La violenza, intesa come fenomeno particolare,
legato al comportamento individuale (ad esempio,
il teppismo giovanile).
Una paurosa spirale di morte e distruzione sta
avvolgendo l’intera umanità, senza risparmiare
alcun popolo: è la spirale “guerra-terrorismo”
così come è stata convenzionalmente definita.
Tuttavia, tale apparente dicotomia non
costituisce e non offre un’effettiva alternativa
tra due differenti opzioni, ma al contrario si
tratta di due facce della stessa medaglia. E’ un
mostruoso parto gemellare generato dal medesimo
sistema che ha bisogno della violenza
organizzata in varie forme, per rigenerarsi,
ricostituirsi e perpetuarsi all’infinito.
Nelle giornate di Luglio, a quattro anni di
distanza dal 2001, sono state rievocate le
drammatiche giornate di Genova, segnate dalle
terribili violenze della repressione poliziesca,
dall’assalto alla scuola Diaz, dalle torture nel
carcere di Bolzaneto, dall’assassinio di Carlo
Giuliani, ecc.
Certo, bisogna rammentare anche le violenze dei
black-bloc (e su tali vicende bisognerebbe far
luce, dato che ancora sussistono molte zone
d’ombra, tanti misteri e lati oscuri), violenze
che sono anch’esse un parto degenere di un
sistema sempre più marcio, putrido ed
incancrenito, capace di produrre in quantità
industriale soprattutto “merci” come la
violenza, l’odio e la distruzione, nella misura
in cui ne ha bisogno come l’aria che respiriamo,
per poter giustificare la sua esistenza.
Insomma, tutte queste vicende sono strettamente
legate da un denominatore comune: la violenza.
Su tale argomento varrebbe la pena di spendere
qualche parola per avviare un ragionamento
storico, critico e politico il più possibile
serio e rigoroso. Io voglio provarci, partendo
ovviamente dal mio punto di vista e avvalendomi
delle mie capacità analitiche, delle mie
conoscenze ed esperienze.
La violenza, intesa come comportamento
individuale, ha senza dubbio un fondamento più
profondo e complesso, insito nella struttura
sociale. Ad esempio, nella realtà delle società
capitaliste, la violenza del singolo, la
ribellione giovanile apparentemente priva di
cause, l’alienazione, la follia, il vandalismo,
oppure il teppismo negli stadi di calcio (o ad
una manifestazione), la criminalità comune, la
perversione di quei soggetti qualificati come
“mostri”, sono sempre il frutto (marcio)
generato da una formazione sociale che ha
bisogno di produrre odio e violenza; sono la
manifestazione di un contesto storico-sociale
che, per sua natura, crea conflittualità,
contribuendo alla depravazione dell’animo umano
che in tal modo viene ad essere intimamente
condizionato dall’ambiente esterno. Dunque la
violenza non è una questione di malvagità o
perversione individuale, ma è un problema
sociale, ovvero costituisce la facciata
esteriore e fenomenica dietro cui si camuffa la
violenza organizzata della società, è lo strato
superficiale sotto cui giace, si espande e si
incancrenisce la corruzione dell’ordine
costituito.
In effetti è alquanto difficile determinare e
concepire la violenza come un comportamento
naturale, etologico, immutabile, dell’essere
umano, in quanto è la natura stessa
dell’ordinamento sociale, il vero principio che
genera i cosiddetti “mostri”, i criminali, i
violenti in quanto singoli individui, che sono
spesso quei soggetti più labili e vulnerabili
sotto il profilo psichico ed emotivo.
La visione che attribuisce alla “cattiveria
umana” la causa dei mali e dei problemi del
mondo, è soltanto un’ingenua e volgare
mistificazione.
Il tema della violenza è talmente vasto, enorme,
complesso, da rivestire un’importanza centrale
nell’ambito dello sviluppo storico dell’intera
umanità.
