18 marzo 2005
Un blog in ogni casa mette a nudo i nostri Re
da www.corriere,it

 

 

fonte: www.corriere.it

 

Se la maggior parte dei chiacchieroni e visionari di Internet può essere ignorata, alcuni giornalisti stanno cambiando il modo in cui otteniamo le notizie e discutiamo di politica Nei giornali e in tv l’informazione diventa spettacolo? Sulla Rete le notizie circolano invece rapidissime e «senza filtri». Il popolo dei Blog, i diari online, resisterà al cinismo e alla manipolazione politica meglio dei media tradizionali? È la domanda che si pone lo scrittore Ian Buruma guardando alla rivolta dei siti di base, a destra e sinistra In un certo senso, i giornalisti hanno sempre avuto vita facile. Tutto ciò di cui hanno bisogno è una buona dose di energia, curiosità e capacità di scrivere un pezzo leggibile su richiesta. L’eleganza dello stile è forse un di più, di certo una qualità meno importante della capacità di fornire analisi convincenti e dell’accuratezza nell’accertare i fatti.

 

Un tempo i giornalisti erano, o avrebbero dovuto essere, professionisti che cercavano di fare bene il loro lavoro. La loro buona fede professionale era attestata dalle istituzioni per le quali lavoravano, che non avrebbero sopportato di essere prese per bugiarde e truffatrici. Il prestigio di un giornalista o di un opinionista di successo dipendeva dall’imprimatur di un giornale autorevole, e viceversa. Il pubblico sapeva anche come andavano le cose in quotidiani e stazioni radiotelevisive. Nelle società democratiche liberali, la maggior parte delle aziende era amministrata alla stregua di imprese commerciali private. L’orientamento politico dei proprietari dei mezzi di informazione era noto. Niente di tutto ciò, tuttavia, aveva importanza finché sopravviveva una ragionevole dose di fiducia nella ricerca della verità. I giornalisti, in altre parole, in quanto membri di una classe professionale, non erano diversi dagli avvocati o dai medici. Alcuni, certo, si rivelavano bugiardi e truffatori come accade in tutte le professioni, ma i controllori li smascheravano. Tutto questo sta cambiando. In primo luogo, la proprietà dei mezzi di informazione è caduta nelle mani di gigantesche industrie dello spettacolo. Quindi le nuove tecnologie, soprattutto Internet, hanno procurato al mondo dell’informazione un numero praticamente illimitato di fonti.

 

I confini tra notizia e spettacolo si sono gradualmente assottigliati non solo per quanto riguarda la televisione, ma anche per la carta stampata. La trasformazione più rilevante consiste nel fatto che Internet, con i suoi milioni di blog personali, ha privatizzato le notizie, mentre i principali media («Msm» nel gergo dei blog) sono diventati giganti corporativi. Le conseguenze della privatizzazione, anche per gli Msm, sono state drammatiche. I grandi media hanno imboccato la strada della cautela e della mitezza. La compiaciuta certezza di essere parte dell’establishment non lascia molto spazio a condotte irresponsabili. Smascherare il volto del potere è un compito lasciato ai tabloid popolari o ai giornali satirici. Ora che chiunque può avere accesso a un pubblico sulla rete, i blogger sono diventati i principali oppositori dell’establishment. La maggior parte dei chiacchieroni, visionari e buffoni di Internet può tranquillamente essere ignorata, pochi sono emersi dalla cacofonia per raggiungere, oltre a centinaia di migliaia di lettori, lo stesso establishment. Andrew Sullivan di andrewsullivan.com mi ha recentemente confidato quanto gli faccia bene sapere che tutti quelli che contano nella politica americana passano sul suo sito. Sono gli scoop a fare la fortuna della blogosfera. Trent Lott, l’ex leader della maggioranza repubblicana al Senato, dovette dimettersi nel 2002 perché un blogger di nome Joshua Marshall, di talkingpointsmemo.com, aveva rivelato il passato razzista del senatore. Senza drudgeReport.com di Matt Drudge, il nome di Monica Lewinsky non sarebbe mai diventato così familiare.

 

Ora i blogger hanno iniziato a guardare anche all’establishment dei grandi media. L’anchorman della Cbs Dan Rather, un’istituzione del giornalismo ufficiale, è stato rovinato da powerline.com che, insieme ad altri, ha rivelato che i documenti usati da Rather per dimostrare che George W. Bush aveva aggirato il servizio militare, erano falsi. Il mese scorso, il direttore esecutivo delle news della Cnn, Eason Jordan, è stato costretto a dimettersi dai blogger che attaccavano la sua tesi, secondo la quale i soldati americani in Iraq avevano preso di mira i giornalisti. Sullivan ritiene che l’influenza dei blogger, ora che la novità si sta esaurendo, abbia raggiunto il picco massimo. Altri credono che la blogosfera non stia solo facendo sì che i media tradizionali pubblichino notizie un tempo ritenute inadeguate, ma li stia di fatto sostituendo nel loro ruolo di ispiratori e megafoni della pubblica opinione. Se così fosse, questa sarebbe la curiosa storia di una banda di spostati che stanno trasformando, in meglio o in peggio, il modo in cui otteniamo le notizie e discutiamo di politica.

