Tutta la povertà che ci
riguarda
Lettera a don Franco
Piazza di Gianni Giletta
Gent.mo don Franco Piazza,
Ho letto con attenzione
il comunicato a nome del Centro Studi
Bachelet “Giudizio,
pregiudizio, sommario, umoralità”
apparso sul sito della diocesi, in cui si dà
una valutazione oggettiva dei fatti riguardo
la trasmissione Wake Up di Media Tv.
Le scrivo affinché
ascolti anche chi come me può avere qualcosa
di diverso da dire riguardo l’ avvenimento e
questo possa far ben riflettere e il vescovo
e l’ Azione Cattolica.
Premetto che affrontare
questi temi attraverso una lettera è sempre
molto difficile; nulla può sostituire la
delicatezza e la profondità di un confronto
personale. Ma voglio comunque condividere
con lei alcune riflessioni, nella speranza
di riuscire a trasmetterle un po’ di quel
senso di disagio che si respira, in questi
giorni, all’ interno della Chiesa diocesana
e non.
Ovvio che gli interventi
qualunquisti e superficiali –da
qualunque parte vengono- di chi si sente
autorizzato a prendere posizione senza
conoscere da vicino i problemi e senza un’
autentica disponibilità all’ ascolto o
almeno alla documentazione servono solo a
acuire le frammentazioni già esistenti nel
territorio.
Non me sento di entrare in
questioni personali che riguardano
solo ed esclusivamente e l’ emittente
televisiva Media Tv e la curia diocesana.
Come del resto non me
la sento nemmeno di condannare Giusi Juliano
in toto
con il solito
“anatema sit!”.
E’ mia intenzione sottolineare che non è
ammissibile fare di quest’ avvenimento l’
ennesima ‘occasione mancata’ per la Chiesa.
Si tratta di aprire gli occhi ed utilizzare
il testo come uno ‘specchio’, per rendere
palese ciò che è latente nel nostro sistema
ecclesiale diocesano, nella scontatezza dei
nostri comportamenti quotidiani, nel nostro
modo –che forse non è quello di Dio- di fare
comunicazione e fruire di essa, nel nostro
essere cristiani o meno.
Per rendere chiare le mie
affermazioni faccio una breve analisi
semiotica del testo, abbassando il livello
alla sola comprensione dei fatti, così come
lo leggerebbe un uomo comune, ovvero privo
dei necessari strumenti per andare oltre il
testo stesso.
Dove cade la mia
attenzione? Il vescovo parla di sprechi
ovvero “un
fiume di denaro viene convogliato verso
alcuni settori privilegiati…”
tra cui
“…i parlamentari”
e di più quelli comunisti
“…vestiti con giacche
di cashmere”; il
vescovo stesso prende a mo’ di esempio
“…la Lonardo”,
“…le province”
e “…i comuni”.
E dulcis in fundo, parla del calcio
“…in cui i vari
Mourinho, i Capello, i Totti guadagnino in
un anno ciò che un mortale ‘fantozzi’ non
vedrà mai in tutta la sua vita”.
Valutazione: linguaggio
ricco di stereotipi, che nulla dice di più
rispetto all’ uomo comune.
Il programma televisivo
Wake up –visionabile su internet alla pagina
personale dell’ emittente Media Tv- insiste
consapevolmente –o colpevolmente?- su una
frase, che il lettore può prendere a mo’ di
incipit,
o può ritenere sia –così come è avvenuto- il
pensiero autentico del vescovo. La frase, al
presente indicativo -“Ritengo
che i soldi ci siano per tutti oggi, in
Italia, per vivere una vita dignitosa e non
dispendiosa”- fa
capire a chi legge che chi scrive la pensa
così.
Per essere più precisi
-prendendo ad esempio un sillogismo
aristotelico-, se dico: –mattina con il
sole, ma terreno bagnato- fa dedurre a chi
ascolta che –nella notte sia piovuto-.
E che è ragionevole che sia davvero così.
