Le occasioni
sprecate
Il 23 novembre di
quest’anno ricorre il 29esimo anniversario del
terremoto che scosse con violenza un vasto
territorio del Sud Italia, il cui epicentro fu
individuato in un’area compresa tra l’Irpinia e
la Lucania, precisamente a Conza della Campania.
Il sisma, caratterizzato da una fortissima
intensità che superò il 10° grado della scala
Mercalli e da una magnitudo 6,9 della scala
Richter, investì con furia numerosi paesi,
spazzando via in pochi attimi intere comunità e
decimando le popolazioni locali. Per comprendere
la devastante potenza sprigionata dal terremoto
del 1980, basta compiere una semplice analisi
comparativa con quello dell’Abruzzo, che ha
raggiunto i 5,8 gradi della scala Richter. Nel
complesso si contarono quasi 300 mila
senzatetto, oltre 2 mila morti e quasi 10 mila
feriti. Tra i centri maggiormente disastrati vi
furono Sant’Angelo dei Lombardi, Lioni, Torella
dei Lombardi, Conza della Campania, Teora,
Caposele e Calabritto.
Dunque, 29 anni
fa si è consumata un’immane tragedia, la
peggiore sciagura che abbia colpito l’Italia
meridionale nel secolo scorso. Si trattò di un
cataclisma senza precedenti, le cui traumatiche
conseguenze non furono provocate solo da cause
naturali, ma anche da precise responsabilità
umane, cioè da scelte di ordine politico,
economico, antropico e culturale. Il fenomeno
tellurico che sconvolse le nostre zone fu senza
dubbio di una potenza inaudita, ma le
speculazioni affaristiche, l’incuria e
l’irresponsabilità degli uomini nella
costruzione e nella manutenzione delle
abitazioni e degli edifici pubblici, le
lentezze, i ritardi, l’impreparazione della
macchina organizzativa dei soccorsi statali
nella fase dell’emergenza post-sismica (quando
serviva rimuovere con urgenza i cumuli di
macerie e salvare eventuali superstiti),
contribuirono non poco ad aggravare i danni e ad
accrescere in modo agghiacciante il numero dei
morti e dei feriti.
Per gli abitanti
dell’Irpinia il terremoto del 1980 rievoca
emozioni intense, un misto di cordoglio,
tristezza e turbamento, di angoscia,
inquietudine e rabbia. Il ritorno ad una vita
“normale” è stato un processo assai lento ed
ha richiesto lunghi anni trascorsi in una
condizione di permanente provvisorietà
emergenziale, che ha visto numerose famiglie
crescere i propri figli fino alla maggiore età,
se non addirittura oltre, nei container con le
pareti rivestite d’amianto. Il completamento
della ricostruzione, lo smantellamento e la
bonifica delle aree prefabbricate sono
interventi che appartengono alla storia recente.
Inoltre, l’opera di ricostruzione degli alloggi
e degli agglomerati urbani non è stata
accompagnata da un’effettiva volontà e capacità
di ricostruzione del tessuto della convivenza
civile e democratica, da un indirizzo politico
che contenesse scelte mirate a ricucire una rete
di sane relazioni interpersonali, a recuperare
gli spazi di aggregazione e di partecipazione
sociale che rendono vivibili le strutture
abitative.
Il terremoto del
1980 ha straziato e scompaginato l’esistenza di
intere generazioni di giovani, ha impressionato
le percezioni più elementari, imprimendosi nella
memoria e nelle coscienze individuali, agendo
nella sfera più nascosta delle sensazioni
interiori. I cambiamenti prodotti dalle viscere
della terra, intesi soprattutto in termini di
abiezione e degrado sociale, si sono insinuati
nell’intimità degli affetti, nei gesti e negli
atteggiamenti più comuni, penetrando negli stati
d’animo e nelle normali relazioni quotidiane,
degenerando in una sorta di imbarbarimento e
regressione antropologica.
A distanza di
anni, continuano a perpetuarsi l’organizzazione
e l’arroganza del potere politico clientelare
che continua a ricattare i soggetti più fragili
e indifesi, condizionando e riducendo la libertà
di scelta delle persone, influenzando gli
orientamenti elettorali dei singoli individui e
creando vasti serbatoi di voti tra le masse
popolari. Tali rapporti di forza si sono
conservati in modo cinico, sopravvivendo
indisturbati alle inchieste giudiziarie di
Tangentopoli e agli scandali dell’Irpiniagate.
A partire dagli
anni ‘80, attingendo ampiamente agli ingenti
finanziamenti stanziati dal governo per la
ricostruzione, fu varato un folle piano di
industrializzazione forzata delle zone di
montagna. Si progettò la dislocazione di
macchinari installati nel Nord Italia
all’interno di territori tortuosi, difficilmente
accessibili e praticabili, in cui non esisteva
ancora una rete moderna di infrastrutture
stradali, di trasporti e di comunicazioni, in
cui i primi soccorsi inviati dallo Stato nella
fase dell’emergenza stentarono ad arrivare.
