REPUBBLICA - NAPOLI
26 GENNAIO 2007
“LA STORIA DEGLI ESCLUSI DALLA RAZZA UMANA"
di Giuseppe Nitto
Celebrando la Giornata della Memoria,
non va sottaciuto l’impatto che ebbero le
leggi razziali promulgate in Italia nel
1938. Con esse infatti inizia la
persecuzione antisemita, foriera di ignobili
conseguenze nei confronti degli ebrei
italiani, inclusi quelli napoletani (sul
punto segnalo il bel documentario “Dal
cancello secondario, storie di ebrei a
Napoli”, a cura di Gabriella Gribaudi, regia
di Alessandra Forni e Fabio Esposito, Ed.
Xila, 2003), dei quali ricorderemo un
bambino, Sergio De Simone, narrandone in
seguito la tragica sorte.
Tali leggi non furono emanate soltanto per
compiacere l’alleato (il Duce non volle
demeritare agli occhi del Fuhrer quanto a
zelo antisemita), dopo le Leggi di
Norimberga (1935), e in ogni caso,
rilevare una diversità tra le leggi italiane
e naziste, deducendo correttamente che in
Italia non si creò un “clima” da
Kristallnacht, non deve indurre a
nessuna indulgenza verso i teorizzatori del
sedicente “razzismo spiritualista” (i
firmatari del Manifesto della Razza)
e i volenterosi legislatori. Infatti, le
conseguenze furono pesantissime, culminando
nelle deportazioni ai campi di sterminio,
cominciate il 16 ottobre ‘43 con la
Judenoperation nel Ghetto di Roma, ad
opera di SS con la corrività di poliziotti
italiani. In realtà la deportazione e lo
sterminio industriale degli ebrei europei
furono il criminale apogeo di un genocidio
pianificato nel ’42 nella Conferenza del
Wansee (presieduta da Heydrich,
luogotenente del Reichsfurhrer
Himmler, che nel ‘36 incontrò il capo della
Polizia italiana Bocchini, circa le misure
da attuare contro gli ebrei italiani), che
ebbe il proprio fulcro nelle leggi razziali.
Queste si prefiggevano lo scopo di espellere
dal consorzio civile i giudei,
spogliandoli dei loro diritti e dei loro
beni, costringendoli all’emigrazione e alla
ghettizzazione per deportarli, schiavizzarli
e annientarli: l’Europa andava resa
Judenfrei, compresa l’Italia. Gli ebrei
italiani dunque si misurarono con leggi che
perseguivano la difesa di un’immaginaria
“razza italica”, dai loro belluini complotti
globali, propagandati nel falso libello dei
Protocolli dei Savi di Sion:
ma quali furono gli effetti nella vita
quotidiana? Osserviamone alcuni entrando
idealmente nella casa di una famiglia ebrea
di Napoli…
C’è il capofamiglia che compila il
Questionario inviato dal Ministero della
Demografia e Razza per censire gli ebrei: è
un italiano orgoglioso, che guarda la
Medaglia ricevuta dal padre dopo la Grande
Guerra, chino su quella burocratica
scartoffia, ove dovrà vergare di appartenere
alla razza ebraica. La radio presso
la quale la famiglia la sera si riunisce, va
consegnata al più vicino Commissariato.
Titina, la fedele domestica che i ragazzi
chiamano zia, va licenziata: i giudei
non possono avere servitù ariana. I ragazzi
devono lasciare la scuola, oppure, come nel
raro caso della scuola elementare Vanvitelli
di Napoli, frequentarla in una classe di
soli scolari ebrei, con gli alunni divisi e
completamente isolati dagli altri. Intanto
il laborioso capofamiglia perde l’impiego o
si vede espropriato il negozio in cambio di
un’insulsa indennità. Deve rinunciare alla
docenza universitaria e non può esercitare
una professione liberale. La dignitosa
serenità economica costata sacrifici, è
sostituita da una vita stentata, e i
gioielli, ricordo di un Nissùin o di
un Bar Mitzvàh, finiscono al Banco
dei Pegni: i banchieri giudei
demoplutomassoni impegnarono i più cari
ricordi per sfamare i figli. E i fidanzati
in procinto di sposarsi? Lui giudeo, lei
ariana, non possono contrarre matrimonio: è
proibito, così come prestare il servizio di
leva. La lista delle ulteriori,
odiose proibizioni sarebbe lunga, giacchè ai
nostri legislatori non difettò la
fantasia, sebbene le interpretazioni delle
norme suscitarono non pochi dilemmi,
costringendo il regime, la tragedia sconfinò
nella farsa, ad emanare pletore di circolari
affinché, riluttanti funzionari e miserabili
Podestà, le applicassero senza esitazioni.