In ultima analisi, il
testo -nonostante sembri comunicare
qualcosa- non riesce a recuperare
essenzialità di contenuto e maggiore
facilità di linguaggio. Non comunica. Ecco
perché è riuscito a sollevare un
inaspettato polverone sulla ‘povertà della
Chiesa’.
Nella recente teologia del
ministero, anche nei testi ufficiali del
Concilio Vaticano II, il compito dell’
annuncio è collocato giustamente al primo
posto.
L’ incaricato di un
ministero deve essere prima di tutto un uomo
della parola, che aiuta a decifrare una
realtà dimenticata e respinta, che dà
indicazioni in maniera profetica, non
sonnecchiante; energicamente riapre orecchi
ormai chiusi, rivolge parole di
consolazione. Anche nella precarietà, sa
levare la sua voce di speranza, perché sa
guardare al cielo. Ed è il cielo che
determina la bellezza della Terra.
Deve saper amare molto,
perché chi ama vigila e chi vigila ama.
Piange il bimbo nella notte e subito la
mamma e il papà si alzano. O no? Deve avere
un cuore che sa discernere sempre il meglio.
Che non si ferma alle cose che vede, ma
entra nei fatti. Non scende a compromessi,
né si fa condizionare. Ma, soprattutto, deve
essere chiaro: raccoglie le domande dei
piccoli per farne progetto, indicare
sentieri, proporre percorsi. Non basta che
sappia. Deve formare e riformare. Anche le
parrocchie di oggi, pigre e un po’ stanche.
Come pure le comunità religiose, assopite
dentro un’ acquiescenza pericolosa.
Per il ministero
ecclesiastico non c’ è forza maggiore della
forza della parola, in cui Dio può diventare
presenza presso di noi.
Anche e forse
soprattutto, in questo campo, la
Chiesa deve dimostrare che essa è
semper reformanda:
sempre cedevole
al peccato, sempre bisognosa di conversione.
Non si tratta di difendersi da attacchi, si
tratta di agire con stile. Nulla può
togliermi dal cuore il pianto per le troppe
pagine di storia –anche recente!- nelle
quali si può leggere ciò che Guglielmo d’
Auvergne scriveva nel sec. XIII: “La Chiesa
si presenta come un carro del Faraone
piuttosto che come un carro di Dio e va
verso l’ abisso delle ricchezze e dei
piaceri e perfino dei peccati; le ruote dei
maestri della Chiesa sono uscite dalla
strada e si sono separate per la
dissomiglianza con Cristo, l’ asse della
vita”. Nella Chiesa qualunque ‘grazia di
autorità’ è una modalità storica dell’
obbedienza allo Spirito; nella Chiesa
qualunque obbedienza allo Spirito rende
autorevoli; si obbedisce riconoscendo Cristo
nei fratelli e ciò vale per ogni membro
della Chiesa.
La diocesi si è fermata
a livello comunicativo. Già da qualche anno.
Mi (s)piace vedere questo grande albero, con
radici solide in terra e rami innalzati al
cielo, su cui molte scimmie fanno rumore: si
muovono, squittiscono, saltano da un ramo
all’ altro; sembra stiano creando, se non
per il nulla. Altri invece, vestiti da
persone, sono seduti su di una panchina
sotto l’ albero; avrebbero anche loro delle
cose da dire, sentimenti e proposte serie da
fare, ma nessuno gli dedica tutto il tempo
di cui hanno bisogno; sono gli
ultimi
del nostro tempo.
È sbagliata, di
conseguenza, e appare insufficiente nella
nostra prospettiva, qualsiasi analisi che
riduca gli ultimi, il povero e la scelta in
loro favore al piano puramente economico e
politico. Così come fa il vescovo.
Non siamo neppure, come
talvolta si pensa, unicamente di fronte alla
sfida di una ‘situazione sociale’, quasi si
trattasse di qualcosa di esteriore alle
esigenze fondamentali del messaggio
evangelico. Ci troviamo piuttosto davanti a
qualcosa che va contro il Regno di vita
annunciato dal Signore, qualcosa dunque che
un cristiano deve respingere.