Si è innescato in
tal modo un processo di perenne sottosviluppo
economico e sociale che nel tempo ha rivelato la
propria natura sinistra ed alienante, i cui
effetti hanno arrecato guasti irreparabili
all'ambiente e all'economia locale, che era
prevalentemente agricola e artigianale. Occorre
ricordare che sul versante strettamente
economico-produttivo, la “modernizzazione”
delle nostre zone è avvenuta in tempi rapidi e
in modo convulso, maldestro ed irrazionale. Tale
risultato si è determinato all’interno di un
processo di “post-modernizzazione” del
sistema capitalistico
globale, cioè in una fase di
ristrutturazione tecnologica post-industriale
delle economie più avanzate dell’occidente, con
il trasferimento di capitali e macchinari ormai
obsoleti nelle aree economicamente più depresse
e sottosviluppate come, ad esempio, il nostro
Meridione.
A scanso di
eventuali equivoci, chiarisco che non intendo
affatto proporre un'esaltazione acritica del
feudalesimo o delle società arcaiche ormai
superate da un falso sviluppo che in realtà è in
grado di generare solo barbarie e sottosviluppo,
né intendo esternare sentimenti di nostalgia di
un passato che fu di pena ed oppressione, di
corruzione sociale e depravazione morale, di
miseria e sfruttamento materiale delle plebi
rurali irpine. Invece, mi interessa comprendere
l’attuale società a partire da un'analisi
storica onesta, lucida ed obiettiva. Occorre
indagare e spiegare la realtà odierna, segnata
da un fallace sviluppo economico, da una
democrazia pseudo liberale e solo formale, da un
benessere artefatto, in quanto corrotto e
mercificato, di tipo prettamente consumistico.
Infatti,
non si può negare che la “modernizzazione”
delle zone terremotate sia stata una conseguenza
ritardata e regressiva del processo di
ristrutturazione tecnico-produttiva delle
economie capitalisticamente più forti del Nord
Italia e del Nord del mondo, la cui ricchezza e
il cui potere derivano da un sistema di sviluppo
che genera solo fame e miseria, guerra ed
oppressione, inquinamento, sottosviluppo e
dipendenza in altre regioni del pianeta,
identificate come "Sud del mondo", in
cui occorre includere anche il Mezzogiorno
d'Italia. A maggior ragione il ragionamento è
valido se riferito alla modernizzazione fittizia
come quella avvenuta nella fase storica della
ricostruzione in Irpinia.
Sotto il profilo
economico quella
irpina non è più una
società rurale, ma non è diventata nulla di
effettivamente nuovo ed originale, non si è
trasformata complessivamente e spontaneamente in
un’economia industrializzata, pur vantando
antiche vocazioni artigianali e commerciali come
quelle che animano le dinamiche e i processi di
sviluppo, irrazionali e senza regole, che si
sono verificati sul territorio locale.
Da noi convivono
vecchi e nuovi problemi, piaghe antiche come il
clientelismo e la camorra, ma pure nuove
contraddizioni sociali quali la disoccupazione,
le devianze giovanili, l’emarginazione, che sono
effetti causati da una modernizzazione puramente
economica e consumistica. Come sappiamo, il
fenomeno dell’emigrazione si è “modernizzato”,
nel senso che si ripresenta in forme nuove, più
serie e complesse del passato. Infatti, un tempo
gli emigranti irpini erano lavoratori
analfabeti, mentre oggi sono giovani con un alto
grado di scolarizzazione. Inoltre, mentre gli
emigranti del passato aiutavano le loro famiglie
d’origine, a cui speravano di ricongiungersi
quanto prima, i giovani che oggi fuggono via lo
fanno senza la speranza e l’intenzione di far
ritorno nei luoghi nativi, anzi spesso si
stabiliscono altrove e creano le loro famiglie
laddove si sono economicamente sistemati.
Insomma, è un’emigrazione di cervelli, cioè di
giovani laureati sui quali le nostre comunità
hanno investito ingenti risorse materiali e
intellettuali. Questo è il peggiore spreco di
ricchezze per le nostre zone. Spaesamento e
spopolamento sono due tendenze solo
apparentemente contrastanti, ma che segnano in
modo rovinoso la storia delle aree interne
meridionali negli ultimi decenni.
A questo punto
non si può fare a meno di chiedere di chi sono
le responsabilità, che appartengono a vari
soggetti, in primo luogo ad un ceto politico che
ha gestito la ricostruzione in Irpinia,
conquistando il peso della classe dirigente
nazionale, formandosi attorno ai massimi
esponenti del potere politico locale e
nazionale. Basta citare i nomi dei dirigenti
della Democrazia cristiana irpina che hanno
occupato posizioni di rilievo nell’ambito del
partito e sono tuttora affermati ai più alti
livelli politico-istituzionali.
Il mio modesto
contributo è anzitutto quello di provare ad
interpretare e conoscere la realtà, ma anche
quello di provare a modificarla. La speranza di
riscatto delle nostre popolazioni deve
esplicarsi in un progetto di trasformazione
concreta, da promuovere necessariamente in sede
politica. Si può e si deve cominciare dal basso,
dal piccolo, dal semplice, per arrivare in alto,
per pensare ed agire in grande, tentando di
migliorare il mondo circostante. In questa
prospettiva l’intellettuale, da solo, è
impotente, per cui
deve riferirsi e agganciarsi alle forze sociali
presenti nella realtà storica in cui vive.
Lucio Garofalo |