La coerenza
del vangelo
In ogni tempo, camminare con il povero
significa scoprire una forza nuova che non
viene né dai libri, né dagli studi, né dal
bisogno di provare qualcosa.
In ogni momento, camminare nella storia
significa essere consapevoli che il senso di
legalità e di giustizia non viene da una
certa generosità naturale o dal bisogno di
crescere, né dal desiderio di salvare il
mondo. Per alcuni, che chiameremo credenti,
viene direttamente da Dio. Don Peppino Diana
era uno di questi.
Ci sono molte
forze che si oppongono alla crescita
integrale dell’ uomo, che cercano di
separare, di spezzare. In quel momento,
aumenta la spirale di violenza, si innesca,
involontariamente -o meno-, una illogica
lotta dell’ uomo contro l’ altro uomo. In
quel preciso istante, tutto degrada.
Ci sono molte
forze di seduzione che tendono a
parcellizzare una persona, impedendole di
crescere. Esse sono nemiche della verità.
Con la menzogna difendono il loro potere, la
loro avarizia, le loro ricchezze male
acquisite. Esse costruiscono barriere che
spingono alla violenza, al conflitto e alla
vendetta. Esse mettono alcune persone sul
piedistallo, creando una sorta di elite che
schiaccia tutti gli altri.
A tali forze
si era opposto don Peppino Diana.
Innanzitutto con la Lettera di Natale del
1991 -di cui riporto di seguito alcuni
stralci-, diffusa in tutte le chiese di
Casal di Principe: un vero manifesto del suo
impegno di sacerdote contro la camorra.
La
camorra -affermava don Diana-
“riempie
un vuoto di potere dello Stato che nelle
amministrazioni periferiche é caratterizzato
da corruzione, lungaggini e favoritismi. La
Camorra rappresenta uno Stato deviante
parallelo rispetto a quello ufficiale, privo
però di burocrazia e d’intermediari che sono
la piaga dello Stato legale. L’inefficienza
delle politiche occupazionali, della sanità,
ecc; non possono che creare sfiducia negli
abitanti dei nostri paesi; un preoccupato
senso di rischio che si va facendo più forte
ogni giorno che passa, l’inadeguata tutela
dei legittimi interessi e diritti dei liberi
cittadini; le carenze anche della nostra
azione pastorale ci devono convincere che
l’Azione di tutta la Chiesa deve farsi più
tagliente e meno neutrale per permettere
alle parrocchie di riscoprire quegli spazi
per una ‘ministerialità’ di liberazione, di
promozione umana e di servizio. Forse le
nostre comunità avranno bisogno di nuovi
modelli di comportamento: certamente di
realtà, di testimonianze, di esempi, per
essere credibili”.
Da qui il
suo sempre attuale appello:
“Le
nostre Chiese hanno, oggi, urgente bisogno
di indicazioni articolate per impostare
coraggiosi piani pastorali, aderenti alla
nuova realtà; in particolare dovranno farsi
promotrici di serie analisi sul piano
culturale, politico ed economico
coinvolgendo in ciò gli intellettuali finora
troppo assenti da queste piaghe. Ai preti
nostri pastori e confratelli chiediamo di
parlare chiaro nelle omelie ed in tutte
quelle occasioni in cui si richiede una
testimonianza coraggiosa; Alla Chiesa che
non rinunci al suo ruolo ‘profetico’
affinché gli strumenti della denuncia e
dell’annuncio si concretizzino nella
capacità di produrre nuova coscienza nel
segno della giustizia, della solidarietà,
dei valori etici e civili (Lam. 3,17-26).
Tra qualche anno, non vorremmo batterci il
petto colpevoli e dire con Geremia: Siamo
rimasti lontani dalla pace… abbiamo
dimenticato il benessere… La continua
esperienza del nostro incerto vagare, in
alto ed in basso,… dal nostro penoso
disorientamento circa quello che bisogna
decidere e fare… sono come assenzio e
veleno”.
Il 19 marzo 1994 don Peppino
Diana viene assassinato nella sacrestia
della chiesa di San Nicola di Bari in Casal
di Principe. Due killer lo affrontano a viso
scoperto e lo freddano con una pistola
calibro 7.65. I quattro proiettili vanno
tutti a segno, due alla testa, uno in faccia
e uno alla mano. Don Peppino muore
all'istante.
