LA FUORIUSCITA
DALLA CRISI E’ NELLA FUORIUSCITA DAL CAPITALISMO
Le campagne di
disinformazione sulla crisi e le sue cause reali
Una falsa leggenda metropolitana, molto diffusa
nell’ultimo periodo, ci sta raccontando che
l’attuale recessione economica globale affonda
le sue radici nell’orbita delle speculazioni
affaristiche compiute dal sistema delle grandi
banche, delle borse mondiali e dell’alta finanza
internazionale.
Non c’è dubbio che una parte considerevole di
responsabilità risieda nel settore bancario e
finanziario, ovvero sia da ascrivere al cinismo
e alla spregiudicatezza di speculatori del
mercato borsistico e di affaristi delle maggiori
banche mondiali, in modo particolare delle
banche nordamericane. Non a caso, la rabbia e la
rivolta popolari si stanno scatenando,
apparentemente in modo spontaneo, contro
determinati soggetti, individuati come capri
espiatori (in maniera pilotata ad arte dai
mass-media ufficiali) nei megadirigenti e nei
manager super-pagati delle società finanziarie,
bancarie e assicurative multinazionali.
La
depressione economica in atto nel mondo è stata
senza dubbio aggravata da fenomeni speculativi
di origine affaristico-finanziaria. Tuttavia, la
matrice reale della crisi è
sistemico-strutturale ed è di portata globale, è
un crollo derivante dalle contraddizioni insite
nella natura stessa dell’economia di mercato.
Infatti, un’economia di mercato senza mercato,
cioè priva di una domanda (ovvero quando
l’offerta supera nettamente la domanda), è una
contraddizione in termini, per cui rischia di
precipitare in una crisi acuta difficilmente
sanabile; se la crisi non trova una risposta
risolutiva, rischia la bancarotta finale. Come
del resto sta accadendo in questa fase, in cui
si assiste al crollo vertiginoso degli
investimenti, dei salari e dei prezzi, quindi
alla caduta verticale del saggio (o tasso) di
profitto, che approfondisce la crisi provocando
un circolo vizioso non superabile, nemmeno con
una “nuova Bretton Woods”.
In
tal senso si può affermare che siamo davvero in
una fase di crisi epocale rivoluzionaria, ossia
alla fine di un’era e in un momento di
transizione verso un’altra epoca storica.
Una crisi di sovrapproduzione e di sottoconsumo
Dunque la crisi odierna investe l’apparato
politico-economico complessivo, mettendo in
discussione l’intero modo di produzione
capitalistico su scala planetaria.
Infatti, quella in corso è una crisi di
sovrapproduzione e di sottoconsumo. Ciò
significa che negli ultimi lustri si è
determinato un ciclo di sviluppo produttivo e di
accumulazione smisurata di profitti economici
privati, generati da un eccessivo sfruttamento
materiale dei produttori, ossia degli operai e
dei lavoratori salariati. I quali, a dispetto
dei ritmi, degli orari e degli standard di
rendimento produttivo indubbiamente elevati, si
sono progressivamente impoveriti e indeboliti. E
ciò è avvenuto in tutto il mondo, compresa
l’Italia, per effetto di un processo di
globo-colonizzazione economico-imperialistica
che ha generato condizioni sempre crescenti di
miseria, sottosviluppo, sfruttamento e
precarietà materiali, permettendo o imponendo
livelli sempre più bassi del costo del lavoro
(vale a dire dei salari) su scala planetaria,
malgrado gli operai delle fabbriche abbiano
fatto e facciano molto più del loro dovere.
Le
conseguenze immediate sono evidenti a tutti: un
drastico calo dei consumi, destinati a ridursi
ulteriormente, alimentando e accrescendo in tal
modo la tendenza recessiva in atto; un
incremento esponenziale della disoccupazione e
della precarizzazione, con inevitabili e
drammatiche conseguenze in termini di costi
sociali ed umani, di ulteriore indebolimento e
degrado dei lavoratori del sistema produttivo e,
quindi, un progressivo abbassamento degli
acquisti di beni di consumo. Ciò innescherà un
meccanismo vizioso che autoalimenterà la
recessione, sino al tracollo e al fallimento
definitivo del capitalismo su scala globale, che
cadrà irrimediabilmente in rovina, almeno nelle
forme e nei modi conosciuti finora.
A
nulla servirà l’assunzione di rimedi ormai
inutili e tardivi, ovvero di provvedimenti di
pura facciata quali, ad esempio, l’autoriduzione
dei megastipendi dei parlamentari, la
limitazione dei compensi dei supermanager e dei
dirigenti di banca, o di misure tese alla
moralizzazione e regolamentazione dei mercati
finanziari e persino alla proibizione dei
paradisi fiscali.
