranza dal Parlamento italiano il 29 luglio
2006, venne spacciato come un legittimo e
doveroso atto di clemenza e giustizia compiuto
dallo stato italiano per sanare la gravissima
emergenza in cui tuttora versano le strutture
penitenziarie del nostro paese. Non è un caso
che gli unici voti nettamente contrari siano
venuti da Antonio Di Pietro e dai suoi
fedelissimi iper-giustizialisti, dai codini
della Lega e dai post-fascisti, ossia dai
settori più apertamente reazionari e forcaioli
ad oltranza presenti nel panorama politico
italiano.
Il provvedimento
emesso all'epoca era appunto una misura tampone,
destinata a sospendere il problema in maniera
temporanea, quasi a rimuovere i pesanti sensi di
colpa che turbavano la coscienza sporca della
classe politica dirigente, sensi di colpa
derivanti dalle inaccettabili e vergognose
condizioni di vita in cui è costretta la
popolazione carceraria. Insomma, prima che
esplodesse qualche rivolta sanguinosa si è
ritenuto opportuno prevenire i danni, anziché
affrontarli in seguito, quando è più difficile
rimediarvi. Di primo acchito si potrebbe
convenire con lo spirito di saggezza e di
indulgenza che pare avesse ispirato e dettato la
suddetta disposizione legislativa.
Si trattava di
una misura puramente emergenziale, che tuttavia
non ha risolto nulla, dato che gran parte dei
detenuti rimessi in libertà nei mesi successivi
all’indulto, sono progressivamente rientrati in
galera, avendo ripreso a delinquere, come
d’altronde era prevedibile che facessero.
Arrestati e condannati una prima volta, se non
più volte, molti detenuti sono stati scarcerati
grazie all’indulto, per essere nuovamente
arrestati, condannati e reclusi, in attesa di un
nuovo sconto di pena. E’ chiaro allora che il
vero scopo del condono da parte dello Stato era
un altro, molto più subdolo ed ingannevole.
Alla base di un
simile gesto di “clemenza” risiedeva la
volontà politica di occultare la natura reale,
autoritaria e repressiva dello Stato quale
detentore del monopolio della forza pubblica. In
quanto tale, esso impone con la violenza e con
la minaccia di ritorsione, le sue leggi, le sue
strutture e le sue istituzioni, le sue
ingiustizie e le sue contraddizioni, facendole
accettare come “diritto”, cioè come
“giustizia”, “ordine costituito”,
ecc. Ma il delitto non può essere trasfigurato
come “regola”, l’ingiustizia non può
essere spacciata come “legge”, la
violenza dell’oppressione, dello sfruttamento,
della miseria, dell’emarginazione, non può
essere camuffata sotto la veste ipocrita del
“diritto” e di un “ordine costituito”,
che pertanto non possono essere messi in
discussione né essere sottoposti a critica, e
tanto meno essere modificati.
La logica e
l’ideologia imperanti nella nostra società
pretendono che si consideri la violenza,
l’ingiustizia, lo sfruttamento materiale, la
guerra, quali forme e fenomeni di un “ordine
naturale” del mondo, che è dunque
inevitabile e permanente, ossia uno stato di
cose assolutamente immutabile. Eppure la società
borghese in cui viviamo è totalmente sorretta ed
incentrata sulla violenza e sul delitto, tutti i
suoi rapporti economici e sociali sono
imperniati sull'ingiustizia, sull’ipocrisia,
sulla mistificazione.
Pertanto, il
senso recondito di un provvedimento di indulto
come quello adottato dal Parlamento nel 2006, è
senza dubbio un obiettivo ideologico e
strumentale. Si è trattato di un’operazione di
propaganda e di mistificazione politica, tesa ad
esibire il volto “buonista” e
“garantista” dietro cui si ripara il vero
volto del potere, l'anima brutale della violenza
poliziesca e della repressione carceraria,
dell’ingiustizia e della ritorsione di classe,
la natura lugubre ed oscena, cinica e perversa
degli aguzzini in divisa, una realtà turpe e
criminale che è venuta fuori in questi giorni,
per cui non si può ostentare con eccessiva
disinvoltura, ma al contrario deve essere
opportunamente nascosta.
La falsa
clemenza, la falsa giustizia, e più un generale
la falsa democrazia, servono solo a dissimulare
il carattere più atroce, cruento e sanguinoso
che appartiene ad una società in cui la
violenza, il delitto e lo sfruttamento sono
all’ordine del giorno, anzi stanno all’origine
stessa della società, e si estrinsecano
abitualmente in tutti i rapporti concreti della
vita quotidiana degli individui, in carcere, in
fabbrica, a scuola, in famiglia, dappertutto,
persino nei più consueti rapporti d’amore e
d’amicizia. In tal senso, l’indulto ha esibito
il lato ipocrita e perbenista del sistema
attualmente vigente. Non mi riferisco solo al
sistema carcerario, ma all’intero sistema
sociale, dominato da interessi di profitto,
arricchimento e potere, che coinvolgono
un’esigua minoranza di soggetti, la cui ferrea
volontà condiziona pesantemente lo Stato, la
legge e l’ordine, che sono una diretta
emanazione storica della classe sociale al
potere.
