Quella notte nessuno di noi dormì, in attesa del
grande giorno. Da una settimana stavamo
preparando la grande esplorazione, trascinati
dai racconti di Gino Taccogna, scapolo,il più
anziano della compagnia, titolare “nel tempo
libero” di un negozio di articoli ed impianti
elettrici, ma in realtà coinvolto a tempo pieno
in mille hobby che costringevano i suoi clienti
ad attese di giorni e giorni per ottenere la sua
opera di elettricista. Il negozio, un tempo di
fronte a casa mia, era il nostro punto di
ritrovo e un giorno Gino ci aveva raccontato di
aver visto delle grotte meravigliose, forse
belle quanto quelle di Castellana. Affascinati
dall’avventura, avevamo deciso di accettare il
suo invito per condividere con lui un “giro” in
quelle grotte. La cosa doveva restare ammantata
da un patto di segretezza e di mistero e così,
come carbonari,ci munimmo di quanto ritenevamo
necessario: un casco, una tuta, poche corde e
alcune torce. Il coraggio e la follia facevano
già parte del nostro bagaglio giovanile.
La mattina,senza che alcuno di noi avesse
avvertito i propri genitori sulla destinazione
della “spedizione”, partimmo con direzione
Cusano Mutri. Nella mia vecchia 600 scolorita
c’ero io, Gabriele Fasano e Guido Viola. Con la
vecchia Renault 4 di Gino Taccogna, di colore
ormai indefinito, c’erano Celestino Rubino e
Guido
Vivenzio.
Grotta di Monte Cigno – Cusano Mutri – 3
settembre 1968
All’uscita : Gino Viola, Aldo Maturo, Celestino
Rubino, Gabriele Fasano e Guido Vivenzio
Lasciataci Cerreto alle spalle,dopo alcuni
tornanti entrammo nella valle di Cusano Mutri,
bella,romantica, affossata fra il Mutri e la
catena dei monti Erebiani, già sede, si diceva,
di un gran lago, come si poteva intuire dai
pesci pietrificati che vi si trovavano, gli
strati arenosi delle sue terre emergenti verso
Pietraroia e la stratificazione uniforme dei
monti che fiancheggiano il Titerno verso
Cerreto.
Ad un certo punto Gino Taccogna accostò
in uno slargo e io mi accodai dietro di lui,
alla meglio. Scendemmo, inebriati dalla
frizzante aria del primo mattino ed affascinati
dallo spettacolo che si godeva dall’alto del
ponte, tanti metri più giù, dove la limpida
acqua del Titerno, con il suo scorrere perenne,
aveva roso la roccia creandosi il percorso verso
valle, fra cento cascate e cespugli.
Indossammo le tute, caricammo la
dotazione personale, e seguimmo Gino Taccogna,
“la guida”, che aveva cominciato ad inerpicarsi
verso la cima del monte con l’agilità di uno
scoiattolo. La scalata, ripidissima, veniva
interrotta ogni tanto dalle battute e dalle
imprecazioni irripetibili di Celestino e di
Gabriele Fasano, oltre che mie, poco avvezzi ad
inerpicarci in percorsi da stambecco e già
“pentiti” dell’avventura.
Finalmente raggiungemmo Gino, che era
giunto alla meta e dall’alto,con aria sorniona,
ci osservava mentre, imprecando, arrancavamo
verso di lui.
Da quell’altezza si spaziava
liberamente godendo di un panorama favoloso,reso
più splendido da un cielo terso costellato da
batuffoli di nuvole. Gino Taccogna ci richiamò
alla realtà e noi ci rigirammo cercando con gli
occhi l’ingresso della spelonca donde iniziare
l’esplorazione. Fu grande lo sconcerto quando
ci indicò un anfratto nella roccia, coperto dai
rovi. “Si entra da lì” ci disse, con aria
sorniona. Ci guardammo,increduli, tutti avremmo
voluto tornare indietro, tutti lo
pensammo,nessuno lo disse, tranne i nostri
occhi.
Gino Taccogna allargò i rovi e
strisciando a terra come una lucertola, si
infilò in quel buco a forma piramidale, largo
sui 60-70 cm ed alto altrettanto. Lo seguimmo
strisciando, in fila, uno dietro l’altro, “senza
fretta e senza spingere”, chiedendo ogni volta a
chi “scompariva” dai nostri occhi “ Oh, come
va?”, quasi a tranquillizzare il cuore che
accelerava i battiti in attesa dell’immersione
rupestre.
L’ ”ingresso” era lungo circa tre
metri, e si procedeva carponi, pancia a
terra,avanzando con gli avambracci, zigzagando e
scivolando sulla pancia, con la torcia in
bocca, perchè le mani servivano ad arpionare il
terreno per tirarsi avanti.