Se
è vero che i capitalisti sono i principali
responsabili della crisi odierna, è altresì vero
che nemmeno i politici, servi e funzionari del
capitale, possono dirsi estranei o innocenti,
anzi.
La
demagogia e l’ipocrisia, oltre all’inettitudine
e all’improvvisazione messe in mostra dai ceti
politici dirigenti, nonché la manipolazione e la
disinformazione esercitate dai mass-media
ufficiali, sono la controprova e la conferma
dell’ipocrisia, dell’inganno e della menzogna
insite nella realtà e nella natura stessa
dell’economia capitalistico-borghese.
Era già tutto previsto
La
principale causa delle crisi economiche che
investono periodicamente il capitalismo è da
individuare, secondo l’analisi fornita da Karl
Marx ne Il Capitale, nel crollo periodico del
saggio (o tasso) di profitto. Lo stesso processo
di espansione, accumulazione e concentrazione
monopolistica del capitale, accelera la caduta
tendenziale del saggio di profitto (tendenziale
nel senso che si tratta di una tendenza che
entra in contrasto con altre forze e
controtendenze intrinseche al sistema
economico-capitalistico).
Tuttavia, Marx non esclude altre cause che
possono essere all’origine delle crisi. La
ragione ultima, che spiega le crisi
capitalistiche, risiede nel progressivo
impoverimento dei lavoratori e nel crescente
indebolimento del loro potere d’acquisto, quindi
nel crollo dei consumi delle grandi masse, un
dato che contrasta con la necessità, connaturata
al sistema capitalistico, di espandere i mercati
ed accrescere sempre più il bacino dei
consumatori. In parole semplici, quando i salari
si riducono troppo, calano inevitabilmente anche
i consumi delle masse lavoratrici, e tale
processo non può non incidere anche sui profitti
capitalistici, che precipitano in caduta libera
determinando effetti di crisi spaventosa, di
impoverimento e proletarizzazione anche di vasti
strati della piccola e media borghesia
economico-imprenditoriale, generando fenomeni di
crescente conflittualità tra le potenze
capitalistiche esistenti.
Crisi precedenti e soluzioni
In
passato, per scongiurare altre dure recessioni
economiche come, ad esempio, quella del 1929 (la
grave depressione provocata dal Big Crash: il
pesante crollo della borsa di New York, avvenuto
martedì 29 ottobre 1929, perciò definito il
“Martedì nero”), il sistema capitalistico ha
comunque escogitato diverse soluzioni possibili
e praticabili all’interno del sistema stesso,
ossia all’interno dell’orizzonte capitalistico,
mediante il ricorso all’interventismo statale e
all’ampliamento della spesa pubblica. Si pensi,
ad esempio, a soluzioni di ispirazione
keynesiana quali il New Deal. Ovvero ha
intrapreso risposte in chiave neoimperialistica
e neoconservatrice, per difendere e consolidare
lo statu quo, ossia l’ordine padronale
esistente.
Le
politiche neocoloniali e neoimperialistiche non
sono servite solo per la ricerca di un mercato
di sbocco per le merci provenienti dai paesi
capitalistici più sviluppati o di un luogo ove
reperire materie prime e risorse energetiche a
buon mercato o manodopera a basso costo, ma sono
state anche un modo molto efficace per
conquistare aree in cui accrescere il capitale
senza dover affrontare la concorrenza di
settore. Parimenti, l’intensificazione della
corsa agli armamenti, la conversione bellica
dell’industria, imposta soprattutto dalle
multinazionali dell’industria pesante,
metalmeccanica, siderurgica, petrolifera ecc.,
fu la strada scelta dalle classi dominanti per
uscire dalla pesante depressione del ’29, che ha
inevitabilmente condotto ad una nuova,
sanguinosa guerra mondiale (a nulla valse la
lezione della prima guerra mondiale).
Il
nazifascismo fu un altro tipo di reazione delle
classi dirigenti dell’epoca alla crisi sociale
ed economica del primo dopoguerra, e contribuì
ad acuire le tensioni e i conflitti tra le
potenze imperialistiche europee e occidentali,
accelerando il cammino che trascinò i popoli al
tragico conflitto mondiale. Durante i 25 anni
seguenti alla fine della seconda guerra
mondiale, in tutti i paesi maggiormente
industrializzati (Italia inclusa) si è
verificato un ciclo di sviluppo e di espansione
economica diffusa e costante, un periodo storico
definito col termine di "boom economico". Ma nel
corso degli anni '70 questa fase di crescita è
stata frenata dalla crisi del dollaro (e del
sistema monetario internazionale, che porterà
nel 1971 alla fine degli accordi di Bretton
Woods, con la dichiarazione unilaterale
statunitense di inconvertibilità del dollaro in
oro) e dalla crisi petrolifera esplosa nel 1973
in seguito alla guerra del Kippur (combattuta da
Egitto e Siria contro Israele), che determinò un
innalzamento vertiginoso del prezzo del barile.
