fonte:
www.corriere.it
Se
la maggior parte dei chiacchieroni e visionari
di Internet può essere ignorata, alcuni
giornalisti stanno cambiando il modo in cui
otteniamo le notizie e discutiamo di politica
Nei giornali e in tv l’informazione diventa
spettacolo? Sulla Rete le notizie circolano
invece rapidissime e «senza filtri». Il popolo
dei Blog, i diari online, resisterà al cinismo e
alla manipolazione politica meglio dei media
tradizionali? È la domanda che si pone lo
scrittore Ian Buruma guardando alla rivolta dei
siti di base, a destra e sinistra In un certo
senso, i giornalisti hanno sempre avuto vita
facile. Tutto ciò di cui hanno bisogno è una
buona dose di energia, curiosità e capacità di
scrivere un pezzo leggibile su richiesta.
L’eleganza dello stile è forse un di più, di
certo una qualità meno importante della capacità
di fornire analisi convincenti e
dell’accuratezza nell’accertare i fatti.
Un
tempo i giornalisti erano, o avrebbero dovuto
essere, professionisti che cercavano di fare
bene il loro lavoro. La loro buona fede
professionale era attestata dalle istituzioni
per le quali lavoravano, che non avrebbero
sopportato di essere prese per bugiarde e
truffatrici. Il prestigio di un giornalista o di
un opinionista di successo dipendeva
dall’imprimatur di un giornale autorevole, e
viceversa. Il pubblico sapeva anche come
andavano le cose in quotidiani e stazioni
radiotelevisive. Nelle società democratiche
liberali, la maggior parte delle aziende era
amministrata alla stregua di imprese commerciali
private. L’orientamento politico dei proprietari
dei mezzi di informazione era noto. Niente di
tutto ciò, tuttavia, aveva importanza finché
sopravviveva una ragionevole dose di fiducia
nella ricerca della verità. I giornalisti, in
altre parole, in quanto membri di una classe
professionale, non erano diversi dagli avvocati
o dai medici. Alcuni, certo, si rivelavano
bugiardi e truffatori come accade in tutte le
professioni, ma i controllori li smascheravano.
Tutto questo sta cambiando. In primo luogo, la
proprietà dei mezzi di informazione è caduta
nelle mani di gigantesche industrie dello
spettacolo. Quindi le nuove tecnologie,
soprattutto Internet, hanno procurato al mondo
dell’informazione un numero praticamente
illimitato di fonti.
I
confini tra notizia e spettacolo si sono
gradualmente assottigliati non solo per quanto
riguarda la televisione, ma anche per la carta
stampata. La trasformazione più rilevante
consiste nel fatto che Internet, con i suoi
milioni di blog personali, ha privatizzato le
notizie, mentre i principali media («Msm» nel
gergo dei blog) sono diventati giganti
corporativi. Le conseguenze della
privatizzazione, anche per gli Msm, sono state
drammatiche. I grandi media hanno imboccato la
strada della cautela e della mitezza. La
compiaciuta certezza di essere parte
dell’establishment non lascia molto spazio a
condotte irresponsabili. Smascherare il volto
del potere è un compito lasciato ai tabloid
popolari o ai giornali satirici. Ora che
chiunque può avere accesso a un pubblico sulla
rete, i blogger sono diventati i principali
oppositori dell’establishment. La maggior parte
dei chiacchieroni, visionari e buffoni di
Internet può tranquillamente essere ignorata,
pochi sono emersi dalla cacofonia per
raggiungere, oltre a centinaia di migliaia di
lettori, lo stesso establishment. Andrew
Sullivan di andrewsullivan.com mi ha
recentemente confidato quanto gli faccia bene
sapere che tutti quelli che contano nella
politica americana passano sul suo sito. Sono
gli scoop a fare la fortuna della blogosfera.