La vita del povero è
infatti una situazione di fame e di
sfruttamento, di insufficiente attenzione ai
problemi della salute, di mancanza di una
casa decente, di difficile accesso
all'istruzione scolastica, di bassi salari e
di disoccupazione, di lotte per i propri
diritti, di repressione. Ma questo non è
tutto. Essere poveri è anche una maniera di
sentire, conoscere, ragionare, farsi degli
amici, amare, credere, soffrire, far festa,
pregare. In altri termini, i poveri
costituiscono
un mondo.
Impegnarsi con loro è entrare in tale
universo -o in certi casi restarvi, ma con
una coscienza più chiara-, viverci dentro;
considerarlo non come luogo di lavoro, ma
come propria residenza. Non già andare verso
questo mondo qualche ora per darvi
testimonianza del Vangelo, bensì partire
ogni mattina da esso per annunciare la
'Buona Notizia' a ogni persona umana.
Come fare allora?
Solidarietà autentica e realismo ecclesiale:
ecco quanto si richiede per affrontare la
questione. Il cristianesimo –quello vero-
mette sempre in discussione la forma sociale
e politica che l’ uomo riesce a realizzare.
Già
Paolo VI ebbe a dire:
“L’ uomo contemporaneo
ascolta più volentieri i testimoni che i
maestri o, se ascolta i maestri, lo fa
perché sono dei testimoni”
(2 ott. 1974). Non quindi, un’ azione intesa
‘a riempire scaffali delle biblioteche’.
E’ dunque mediante la sua
condotta, mediante la sua vita che la Chiesa
porterà il suo messaggio autentico al mondo.
Un azione in ordine alla promozione
umana non è quindi un momento separato dalla
missione –come di solito si fa-: ne è parte
intrinseca ed integrante. C’ è un modo
proprio dell’ attività diocesana che deve
sapersi confrontare con i problemi dell’
uomo ed illuminarli; c’ è uno stile
‘coerente’ che deve qualificare e
contraddistinguere la sua presenza e la sua
azione nella storia; così come c’ è uno
specifico suo apporto.
Il suo atteggiamento, nei
confronti di ciò che viene normalmente
definito profano, è positivo. Il primato del
‘cristiano’ si afferma non nella
contrapposizione al ‘profano’, ma secondo
quei principi che il Concilio Vaticano II ha
proposto: purificare il bene che esiste in
ogni cosa; consolidare l’ autonomia di chi
lo propone, senza strumentalizzazioni;
elevare tutto ad una prospettiva cristiana
che non perda di vista il messaggio
evangelico.
Ma tutto questo non può
avvenire senza l’ ascolto. L’ ascolto
autentico risiede nel fatto che si è pronti
a valutare tutte le critiche che
vengono dall’ esterno, senza credere di
‘stare nella verità’. Il cristiano è uno che
critica. Lo fa nel senso etimologico del
termine: criticare in greco significa
vagliare, valutare, passare al setaccio,
tenere ciò che è buono, ciò che merita di
essere conservato e buttare ciò che non
merita. E questo lavoro di valutazione costa
sacrificio. Tendenzialmente siamo tutti
conservatori e anche qui è una questione di
paura. Preferiamo confrontarci con il già
saputo o con chi approverà le nostre idee
piuttosto che metterci a vagliare. Il già
saputo ci conforta e ci rassicura, il lavoro
di critica ci spaventa.
Non sempre le cose vanno
secondo schemi prefissati. In effetti,
diceva qualcuno: “Non bisogna fidarsi troppo
neppure dei detti degli antichi, delle
favole o dei proverbi”. Io invece cito il
proverbio: “Per imparare a nuotare bisogna
buttarsi in acqua”. Qualcuno impara, ma
tanti affondano. Morale: e’ meglio tenere d’
occhio la realtà.
Il cristiano autentico
vuole la perfezione e ha in sé il sogno per
crearla, perché l’ ha incontrata e
conosciuta in Gesù.
Gianni Giletta