 

Tanti come Sullivan, opinionista ed ex redattore di The New Republic, provengono dai media principali — è il caso di Mickey Kaus di kausfiles. com e Ana Marie Cox di wonkette.com. Uno dei blogger più autorevoli, però, Markos Moulitsas di dailykos.com, viene dal nulla. Come lo stesso Sullivan ammette, spesso i blogger non hanno il tempo né le risorse per condurre indagini in proprio. Al pari delle riviste che fanno satira o gossip, si basano su soffiate, fughe di notizie e pettegolezzi. Sono la velocità e la diffusione di Internet che consentono al singolo operatore dotato di pc portatile di fungere da amplificatore mondiale. Per la stessa ragione, Internet può essere un formidabile strumento per reperire fondi e mobilitare masse. La campagna del democratico Howard Dean è stata ampiamente tenuta in vita dalle sue «radici in rete». Su consiglio di star della blogosfera del calibro di Moulitsas e Jerome Armstrong di mydd.com, è riuscito a racimolare tramite Internet fino a 40 milioni di dollari da destinare al fondo spese per la campagna.

 

James P.Rubin, il consigliere per la politica estera di John Kerry, ha dichiarato a un reporter del New York Times Magazine: «I blogger sono la prima cosa che leggo quando mi sveglio, e l’ultima prima di andare a dormire». Non c’è da meravigliarsi che ad alcuni esponenti del mondo dei grandi media la blogosfera non piaccia, soprattutto quando prende di mira uno di loro. Steve Lovelady, ex redattore del Wall Street Journal che lavora attualmente all’edizione online della Columbia Journalism Review, ha paragonato i blogger — «idioti bavosi», secondo la sua definizione — a una «calca pronta al linciaggio». In reazione alla caduta di Dan Rather, Jonathan Klein della Cbs ha affermato: «Non esiste meccanismo che regolamenti ed equilibri i blogger. Sono ragazzi che se ne stanno seduti in pigiama nel loro salotto». Andrew Sullivan considera reazioni di questo tipo espressioni di snobbismo, tentativi arrabbiati di difendere dei privilegi. Il giornalismo, ha scritto in un articolo, «non è una semplice professione. È un mestiere. La blogosfera minaccia alcuni giornalisti professionisti perché lo demistifica. Lo fa sembrare facile perché, in sostanza, lo è». C’è del vero in questa affermazione, ma la demistificazione ha un prezzo.

 

Ogni istituzione ha bisogno di un qualche aspetto mistico. È bene essere scettici, ma se il giornalismo convenzionale, con tutti i controlli e le risorse che le istituzioni tradizionali hanno a disposizione, perde la fiducia del pubblico, non esiste nulla che possa sostituirlo; certo non le milioni di voci che riecheggiano nel cyberspazio. I difensori della blogosfera non ritengono che questo sia un problema, argomentando che il solo numero di blogger abbia un effetto correttivo interno. Se un blogger commette un errore, infiniti altri saranno pronti a saltarci sopra. C’è poi il problema del denaro. Il sistema di finanziamento dei grandi media, che siano privati o statali, è relativamente trasparente. Sappiamo chi paga i reporter del New York Times o gli anchorman della Cbs. Ora che i compagni di Joshua Marshall possono rastrellare denaro attraverso fondi nati da Internet, la trasparenza è perduta. È lecito ritenere che almeno alcune donazioni siano politicamente motivate.

 

Le critiche più feroci a John Kerry venivano dal blog talonnews. com, il cui curatore dirige anche Gopusa, descritta come una «società di notizie, informazione e design, attiva nella promozione degli ideali conservatori». Il corrispondente di Talon da Washington era un certo Jeff Gannon, noto per l’abitudine di scegliere sempre le domande più inoffensive nelle conferenze stampa alla Casa Bianca. Gannon era ospite gradito dei grandi media conservatori come Fox News, e «riportò » sul suo sito web la possibilità che John Kerry fosse gay. Spettò a un altro blogger, dailykos.com, smascherare Gannon come un «accompagnatore» omosessuale di nome James Guckert, del tutto privo di credenziali giornalistiche e dedito a pubblicizzare i propri servizi su siti come militarystud.com. Gli era stato rifiutato il pass della stampa al Congresso, ma non aveva problemi a entrare alla Casa Bianca. È evidente che i labili confini tra giornalismo, spettacolo e pubbliche relazioni hanno corrotto i grandi media, figuriamoci la blogosfera. Pensiamo al caso di Karen Ryan, che un anno fa elogiava in tv il Medicare Act del nuovo governo degli Stati Uniti. Quando salutava dicendo: «Karen Ryan, da Washington», dava garanzia di imparzialità giornalistica. In realtà, la «reporter» Karen Ryan era proprietaria di una società di pubbliche relazioni o di «consulenze per il mondo della comunicazione», finanziata dai dipartimenti dell’educazione e dai servizi sanitari per promuovere un programma governativo. Un tassello di un più ampio sistema di corruzione.

 

Quindi è stata la volta di Armstrong Williams, pagato 240 mila dollari dal governo per promuovere nel suo show una riforma del sistema dell’istruzione nota come «No child left behind»; poi di Maggie Gallagher, costretta ad ammettere di aver ricevuto denaro dal governo per sostenere il programma del presidente Bush che incoraggiava il matrimonio tra meno abbienti. Il giornalismo non è mai stato una professione sentimentale. Un bravo giornalista, per qualsiasi mezzo di informazione lavori, deve essere scettico, mai cinico. Il panorama attuale, generato dalla manipolazione politica e tecnologica, gronda cinismo. Quando il governo di una nazione democratica falsifica le notizie e scredita il giornalismo usandolo come strumento di pubbliche relazioni, il pubblico può solo trarre la conclusione che nessuno sia più interessato alla verità o, peggio, che non esista una cosa chiamata verità e che tutto sia manipolazione e opinione. È la tradizionale posizione dei tiranni, per i quali l’unica cosa che conta è la propaganda.

 

The Financial Times Ltd 2005

Ian Buruma

Insegna al Bard College di New York

 

 

 

    

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