Trent Lott, l’ex leader della maggioranza
repubblicana al Senato, dovette dimettersi nel
2002 perché un blogger di nome Joshua Marshall,
di talkingpointsmemo.com, aveva rivelato il
passato razzista del senatore. Senza
drudgeReport.com di Matt Drudge, il nome di
Monica Lewinsky non sarebbe mai diventato così
familiare.
Ora i blogger hanno iniziato a guardare anche
all’establishment dei grandi media. L’anchorman
della Cbs Dan Rather, un’istituzione del
giornalismo ufficiale, è stato rovinato da
powerline.com che, insieme ad altri, ha rivelato
che i documenti usati da Rather per dimostrare
che George W. Bush aveva aggirato il servizio
militare, erano falsi. Il mese scorso, il
direttore esecutivo delle news della Cnn, Eason
Jordan, è stato costretto a dimettersi dai
blogger che attaccavano la sua tesi, secondo la
quale i soldati americani in Iraq avevano preso
di mira i giornalisti. Sullivan ritiene che
l’influenza dei blogger, ora che la novità si
sta esaurendo, abbia raggiunto il picco massimo.
Altri credono che la blogosfera non stia solo
facendo sì che i media tradizionali pubblichino
notizie un tempo ritenute inadeguate, ma li stia
di fatto sostituendo nel loro ruolo di
ispiratori e megafoni della pubblica opinione.
Se così fosse, questa sarebbe la curiosa storia
di una banda di spostati che stanno
trasformando, in meglio o in peggio, il modo in
cui otteniamo le notizie e discutiamo di
politica.
Tanti come Sullivan, opinionista ed ex redattore
di The New Republic, provengono dai media
principali — è il caso di Mickey Kaus di
kausfiles. com e Ana Marie Cox di wonkette.com.
Uno dei blogger più autorevoli, però, Markos
Moulitsas di dailykos.com, viene dal nulla. Come
lo stesso Sullivan ammette, spesso i blogger non
hanno il tempo né le risorse per condurre
indagini in proprio. Al pari delle riviste che
fanno satira o gossip, si basano su soffiate,
fughe di notizie e pettegolezzi. Sono la
velocità e la diffusione di Internet che
consentono al singolo operatore dotato di pc
portatile di fungere da amplificatore mondiale.
Per la stessa ragione, Internet può essere un
formidabile strumento per reperire fondi e
mobilitare masse. La campagna del democratico
Howard Dean è stata ampiamente tenuta in vita
dalle sue «radici in rete». Su consiglio di star
della blogosfera del calibro di Moulitsas e
Jerome Armstrong di mydd.com, è riuscito a
racimolare tramite Internet fino a 40 milioni di
dollari da destinare al fondo spese per la
campagna.
James P.Rubin, il consigliere per la politica
estera di John Kerry, ha dichiarato a un
reporter del New York Times Magazine: «I blogger
sono la prima cosa che leggo quando mi sveglio,
e l’ultima prima di andare a dormire». Non c’è
da meravigliarsi che ad alcuni esponenti del
mondo dei grandi media la blogosfera non
piaccia, soprattutto quando prende di mira uno
di loro. Steve Lovelady, ex redattore del Wall
Street Journal che lavora attualmente
all’edizione online della Columbia Journalism
Review, ha paragonato i blogger — «idioti
bavosi», secondo la sua definizione — a una
«calca pronta al linciaggio». In reazione alla
caduta di Dan Rather, Jonathan Klein della Cbs
ha affermato: «Non esiste meccanismo che
regolamenti ed equilibri i blogger. Sono ragazzi
che se ne stanno seduti in pigiama nel loro
salotto». Andrew Sullivan considera reazioni di
questo tipo espressioni di snobbismo, tentativi
arrabbiati di difendere dei privilegi. Il
giornalismo, ha scritto in un articolo, «non è
una semplice professione. È un mestiere. La
blogosfera minaccia alcuni giornalisti
professionisti perché lo demistifica. Lo fa
sembrare facile perché, in sostanza, lo è». C’è
del vero in questa affermazione, ma la
demistificazione ha un prezzo.
