Marco Berlinguer,
42 anni, romano ma «legato alla
Sardegna», impegnato in Rifondazione
e nel progetto di ricerca «Transform!
Italia», è l' unico figlio maschio
di Enrico. Un' eredità che si legge
negli occhi, e nella riservatezza.
Berlinguer, lei non ha mai
dato un' intervista a un giornale o
a una tv. Perché? «Per
carattere e per esperienza
di vita, un po' assediata dalla
curiosità pubblica. Amo la politica.
Non amo la comunicazione politica».
Voterà alle primarie? «Certo. Il
voto a Bertinotti è i
l tentativo di dare un' espressione
politica a un' area più vasta di
quella di Rifondazione». Quando l'
ha conosciuto? «Alla fine degli anni
Ottanta, nella sezione del Pci di
Ponte Milvio. Poi, quando costituì
"Essere sindacato", la minoranza di
sinistra all' interno della Cgil,
gli feci un' intervista per
Avvenimenti ». Quelli che ora lo
chiamano "parolaio" dicono che da
sindacalista non abbia mai firmato
un contratto. «Al contrario: credo
che Bertinotti abbia
dimostrato la capacità di prendere
decisioni, di assumersi
responsabilità difficili, senza
rinunciare a una grande idealità».
Quando l' ha seguito in
Rifondazione? «Nel 1995, al tempo
della prima scissione. C' era il
governo Dini, Crucianelli e i
comunisti unitari passarono nei Ds.
Avvertii il desiderio di aiutare
quell' esperienza in difficoltà. Ho
pensato che Bertinotti
fosse la persona più indicata a
guidarla». Perché? «Perché non l'
avrebbe vissuta come difesa di un'
identità, conservazione di un'
esperienza passata, ma come ricerca
di un nuovo modo di fare politica,
di trasformare la società». I Ds non
l' hanno mai interessata? «È
inevitabile interessarsi alle scelte
di una parte importante della
sinistra. Che però non mi hanno mai
convinto». Ha condiviso anche la
rottura con Prodi e il
centrosinistra? «Sì. Ho avuto dubbi
sul modo. Non credo sia stata capita
da molti la natura della posta in
gioco: in quel momento c' era a
sinistra un dissenso di fondo sulla
valutazione della fase che si andava
profilando nel paese e nei rapporti
internazionali. Però era divenuta
una strada obbligata, e non per
gli errori di Rifondazione ma
per le chiusure del
centrosinistra. Fu una scelta dura,
eppure preziosa per
Rifondazione e per la
stessa democrazia». Nessuna
tentazione di seguire i Comunisti
italiani? «No. Ho sofferto in quei
giorni. C' è stato anche chi ha
gioito; non io. Ma su
questo non ho avuto dubbi». Poi il
governo di sinistra partecipò alla
guerra del Kosovo. «Fu uno strappo
rispetto ai principi della nostra
Costituzione e alla cultura
pacifista, che grazie al cielo non è
solo della sinistra. L' impiego
dell' Alleanza Atlantica in uno
scenario di guerra ha segnato un
ripensamento della dottrina della
Nato e ha aperto lo scenario
inquietante degli interventi
militari al di fuori dei confini
dell' Alleanza e non a scopo
difensivo. E senza un mandato delle
Nazioni Unite. Questo ha
rappresentato un precedente. Una
rottura del diritto internazionale.
Un cambio profondo di scenario, che
fu compreso da Rifondazione». Ora è
possibile che Rifondazione stringa
un patto con il centrosinistra ed
entri in un governo destinato a
durare? «Viviamo un' epoca diversa.