Fuoriuscire dalla
crisi
Nel caso
odierno, la fuoriuscita dalla crisi è possibile
solo attraverso la fuoriuscita definitiva e
totale dal sistema capitalistico-borghese.
Naturalmente tale
prospettiva, sempre meno teorica e sempre più
realistica e concreta, turba non poco i
capitalisti (nonché i loro servi e lacchè) del
mondo intero. E ciò vale anche per il
capitalismo di stato del gigante cinese, che non
esita a fare affari e a stipulare accordi
commerciali con gli Stati Uniti per schiacciare
la concorrenza europea.
Per arginare
l’esplosione di rivolte, disordini e conflitti
sociali come quelli a cui stiamo assistendo in
questi giorni, i capitalisti invocheranno
l’adozione di altre soluzioni politiche, magari
estreme, di segno apertamente autoritario e
reazionario (stile nazifascismo in versione
aggiornata, per intenderci), e che sul versante
propriamente economico potranno condurre ad una
nuova, pericolosa corsa al riarmo e, di
conseguenza, ad uno sbocco
bellico-imperialistico, ossia ad un lungo
periodo di guerre brutali e sanguinose sulla
scena internazionale.
Una seria
alternativa al capitalismo
Pertanto,
l’unica alternativa possibile e praticabile per
evitare e scongiurare simili scenari di
catastrofica auto-dissoluzione
del genere umano, è solo quella di una
fuoriuscita globale e definitiva dal sistema
politico-economico vigente, retto su un
capitalismo ormai franato
in una crisi
irreversibile e, dunque, destinato al collasso.
Ciò significa restituire al lavoro collettivo il
valore e l’importanza che
gli spetta,
recuperare la centralità e il primato del lavoro
produttivo e sociale in un assetto economico di
autogestione delle aziende da parte dei
lavoratori (chiamatelo comunismo, socialismo,
collettivismo o nel modo che vi pare).
Tuttavia, è
evidente che non basta appropriarsi dei mezzi
produttivi, né rovesciare il quadro dei rapporti
di forza esistenti, ma occorre trasformare in
modo rivoluzionario il sistema di organizzazione
e gestione della produzione stessa. Infatti, le
imprese capitalistiche sono state create per
ottenere ingenti profitti economici privati sui
mercati e non per soddisfare le esigenze vitali
e primarie delle persone. E' la loro struttura e
natura intrinseca ad essere viziata. Occorre
quindi riconvertire le aziende verso la
produzione di beni di prima necessità, in modo
tale che il valore d'uso riacquisti il suo
antico primato sul valore di scambio, e che
l'autoconsumo delle unità produttive costituite
sui territori locali, geograficamente limitati e
politicamente autogestiti in termini di
democrazia diretta e partecipativa, prevalga
sulle false esigenze consumistiche, ovvero sui
bisogni indotti dal mercato capitalistico,
annullando la dipendenza e la subordinazione
delle istanze sociali rispetto alle ferree leggi
del profitto economico privato.
Bisogna
prendere atto che qualsiasi discorso di sinistra
che proponga il sostegno alla ricerca,
all'innovazione e allo sviluppo, ovvero chieda
di rafforzare la crescita del PIL nazionale,
senza rivendicare o propugnare la
socializzazione della proprietà, alla lunga si
rivelerà una iattura per gli interessi delle
classi operaie e lavoratrici. I sindacati e i
partiti di sinistra non devono battersi per
incentivare
e rilanciare la
competitività delle imprese economiche private,
ma devono dimostrare che malgrado la
competitività e la produttività il sistema
risulta invivibile e inaccettabile per tutti i
lavoratori. In altri termini, bisogna rimettere
seriamente in discussione il paradigma stesso
dello sviluppo economico. Di per sé il concetto
di "sviluppo" non presuppone affatto un
miglioramento delle condizioni di vita della
gente. Non possiamo più adoperare criteri
"quantitativi" (quali, ad esempio, il Prodotto
Interno Lordo di una nazione, o quello
pro-capite, ecc.) per calcolare e definire il
tasso di eguaglianza e di giustizia sociale, di
progresso e di democraticità di un paese.
Lucio Garofalo
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