Sin dalle sue origini l’uomo ha dovuto
immediatamente attrezzarsi per fronteggiare la
violenza esercitata dall’ambiente naturale nel
quale era inserito: il pericolo di aggressione
da parte delle belve feroci, le avversità
atmosferiche, le catastrofi e le sciagure
naturali più terrificanti, quali terremoti,
bradisismi, vulcanismi, frane, incendi ecc., i
suoi bisogni fisiologici da soddisfare, ossia la
fame, la sete, la necessità di procreare e via
discorrendo.
In seguito, con il trascorrere dei secoli,
l’uomo è riuscito a compiere un’immane progresso
tecnologico e materiale che lo ha affrancato dal
suo primitivo asservimento alla natura,
rovesciando, in un certo senso, il rapporto
originario tra l’uomo e l’ambiente. Oggi,
infatti, è soprattutto l’uomo che arreca
violenza alla natura, ma la relazione rischia di
invertirsi nuovamente.
Durante la sua lunga evoluzione culturale e
materiale, l’umanità ha creato e conosciuto
svariate esperienze di violenza: la guerra, la
tirannia, l’ingiustizia sociale, lo
sfruttamento, la fatica quotidiana per la
sopravvivenza, il carcere, la repressione, la
rivoluzione, fino alle forme più rozze ed
elementari come il teppismo, la prepotenza, la
sopraffazione del singolo su un altro singolo.
Tuttavia, tali fenomeni così disparati, pur
nella loro molteplicità e nelle loro apparenti
contraddizioni, si possono ricondurre ad
un’unica matrice storico-causale, vale a dire la
natura intrinsecamente violenta, ingiusta e
disumana della struttura sociale e materiale su
cui si erge l’organizzazione della vita e dei
rapporti umani nel loro incessante divenire
storico.
Il problema fondamentale della violenza nella
storia umana (che è scisso dal tema della
violenza nel mondo preistorico) è costituito
dall’ingiustizia e dalla violenza insite nel
cuore delle società classiste, le quali si
basano sulla divisione sociale dei ruoli
lavorativi e sullo sfruttamento materiale di una
classe sul resto della società.
Solo quando lo sviluppo delle capacità
economico-produttive e tecnologiche della
società, avrà raggiunto un livello tale da
permettere il superamento e l’eliminazione della
ragion d’essere che finora ha giustificato e
determinato lo sfruttamento del lavoro servile e
del lavoro salariato, l’umanità potrà compiere
il grande balzo rivoluzionario che consisterà in
un processo di liberazione dalla violenza
dell’ingiustizia e dello sfruttamento di classe.
Ebbene, è un dato di fatto che tali condizioni,
connesse al progresso tecnico-scientifico ed
alla produzione delle ricchezze sociali, siano
già presenti nella realtà oggettiva, ma sono
mistificate e negate dal persistere di un quadro
(ormai obsoleto) di rapporti di supremazia e
sottomissione tra le classi sociali.
In tal senso, il potere borghese non è mutato, i
suoi rapporti all’interno e all’esterno sono
sempre improntati alla violenza. Esso continua a
reggersi sulla violenza, in modo particolare
sulla forza bruta (legalizzata) di strutture e
di istituzioni repressive quali, ad esempio, il
carcere, la polizia, l’esercito. Nel contempo,
il potere borghese ha imparato ad impiegare
altre forme di controllo sociale, più morbide e
sofisticate, addirittura più efficaci, come la
televisione e i mass-media.
Oggi, infatti, molti Stati borghesi, soprattutto
quelli più avanzati sul versante tecnologico,
vengono gestiti e controllati non solo e non
tanto attraverso i sistemi tradizionali della
violenza legalizzata, cioè esercito e polizia,
quanto soprattutto ricorrendo alla forza
persuasiva ed alienante della televisione e dei
mezzi di comunicazione di massa.
Naturalmente, il discorso sulla violenza non è
per nulla concluso, né può esaurirsi in una
breve riflessione come questa, giacché si tratta
di un tema talmente ampio, controverso e
difficile, da meritare molto più spazio, molto
più tempo, molto più studio e molto più ingegno
di quanto possa fare il sottoscritto.
Per quanto mi riguarda, ho cercato semplicemente
di suscitare e lanciare un input.
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