Don Peppe
-così lo chiamavano gli amici più intimi- è
vissuto negli anni del dominio assoluto del
Clan dei Casalesi, legato principalmente al
boss Francesco Schiamone, detto Sandokan. Il
barbaro omicidio, dicono gli atti
processuali, maturò in un momento di crisi
della camorra dei Casalesi. L’ indignazione
fu tale che all'omicidio di don Peppe
-personaggio molto esposto sul fronte
antimafia-, seguì la prima autentica
repressione dello Stato contro i suoi
barbari mandanti ed esecutori.
Nel corso degli anni, però, a
più riprese, si è cercato di infangare il
nome di questo prete di frontiera. “Accuse
inverosimili, risibili, per non farne un
martire, non diffondere i suoi scritti, non
mostrarlo come vittima della camorra ma come
un soldato dei clan. Appena muori in terra
di camorra, l'innocenza è un'ipotesi
lontana, l'ultima possibile. Sei colpevole
sino a prova contraria. Persino quando ti
ammazzano, basta un sospetto, una voce
diffamatoria, che le agenzie di stampa non
battono neanche la notizia dell'esecuzione.
Così distruggere l'immagine di don Peppino
Diana è stata una strategia fondamentale.
Don Diana era un camorrista titolò il
Corriere di Caserta.
Pochi giorni dopo un altro
titolo diffamatorio: Don Diana a letto
con due donne. Il messaggio era chiaro:
nessuno è veramente schierato contro il
sistema. Chi lo fa ha sempre un interesse
personale, una bega, una questione privata
avvolta nello stesso lerciume. Don Peppino
fu difeso da pochi cronisti coraggiosi, da
Raffaele Sardo a Conchita Sannino, da
Rosaria Capacchione, Gigi Di Fiore, Enzo
Palmesano e pochi altri”( SAVIANO R., Don
Peppino, eroe in tonaca ucciso dal sistema
dei clan, Repubblica ,18 marzo
2009).
Ed
ancora, è di questi giorni un attacco
passato quasi inosservato da parte di
Gaetano Pecorella -presidente della
commissione Ecomafie-, che in una
intervista al giornalista Nello Crocchia,
per il sito Articolo 21, dichiara: “Io
dico che tra i moventi indicati, agli atti
del processo, ce ne sono tra i più diversi.
Nel processo qualcuno ha parlato di una
vendetta per gelosia, altri hanno riferito
che sarebbe stato ucciso perché si volevano
deviare le indagini che erano in corso su un
altro gruppo criminale. E altri hanno
riferito anche il fatto che conservasse le
armi del clan. Nessuno ha mai detto perché è
avvenuto questo omicidio, visto che non
c'erano precedenti per ricostruire i fatti.
Se uno conosce le carte del processo,
conosce che ci sono indicate da diverse
fonti, diversi moventi”.
Eppure dalle
carte del processo è tutto chiaro. Anche la
sentenza della Corte di Cassazione del 4
marzo 2004 conferma che Don Peppe è stato
ucciso per il suo impegno antimafia; che De
Falco ( di cui l’ Onorevole ha assunto la
difesa ) ha ordinato l'uccisione di Don
Peppe per dimostrare, uccidendo un
‘antagonista’ in tonaca, che il suo gruppo
era più coraggioso di quello di Sandokan.
I ‘moventi’
furono -e lo dimostrano le sentenze-, delle
calunnie che alcuni camorristi portarono per
lungo tempo in sede processuale per
discolparsi. Calunnie nate dal fatto che
persino loro cercavano di lavarsi le mani
del sangue innocente che avevano versato.
I fatti e la vita di don Peppe parlano da
soli. Senza fraintendimenti. Per don
Peppino, il cristianesimo si presentava con
un volto così attraente, comprensivo nei
confronti dell’ incredulità, tale da
rifiutare ogni incertezza di fronte al
crimine organizzato. Le sue parole dure
contro la camorra conservano tutt’ oggi un
sigillo di autenticità.
