di ADRIANO FAVARO
Sulla morte di Pietro
Savorgnan di
Brazzà
, avvenuta 100 anni fa a Dakar si è
anche posata l'ombra del giallo:
«Mio marito è stato avvelenato» ha
ripetuto mille volte a parenti e
conoscenti la moglie Teresa di
Chambrun che lo aveva accompagnato
nel suo ultimo viaggio in Africa.
Ammazzato da coloro che non volevano
che quell'uomo che anni prima
comprava schiavi per liberarli
tornasse in Francia e testimoniasse
quello che aveva visto in Congo.
Che cosa aveva visto
Brazzà
, l'uomo che regalò un impero? La
violenza gratuita dei francesi delle
grandi compagnie, le forme più
disumane di tortura, il ritorno di
quella schiavitù che lui aveva
combattuto per tutta la vita. Quel
mondo lo aveva descritto, tre anni
prima, anche Joseph Conrad in "Cuore
di tenebra". Il cammino che il
bianco fa verso il nero, la
trasformazione, l'oblio dello
spirito, la grandezza dell'impero
occidentale impantanata nella
violenza primitiva. Muore a Dakkar
il 14 settembre 1905 Pietro
Savorgnan. «L'Africa vorrà la mia
vita» aveva detto, lasciando la
Francia per obbedire al presidente
della Repubblica francese Emile
Loubet, che lo inviava per
un'ispezione nel Congo.
Al rientro della
salma Parigi celebrava con solenni
funerali la morte del friulano
Pietro Savorgnan di
Brazzà
, cittadino italiano, naturalizzato
francese. Il governo della Francia,
nella scheda che in questo periodo
gli dedica per le celebrazioni - in
internet - , lo descrive come "una
delle più alte figure coloniali
francesi". La moglie, riportandolo
ad Algeri dopo il funerale, fece
scrivere nella sua lapide: "La sua
memoria è pura di sangue umano".
Bisogna scrivere
così. Perché Pietro Savorgnan è
stato uomo differente, diverso da
tutti quelli che in quell'epoca
viaggiavano alla conquista
dell'Africa. É stato un puro. Amico
delle tribù che incontrava. Così
amato al punto che la sua figura
adesso - come testimoniano i tanti
articoli scritti dall'importante
settimanale "Les dépeches de
Brazzaville" - è entrata nel
pantheon degli antenati del paese. E
il suo spirito viene evocato dagli
stregoni nei canti rituali. Quando
Pietro
Brazzà
torna, per l'ultima volta, in Congo
viene annunciato dai tamburi nella
foresta. In tanti aspettavano il
grande padre bianco. Non li aveva
abbandonati.
Tornava però per
guardare scene diverse da quelle che
aveva lasciato. I bianchi, che aveva
insegnato a rispettare, erano
diventati oppressori. Uccidevano con
la dinamite, per solo divertimento.
Imprigionavano. Obbligavano a lavori
forzati per la raccolta del caucciù
e dell'avorio.
L'esploratore
friulano non riconosce quasi più il
paese che aveva amato: villaggi semi
abbandonati e degradati. Prigioni
collettive. Storie di violenze. Sarà
un indigeno a segnalare a Savorgnan
l'esistenza di campi di
concentramento. Durante una danza di
accoglienza mima le catene ai polsi
e ai piedi. E lui capisce. E trova
quei luoghi. É la fine di quel sogno
di libertà che aveva accompagnato
Pietro di
Brazzà
fin da piccolo. Lo hanno chiamato,
per esprimere la sua potente
diversità l'"esploratore delle
leggende". E ormai è diventato lui
stesso una leggenda in Africa, come
testimonia suo nipote Detalamo
Pirzio Biroli: "Ho ascoltato fin da
bambino le storie africane di mio
zio, me le raccontava suo fratello
Detalamo, mio nonno. Le ho
riascoltate, decenni dopo, in
Congo». La storia di un friulano -
"conquistatore dal volto umano",
fiero avversario ideologico di Henry
Morton Stanley - è già diventata
storia dell'Africa. E lui, Pietro
Savorgnan di
Brazzà
, e l'uomo che ha regalato un impero
africano alla Francia.