La priorità è sconfiggere queste
destre. E credo si possano trovare
punti di convergenza. La cosa più
importante è aprire il sistema
politico alle spinte che vengono dai
movimenti». Lo strumento delle
primarie la convince? «No, se sono
concepite come una forma di delega,
se serviranno a investire una
persona di una responsabilità
insindacabile. Sì, se sono concepite
come apertura alla partecipazione
diretta dei cittadini, al di là
degli stessi partiti, alla battaglia
delle idee e alle decisioni
politiche. A posteriori bisognerà
verificare se avranno funzionato. Se
ad esempio alle primarie votassero
molti giovani precari,
Bertinotti avrebbe un
importante risultato; e un
Bertinotti più forte aprirebbe
prospettive nuove. Certo, bisognerà
valutare se ripetere l' esperimento
e in questo caso serviranno regole
precise, in modo che si aprano spazi
anche per le forze meno
organizzate». Spazi sui media a
Bertinotti non mancano. Lo si
accusa di andare troppo da Vespa e
nei salotti tv. «Queste sono
polemiche speciose. Un leader oggi
non può sottrarsi alla politica
mediatica. Purtroppo». Lei chi
guarda in tv? «In questo momento non
ho la tv in casa. Però mi piace
seguire lo sport e i programmi di
storia e geografia politica. Non
quelli di intrattenimento».
Bertinotti è ora scavalcato a
sinistra. Dai cossuttiani, in nome
dell' ortodossia. Dai Disobbedienti,
in nome del movimentismo. «Rispetto
che una parte dei Disobbedienti
abbia espresso una candidatura, mi
piace il fatto che ricorrano allo
strumento delle primarie
interpretandolo non come delega ma
come bisogno di un' altra politica.
È difficile ora trovare forme di
convergenza delle rappresentanze,
però sarebbe necessario. La
candidatura di Fausto rappresenta
una possibilità. Mi rammarico che
non tutti l' abbiano colta; penso
anche al Manifesto, un' area
politica che poteva essere parte di
questa battaglia ma ha preferito
prendere un atteggiamento neutrale.
Stavolta ho voluto esprimere la mia
opinione proprio perché alcuni che
potevano dare una mano non la stanno
dando». Qualcuno nel movimento non
si riconosce nella vostra linea
nonviolenta, e magari rimpiange gli
Anni Settanta? «Pericoli di un
collasso della società che può
generare forme di violenza ce ne
sono, ma non nella forma di una
riproposizione degli Anni Settanta.
Se i poteri che guidano le società
continueranno sulla strada della
militarizzazione dei rapporti, dell'
autoritarismo, allora è possibile
che si ripeta in contesti diversi
quel che accade in alcuni paesi
arabi, dove la mancanza di uno
sbocco politico alimenta fenomeni di
fanatismo irrazionale. Siamo
avviluppati nella spirale
guerra-terrorismo. Chi la denuncia
viene tacciato di antiamericanismo.
Ma non è così. Il movimento contro
la guerra è globale, e unisce
europei e americani». Bertinotti
è talora critico con Castro. I
cossuttiani lo difendono. Lei? «Sono
d' accordo con Fausto. A Cuba c' è
stata una vera rivoluzione popolare,
che ha portato a conquiste
importanti. Ma la sfida del mondo di
oggi è creare nuove forme di
democrazia, più avanzate delle
esperienze del passato. E questa
sfida riguarda anche Cuba». Qual è
il senso di dirsi oggi comunista?
Bertinotti lo è? E lei,
Berlinguer? «Bertinotti
è comunista nel modo in cui si può
provare a esserlo in questa fase
storica. Un ciclo si è concluso. È
possibile riaprirne uno nuovo.
Essere comunista significa
recuperare una radicalità nella
critica alla società contemporanea e
nella volontà di trasformarla.
Essere comunista per me
vuol dire mettersi con umiltà al
servizio di questa chance». Ci sarà
posto anche per Marx? Lei
l' ha letto? «Certo. Marx resta il
più importante pensatore politico
della modernità. Non un profeta. Ha
ispirato le esperienze più varie,
alcune anche terribili. Ma è un
patrimonio della nostra cultura».
Corriere della sera sabato 8 ottobre
Cazzullo Aldo |