16 dicembre 2005
L'informazione può scioperare?
Rosario Lavorgna

 

 

Sciopero dell'informazione: ma l'informazione può scioperare?

Parlare del mondo dell'informazione potrebbe sembrare blasfemo, specie se a farlo è una componente di questo pianeta che una volta veniva identificato come quarto potere.
Ma ci sembra doveroso operare qualche distinguo in questo mondo che, tra luci ed ombre, tiene informato il cittadino.
Non è la prima volta che ci imbattiamo in riflessioni di questo tipo che riguardano il delicato settore professionale, ma almeno abbiamo il privilegio di farlo da autodiegetici del problema non essendo legati ad editori o imprenditori di cordata, né avendo mai siglato contratti nazionali di un lavoro che di regola non dovrebbe essere dipendente da nessuno se non dalla propria coscienza. Sin dall'idea primaria che, nel lontano 1709, portò alla nascita del giornalismo come attività professionale e dei primi quotidiani ad opera dei pionieri della categoria Thomas Addison e Richard Steel, la stampa era stata intesa libera dalle intemperie della politica che muoveva i suoi primi passi distinguendosi in partiti. Lo spirito indipendente che ha sempre mosso la categoria ha permesso che nei secoli molta storia fosse letta dalla giusta angolazione, grazie alla lucida testimonianza dei fatti effettivamente accaduti.
Da quando, poi, gli editori sono stati promossi ad imprenditori, con tutto il pieno significato del termine, anche l'informazione è stata costretta ad attraversare la strettoia della clessidra rappresentata dalle regole di mercato e dagli orientamenti ideologici, trasformando il giornalista da testimone degli eventi, ad osservatore e censore allo stesso tempo. Questa ha causato uno spostamento dell'asse di interesse dalla cronaca dei fatti all'approfondimento orientativo di essi a seconda del credo, arrivando persino a palesere i collocamenti nelle diverse aree politico partitiche.
E' ovvio che una simili idea cozza molto con la deontologia di base, ma si sa che l'etica profesionale non ha mai dato da mangiare a nessuno. Nel nostro mestiere non vi sono orari, nè festività, insomma è un lavoro che si svolge 24 ore al giorno per 365 giorni all'anno senza risparmio di energie, almeno che non sia stato indetto uno sciopero della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, il massimo organo sindacale di categoria che dovrebbe salvaguardare gli interessi dell'intera categoria, e non certo solo di chi ha siglato un contratto di lavoro dipendente.
Ma siccome anche nel nostro mondo esiste la discriminante dei figli e deifigliastri, dei belli e dei brutti e dei noti e sconosciuti, dei giornalisti di serie A e quelli di serie ignota, allora è normale che si indicano scioperi per salvaguardare gli interessi di pochi, a scapito della massa deforme di chi uno straccio di contratto non ce lo avrà mai, come neanche una miserissima ricompensa al proprio duro lavoro.
E' noto a tutti, compreso l'acuto presidente Serventi Longhi che quotidianamente le edicole italiane restrebbero vuote se non fosse per il varo certosino di un esrcito di missionari dell'informazione, con l'altruistica vocazione allo sfruttamento redazionale, umiliati e mal pagati, se non completamente ignorati, che contribuiscono con il loro sudore gratuito a che rotative e tipografie sfornino informazione.
Per loro non vi è sciopero, nè girotondo, loro non esistono, sono numeri d'ordine che annualmente versano il loro obolo all'ordine nazionale di categoria, a quello regionale e molti anche al sindacato territoriale.
Come anche non esistono scioperi della FNSI finalizzati a chiedere al governo che fine abbia fatto la legge 150/2000, la più grande bufala che un legislatore potesse concepire, specie se si considera il fatto che se da una parte ha avuto la finalità di permettere la sistemazione di tanti giornalisti rimasti fuori dai contratti decentrati, dall'altra parte
fornisce agli Enti pubblici e privati la scappatoia legale per non assumerli ai sensi di una legge che  noi definiremo esortativa.
A tale proposito non ci risulta sia mai stata assunta alcuna forma di protesta per salvaguardare questo ennesimo esempio di sfruttamento autorizzato di migliaia di addetti stampa della pubblica come della privata amministrazione.
Ma in Italia i giornalisti sono solo coloro che, per mano celeste, vengono fatti sedere nelle redazioni del Corriere della Sera, di Repubblica, nelle redazioni Rai o Mediaset,      gli altri, i freelance, i cronisti locali, i corrispondenti, la plebaglia, insomma, non  hanno diritto al titolo, sono manovalanza, gli extracomunitari del mestiere che, non avendo
santi in paradiso, sono costretti a guadagnarsi da vivere con il solo beneficio della proporia intelligenza e spirito di sopravvienza. Quelli sono dei morti di fame, la cui esistenza ha l'unico scopo di versare la quota annuale, e di contribuire ad ingrossare il portafogi di editori ed imprenditori editoriali.
Ma l'informazione può scioperare?
Si, deve scioperare, ma non quel 10% del giornalismo che conta, ma qual 90% del giornalismo che non esiste. Sono loro che dovrebbero scioperare per 6 mesi, portando alla paralisi un
mondo che ci ha tolto pure la gioia e l'orgoglio di esserne parte.

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