I suoi non
erano di certo dei modi autoritari, di chi
si sente autorizzato a ‘sputare sentenze’
dai pulpiti e non si china sul dolore.
Inchiniamoci invece al coraggio, che mai
come in questo caso è coraggio di fare il
proprio dovere, di sfidare l’ ironia e i
sorrisetti di commiserazione. Coraggio di
fronte alla vita, coraggio di accettare la
vita. E la morte.
Don Peppe ha
visto lontano. Il peso del contesto sociale
in cui viveva è divenuto preponderante,
certamente più di quello della progettualità
e delle regole. E dal momento che anche le
istituzioni locali faticavano a mettere in
atto azioni di lunga durata, egli non tardò
ad innescare un’ azione di reazione efficace
e organica.
Egli capì,
fin dall’ inizio, che era il territorio
stesso, attraverso i segni che portava
incisi, a farsi estraneo, veicolo di un
diffuso e generico senso di insicurezza e di
vuoto. Un disagio che però prendeva a
tradursi in vera percezione del pericolo, in
allarme per la sicurezza e che, in Casal di
Principe e paesi limitrofi, sfociava nell’
uso pericoloso della cosa pubblica, in
aggressioni, esercizio della violenza
strutturata, criminalizzarsi del caos.
L’ uso
pericoloso del territorio, innanzitutto: se
il caos che caratterizza un territorio è già
percepito in sé come potenziale pericolo per
la sicurezza degli abitanti, tale sensazione
risulta intensificarsi di fronte alla
consapevolezza dell’ esistenza di attività
camorristiche capaci di mettere a rischio l’
incolumità fisica, tanto di chi vi
partecipa quanto dei cittadini non
direttamente coinvolti in esse.
In secondo
luogo, il caos, che si esprime in potere
trasversale sulle cose, risulta sempre
passibile di trasformarsi in violenza sulle
persone, sui cittadini costretti a vivere
nel territorio, prendendo così la forma di
vere e proprie aggressioni ed esecuzioni.
Di qui l’ impotenza di fronte ai clan
malavitosi che prendono a strutturarsi e
organizzarsi, orientandosi su obiettivi che
non sono più casuali, ma premeditati e
consapevolmente perseguiti.
La violenza
su cose e persone si focalizza, così, su un
obiettivo unico: il controllo del
territorio. Il conflitto si fa personale,
coinvolge un gruppo che esercita la
violenza e chi, impotente di fronte agli
abusi, la subisce. A volte si tratta di un
atto punitivo e della vendetta di un clan;
il più delle volte di violenza insensata che
si trasforma in conflitto vero e proprio tra
clan antagonisti.
Questo era il
clima in cui andava ad inserirsi l’ azione
pastorale di don Peppino Diana. La sua
figura carismatica lo rese da subito
scomodo.
Egli esercitò
la sua ‘autorità’ con jeans e maglietta,
allo scoperto: accogliente nei confronti di
coloro con cui visse ogni giorno, fiero di
una vulnerabilità che tutt’ oggi non è
facile da accettare.
Se preghiamo
perché il Regno venga, possiamo farlo solo
come uomini che poggiano con ambedue i piedi
sulla terra. E don Peppe questo lo sapeva,
perchè “chi cerca di sfuggire alla terra non
trova Dio, trova solo un altro mondo, il suo
mondo, più buono, più bello, più tranquillo,
un mondo ai margini, ma non il Regno di Dio,
che comincia in questo mondo. Chi fugge la
terra per trovare Dio, trova solo se stesso”
( BONHOEFFER D., Venga il tuo regno,
Brescia, ed. Queriniana, 1988, pag. 28 ).
Dalle
testimonianze che lo ricordano, si deduce
una capacità di ascoltare e di relativizzare
le proprie vedute a favore dei suoi
interlocutori, personalità matura, libertà
interiore, rinuncia alla tentazione di
essere liberi battitori, volontà di fare
spazio agli uomini del suoi tempo e ai loro
talenti, concreto amore per la sua Chiesa.