Recentemente, su
un canale televisivo satellitare, hanno
riproposto uno stupendo film di Giuliano
Montaldo, “Sacco e Vanzetti” del 1971,
interpretato da due attori straordinari, Gian
Maria Volonté e Riccardo Cucciolla, calati nei
panni dei due anarchici. E’ un capolavoro
cinematografico di gran pregio, impreziosito da
una superba colonna sonora composta da Ennio
Morricone, la cui interpretazione canora è stata
affidata all’incantevole voce di Joan Baez, la
più importante cantautrice pop statunitense.
Al termine della
visione del film, dopo essermi commosso ancora
una volta, ho pensato alla dolorosa ingiustizia
sofferta dai due anarchici italiani (riabilitati
tardivamente, ossia post-mortem, dalle autorità
nordamericane, vale a dire dagli stessi
carnefici), una violenza perpetrata dal sistema
politico giudiziario statunitense, da quella che
viene abitualmente osannata come la più grande
ed antica "democrazia" del mondo.
Che si tratti
della sedia elettrica o di un’impiccagione,
della ghigliottina o della fucilazione, di una
decapitazione a colpi d’ascia o un’iniezione
letale, ogni modalità tecnica di esecuzione
della pena capitale è indubbiamente legata alle
condizioni temporali e spaziali in cui vive un
determinato ordinamento statale. E’ altrettanto
indubbio che persino la civiltà giuridicamente
più avanzata, che escluda dal suo codice penale
la condanna a morte, sostituendola con un più
“umano” ergastolo, e che ogni tanto conceda
un’amnistia, un condono, uno sconto di pena, una
grazia, mostrando in tal guisa un volto di
“clemenza”, in realtà si propone solo di
camuffare ipocritamente la sua natura feroce e
reazionaria, mistificando l’autoritarismo e
l’iniquità di fondo su cui si regge un sistema
di tipo classista che ha bisogno di
“normalizzare” e “legalizzare” le
contraddizioni e le sperequazioni sociali e
materiali esistenti.
Restando in tema,
mi sovviene un altro film diretto da Luigi
Magni, intitolato “Nell’anno del Signore”,
uscito nel 1969. In questo film il personaggio
principale è Cornacchia/Pasquino, interpretato
da Nino Manfredi, uno dei migliori interpreti
della commedia all’italiana. Pasquino incarnava
la voce del popolo nella Roma papalina, un
autore clandestino di versi satirici e
irriverenti, scritti sulla statua
dell’imperatore Marco Aurelio e rivolti contro
il potere temporale della chiesa. Pasquino, a un
certo punto del film, afferma in dialetto
romanesco: “A noi rivoluzionari ce frega er
core!”. Una frase ad effetto che si
inquadrava nel contesto storico del biennio
1968/69, con le inevitabili implicazioni che il
concetto esprimeva in un momento critico della
storia italiana.
Personalmente non
concordo con la tesi racchiusa nella frase di
Pasquino, che probabilmente parlava a nome del
regista Luigi Magni. Non sono d’accordo
soprattutto per innegabili ragioni storiche.
Infatti, tutti coloro che hanno messo in pratica
un tale orientamento politico, attenendosi alla
lettera al modello e allo spirito rivoluzionario
incarnato da Pasquino e riassunto nella sua
frase, hanno miseramente fallito. Si pensi, ad
esempio, alle Brigate Rosse in Italia, alla RAF
nella Germania Ovest, a tutte le formazioni
combattenti emuli delle Br, che hanno adottato
una strategia di lotta armata ferrea ed
inflessibile, senza “cuore” e senza
“pietà”: hanno tutti perso tragicamente.
Persino le
rivoluzioni sociali e politiche inizialmente
vincenti, quali la rivoluzione bolscevica del
1917 in Russia, hanno condotto ad esiti
rovinosi. Come mai? A mio avviso, il problema di
fondo sta nel fatto che quando si rimuove “er
core”, cioè l’umanità, dalla lotta e dal
movimento di una rivoluzione, il rischio che si
corre è esattamente quello isolarsi dal
carattere e dallo spirito delle masse popolari,
per diventare aridi e cinici, più crudeli e
spregiudicati del potere che si intende
rovesciare. Non si può sconfiggere il nemico
emulandolo, altrimenti si rischia di
assomigliargli troppo e si finisce per creare un
sistema di potere e di oppressione più cruento
ed efferato rispetto a quello abbattuto. Io
credo che non si debba cercare di sovvertire e
conquistare il potere, ma bisogna semplicemente
negarlo e ripudiarlo tout-court, senza emularlo
o eguagliarlo, evitando di farsi plagiare o
sedurre, quindi corrompere, dal suo fascino
malefico.
Lucio Garofalo
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