Tutta questa storia
inizia a Castel Gandolfo a Roma
quando, il 25 gennaio 1852, nasce
Pietro. Il padre Ascanio Savorgnan
di
Brazzà
e la giovane romana Giacinta
Simonetti, marchesa di Gavignano
hanno già altri sei figli e altri
sei arriveranno dopo di lui. I
Savorgnan appartengono a
un'antichissima famiglia friulana,
prima al servizio del Patriarcato di
Aquileia e poi della Repubblica
Serenissima. Il castello dei
Brazzà
e la dimora di famiglia si trovano a
Brazzacco, a pochi chilometri da
Udine.
La vita di Pietro
adolescente è avventura e sogno fino
a quando, a 13 anni, incontro
l'Ammiraglio de Montaignac,
comandante della flotta di Napoleone
III a Civitavecchia, amico del
padre.
Diventerà ufficiale
alla scuola navale francese di Brest.
Con la fregata "Venus" sorveglia la
costa occidentale africana percorsa
da navi di schiavisti (il traffico
era stato considerato illegale dai
grandi stati europei). Comincia così
ad esplorare il fiume Ogooué: da
quel momento, per vent'anni per
Pietro esisterà solo l'Africa.
Riparte per l'Africa nel 1875 con
modesti finanziamenti ufficiali; e
dopo alcuni mesi resta senza denaro.
Chiede aiuto alla famiglia. «Da
quella data e fino al 1895 - ricorda
Detalamo Pirzio Biroli - per le
spedizioni di Pietro furono usati i
soldi di famiglia, circa centomila
lire-oro di allora. Mia bisnonna,
Giacinta Simonetti, vendette anche
il palazzo di via del Corso, a Roma
(oggi sede di una banca) e alcuni
campi in Friuli. 'Per l'Africa di
Pietro', si legge ancora nei
documenti».
Lo accompagna Renokè,
capo delle tribù del medio Ogooué
che vorrebbe (ma Pietro non lo sa)
acquistare a buon mercato dei neri
per venderli come schiavi. Savorgnan
capisce: e compra lui gli schiavi,
per poi liberarli e farli lavorare
come portatori. Pagati. Farà così
per tutta la sua vita. Il primo
viaggio, difficilissimo, è anche
deludente: l'Ogooué non porta al
centro dell'Africa. Riprova con un
altro fiume, Alima. Le tribù lo
scambiano per Stanley, il
giornalista-esploratore britannico
che viaggiava con centinaia di
tiratori armati di carabine
Schneider. Si faceva strada
sparando. Pietro scrive: "Non si
passa col sangue". E intanto Stanley
trova le sorgenti del fiume Congo.
Un successo mondiale, che forse
anche il nostro friulano sperava.
Ma quando i due si
incontreranno ad una cena a Parigi,
nel 1882, sarà Pietro a vincere in
dialettica e disponibilità
l'irritato Stanley. Pietro, nel
frattempo, aveva compiuto un gesto
formidabile per l'epoca incontrando
il re Makoko; uomo potente, che era
venuto a conoscenza di quel bianco
che comprava schiavi per liberarli.
Con Makoko e altri capi tribù,
Brazzà
compie un gesto storico:
"seppellisce la guerra".«Si fece un
buco nella terra - scrive nelle
poche memorie che ha lasciato - e i
due capi principali gettarono un
carico di polvere da sparo, una
pietra focaia, pallottole; io ho
gettato un pacco di cartucce e, dopo
che fu piantato un albero, dissi:
'possa la pace durare a lungo,
finché quest'albero non produrrà
pallottole, cartucce, polvere'». Il
Congo si riempie di bandiere
francesi e delle promesse che
Brazzà
fa agli indigeni: "Con questa
bandiera sarete al sicuro". Gli
credono. Non sarà così. In Africa è
già in atto la spartizione
internazionale delle proprietà
europee: ai belgi va lo Stato Libero
del Congo, poi Congo Belga. Ai
francesi la colonia del Congo,
delimitata ormai dai percorsi di
Brazzà
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