Tutti
conosciamo dei casi penosissimi d’ infedeltà
in atto, palese o no. Don Peppe rimase
fedele, senza sfogarsi in querimonie e
rimproveri. La madre ama il figlio a
dispetto di tutto; la madre non divorzia dal
suo figlio. Ed egli amò il suo popolo,
‘senza poter tacere’ davanti all’
oppressione. Sono parole pregne di eroismo
le sue.
Il coniuge
fedele occorre che s’ immedesimi in quest’
amore perseverante, istancabile, se vuole
corrispondere a ciò che Dio attende da lui,
se vuole, per quanto dipende da lui, salvare
la sua famiglia. Ciò che è vero in
famiglia, è vero a qualsiasi livello di vita
sociale.
L’ uomo
attende dall’ altro uomo qualcosa di diverso
dal denaro. E se quest’ altro uomo è un
prete, l’ uomo attende che questi gli si
fermi vicino, che prenda contatto con lui,
che si accorga ch’ egli esiste e che ogni
tanto glielo dica. Nulla è così
incoraggiante, come l’ attenzione sempre
vigile, il rispetto non puramente formale,
l’ inattesa parola di congratulazione, che
siano espressioni di una realtà di vita
vissuta in coerenza con il Vangelo e non
vuote formule di rito, o da discorso
accademico scopiazzato, all’ ultimo minuto,
da riviste ad hoc.
Per
concludere, mi piace ricordare ciò che dice
Vittorino Andreoli a riguardo del ‘prete
come uomo della speranza’ –e mi sembra calzi
a pennello con la figura di don Peppino
Diana- : “Molto significativo è per un
cristiano il profilo del sacerdote come
colui che può rimettere i peccati, ma
collegato a questo ancor più significativo
mi appare il profilo di uomo della speranza.
Colui che sa indicare al disperato la fonte
del futuro che non è una parola vuota, ma
realtà che il sacerdote vive, poiché lui è
l’incarnazione della speranza. Quando un mio
paziente esprime paura, spesso senza parole
poiché si fa attonito, statua pietrificata
dal terrore, io non spiego cosa è la paura e
attraverso quali meccanismi e dinamiche si
attivi, ma lo stringo a me, gli prendo la
mano e gli dico che anch’io ho avuto paura,
che anch’io sono fragile e consideri che ora
sono con lui per affrontarla e possibilmente
risolverla. Non posso fare di più, non sono
io capace di gesti liturgici che mi
permetterebbero di veicolare la grande
speranza. Ma il sacerdote sì può, e in
questo egli è più dotato di me.
Un uomo
spaventato, sottomesso alla tecnologia,
ansioso di successo, piegato dal timore di
essere un "signor nessuno" sul piano dei
ruoli sociali: ecco da una parte l’angoscia
della frustrazione e dall’altra la voglia di
visibilità. Perché c’è una morte sociale,
quella dell’irrilevanza, che oggi è più
sentita addirittura dell’altra morte, quella
fisica. Perché quella dell’irrilevanza la si
esperimenta ogni momento, è una morte che
sembra continuamente annunciata. E quella
che la riguarda, è l’unica agonia oggi
ancora percepita. Mentre l’agonia reale,
ossia la fine della propria esperienza
terrena, si può fingere di dimenticarla,
fingere che non ci sia.
Dicevamo del
bisogno di speranza. Il sacerdote è l’ uomo
della speranza […]. Qui si recupera in tutta
la sua essenzialità il significato di
legame, di cui dicevamo all’inizio. Non
certo un mettersi insieme per vezzo, o per
le piccole speranze sociali, ma un unirsi
del sacerdote all’umanità di oggi, mettendo
al centro la speranza, la grande speranza,
quella che almeno un poco sa calmare la
paura, la paura per quel senso ulteriore
della vita che non è facile trovare. Ebbene,
questo senso arduo da reperire lo si può
intravedere in chi, come il sacerdote, sa
dare fiducia all’interno di un rapporto
disinteressato sul piano terreno ma
interessato invece su quello del cielo. Ed è
proprio lì che la grande speranza si compie:
sulla terra invece si reperiscono al massimo
soluzioni per le piccole speranze” (
ANDREOLI V., I preti e noi: l’ uomo della
speranza, Avvenire , 23 aprile
2008 ).
Gianni Giletta