Ogni istituzione ha bisogno di un qualche
aspetto mistico. È bene essere scettici, ma se
il giornalismo convenzionale, con tutti i
controlli e le risorse che le istituzioni
tradizionali hanno a disposizione, perde la
fiducia del pubblico, non esiste nulla che possa
sostituirlo; certo non le milioni di voci che
riecheggiano nel cyberspazio. I difensori della
blogosfera non ritengono che questo sia un
problema, argomentando che il solo numero di
blogger abbia un effetto correttivo interno. Se
un blogger commette un errore, infiniti altri
saranno pronti a saltarci sopra. C’è poi il
problema del denaro. Il sistema di finanziamento
dei grandi media, che siano privati o statali, è
relativamente trasparente. Sappiamo chi paga i
reporter del New York Times o gli anchorman
della Cbs. Ora che i compagni di Joshua Marshall
possono rastrellare denaro attraverso fondi nati
da Internet, la trasparenza è perduta. È lecito
ritenere che almeno alcune donazioni siano
politicamente motivate.
Le
critiche più feroci a John Kerry venivano dal
blog talonnews. com, il cui curatore dirige
anche Gopusa, descritta come una «società di
notizie, informazione e design, attiva nella
promozione degli ideali conservatori». Il
corrispondente di Talon da Washington era un
certo Jeff Gannon, noto per l’abitudine di
scegliere sempre le domande più inoffensive
nelle conferenze stampa alla Casa Bianca. Gannon
era ospite gradito dei grandi media conservatori
come Fox News, e «riportò » sul suo sito web la
possibilità che John Kerry fosse gay. Spettò a
un altro blogger, dailykos.com, smascherare
Gannon come un «accompagnatore» omosessuale di
nome James Guckert, del tutto privo di
credenziali giornalistiche e dedito a
pubblicizzare i propri servizi su siti come
militarystud.com. Gli era stato rifiutato il
pass della stampa al Congresso, ma non aveva
problemi a entrare alla Casa Bianca. È evidente
che i labili confini tra giornalismo, spettacolo
e pubbliche relazioni hanno corrotto i grandi
media, figuriamoci la blogosfera. Pensiamo al
caso di Karen Ryan, che un anno fa elogiava in
tv il Medicare Act del nuovo governo degli Stati
Uniti. Quando salutava dicendo: «Karen Ryan, da
Washington», dava garanzia di imparzialità
giornalistica. In realtà, la «reporter» Karen
Ryan era proprietaria di una società di
pubbliche relazioni o di «consulenze per il
mondo della comunicazione», finanziata dai
dipartimenti dell’educazione e dai servizi
sanitari per promuovere un programma
governativo. Un tassello di un più ampio sistema
di corruzione.
Quindi è stata la volta di Armstrong Williams,
pagato 240 mila dollari dal governo per
promuovere nel suo show una riforma del sistema
dell’istruzione nota come «No child left
behind»; poi di Maggie Gallagher, costretta ad
ammettere di aver ricevuto denaro dal governo
per sostenere il programma del presidente Bush
che incoraggiava il matrimonio tra meno
abbienti. Il giornalismo non è mai stato una
professione sentimentale. Un bravo giornalista,
per qualsiasi mezzo di informazione lavori, deve
essere scettico, mai cinico. Il panorama
attuale, generato dalla manipolazione politica e
tecnologica, gronda cinismo. Quando il governo
di una nazione democratica falsifica le notizie
e scredita il giornalismo usandolo come
strumento di pubbliche relazioni, il pubblico
può solo trarre la conclusione che nessuno sia
più interessato alla verità o, peggio, che non
esista una cosa chiamata verità e che tutto sia
manipolazione e opinione. È la tradizionale
posizione dei tiranni, per i quali l’unica cosa
che conta è la propaganda.
The Financial Times Ltd 2005
Ian Buruma
Insegna al Bard College di New York
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