All’improvviso entrammo nella prima
grotta, grande ma bassa, tanto che riuscivamo a
stare solo seduti. La guardammo, piena di fango,
mentre i fasci di luce delle torce si
incrociavano alla ricerca di particolari di
cui,onestamente, ci sfuggiva la bellezza. Gino
ci preparò alla seconda fase. Ci fece legare con
una corda l’uno agli altri e ci precedette,
infilandosi in un foro a metà della parete più
alta donde, sempre scivolando come in un
percorso di guerra, saremmo giunti ad un’altra
grotta.
Il trapasso dall’una all’altra grotta,
attraverso quel by-pass buio e informe, fu
interrotto dalle imprecazioni (eufemismo) di
Gino Viola, leggermente “sovrappeso”, che a un
certo punto restò incastrato nel cunicolo e non
riusciva a procedere nè ad indietreggiare, cosa
che, pur volendo,non avrebbe potuto fare, perchè
dietro c’eravamo noi, in “cordata” orizzontale.
Grotta di Monte Cigno – Cusano Mutri – 3
settembre 1968
Gino Taccogna, Aldo Maturo, Gabriele Fasano e
Celestino Rubino
Avremmo dovuto piangere, invece
ridemmo, ridemmo,quanto era possibile farlo pur
stando al buio,col fango fino alle labbra,la
torcia penzolante in bocca,l’incoscienza dei
folli.
Finalmente, spingendo e tirando, sbloccammo il
nostro amico,facilitati dal fatto che
scivolavamo sul fango, ed entrammo nella seconda
grotta. Era immensa,gigantesca,bellissima, piena
di stalattiti e stalagmiti. Ce la godemmo
tutta,facendoci anche una foto ricordo, mentre
decine di pipistrelli svolazzavano sul soffitto,
impazziti e disturbati dai fasci di luce delle
nostre torce.
Dopo una breve sosta, riprendemmo
l’esplorazione, questa volta ad altezza d’uomo,
scoprendo, come in un puzzle, grotte sempre più
belle, fino a sbucare su una roccia rimasta
incastonata a metà fra due pareti rocciose,
megagranello di sabbia in una fenditura a
clessidra di altezza imprecisata perchè il buio,
oltre i nostri piccoli fasci di luce, non ci
consentiva alcuna valutazione metrica.
Spazzolando i dintorni con le torce, a circa 100
metri sotto di noi,rischiarammo laggiù in fondo
un lago bellissimo,con una acqua che ci parve
verde smeraldo, immenso ed incastonato nelle
rocce a strapiombo.
Tornammo indietro e visitammo altre due
grotte, tutte con le stesse caratteristiche
morfologiche. Erano belle, ma in cuor mio mi
chiesi se Gino Taccogna fosse mai stato a
Castellana!
Finalmente il team decise di far
rientro alla base e così ripercorremmo a ritroso
tutto il percorso. Questa volta Gino Viola,
forse già smagrito dall’avventura, riuscì a
passare nel solito cunicolo senza “incepparsi”.
Il ritorno alla luce del sole fu una
delle sensazioni più belle che io abbia mai
vissuto. Quando anche l’ultimo lasciò alle
spalle l’anfratto facendosi largo fra i rovi,
scoppiammo a ridere,a congratularci con noi
stessi, a darci delle gran paccate fino a
festeggiare l’evento con una foto ricordo. La
scattammo con la mia inseparabile macchinetta
fotografica, una Comet II che, a guardare i
risultati, fece miracoli, ridotta ormai a un
grumo di fanghiglia.
Gabriele Fasano, recuperata la saggezza
prima degli altri, ricordò a tutti noi – che non
volevamo confessarlo pur avendolo pensato -
che, se fosse successo qualcosa, mai ci
avrebbero ritrovato. Sei ragazzi sarebbero stati
dati per scomparsi nel nulla. Nessuno ci
avrebbe cercato lassù e comunque mai in quel
foro d’ingresso da tana di volpe. E per sempre
sarebbe rimasto il mistero di due macchine
vuote,ai margini della strada,in un giorno
d’autunno.
Con la gioia per lo scampato pericolo,
la discesa verso le auto fu fatta in pochi
minuti, quasi tutta col fondo schiena,
insensibili alle spine, ai rovi,agli spuntoni di
roccia,alla fame, orgogliosi per l’avventura ma
ancor più felici per essere ritornati alla luce,
dopo aver trascorso otto ore nella pancia del
Monte Cigno. Erano le quattro, le quattro di un
favoloso pomeriggio di un indimenticabile 3
settembre 1968. |