Renzo De Felice osservò che con le leggi
razziali il fascismo “divorziò dal popolo
italiano, dalla sua mentalità e dalla sua
storia”, poichè l’antisemitismo era estraneo
agli italiani e il pregiudizio sui
perfidi giudii, obliquamente diffuso
dalla Chiesa Cattolica, aveva matrici
piuttosto religiose che razziali. Tuttavia,
se la maggioranza del popolo italiano non
prese parte alle persecuzioni antiebraiche,
– anzi: quanti ebrei furono salvati – il suo
peccato inescusabile fu di aver tollerato,
nell’indifferenza conformista, la
promulgazione di leggi ripugnanti. Nessuno
comprese che il “momento” normativo era
soltanto il preludio della Soluzione
Finale: nel giro di 6 anni, infatti,
migliaia di ebrei finirono nei crematori di
Auschwitz - Birkenau. E fu quel
clima, provocato dalle sciagurate leggi, che
instradò il tragico destino di un piccolo
ebreo napoletano del Vomero: Sergio De
Simone. Sergio e la madre Gisella Perlow,
natìa di Fiume e sposata con Eduardo (sotto
le armi dal ‘40), vissero a Via Morghen in
solitudine e in un ambiente se non ostile,
certamente indifferente ai loro penosi
travagli, eccettuati i premurosi vicini, i
Parlato, e un’amica di Gisella, Piera Nardi
anch’essa di Fiume. Nel luglio del ’43
Gisella raggiunse la propria famiglia a
Fiume: ma se fosse rimasta a Napoli, lo
sbarco alleato e il successivo armistizio
l’avrebbero vista al sicuro con Sergio.
Infatti, proprio a Fiume, infestata di
repubblichini e di SS, Sergio, Gisella, la
sorella Mira, le nipotine Andra e Tatiana,
furono rastrellati e tradotti ad Auschwitz,
dove Sergio diventerà il n° A179614.
Gisella, Mira, Andra e Tatiana
miracolosamente sopravvissero, mentre
Sergio, cavia del famigerato Mengele, sarà
deportato in un Konzentrationlager
vicino Amburgo, dove incontrerà due orchi:
il medico Heissmeyer, che gli inoculerà la
tubercolosi, e la SS Strippel che lo impiccò
insieme con altri venti bambini, cremandone
le spoglie il 20 aprile 1945: aveva 7 anni,
Sergio.
Da Via Morghen a Fiume; dal kinderblock
di Birkenau al camicie bianco di Mengele
e, infine, tra le rovine del Reich, la
scoperta degli orchi: questo, lo sfortunato
tragitto di un bambino napoletano, vittima
delle leggi razziali e della colpevole
indifferenza che lo circondò.
Oggi Sergio avrebbe 70 anni. Avrebbe avuto
figli e nipoti, invecchiando serenamente.
Lo ricordiamo commossi e addolorati perché
non avemmo il coraggio di proteggerlo, di
accoglierlo e di amarlo come uno di noi: di
razza umana.
GIUSEPPE NITTO
Il 27 gennaio l'Europa
pianga
Ogni anno in questo periodo si fa
sentire palpabile il dolore del
ricordo.
La Memoria dei 6 milioni ci
accompagna sempre , e' in noi, e'
nel nostro DNA, impossibile
liberarsene nemmeno a volerlo, e'
impresso col fuoco dei crematori
nell'anima di ogni ebreo.
A me lo ha passato mia madre che
tremava visbilmente ogni volta che
la televisione mostrava qualche
divisa nazista, me lo ha passato mia
nonna che non poteva sentire
qualcuno correre dietro a
lei. Attraverso di me, anche senza
parlarne, la Memoria passa a mio
figlio, ai miei nipoti e cosi'
avanti fino alla fine dei secoli,
sempre lo stesso strazio, lo stesso
dolore, la stessa disperata domanda
che uno non pronuncia e per cui non
aspetta risposte: PERCHE'!
In Israele guardo i bambini, nipoti
e pronipoti di Auschwitz, giocano
come tutti i bambini del mondo,
corrono, ridono spensierati ma
ognuno di loro ha la Shoa' dentro,
gli scorre nel sangue, ogni
generazione di ebrei nasce con quel
fuoco impresso nell'anima e nel
cervello.
Il 27 gennaio l'Europa ricordi e
pianga.
I campanelli delle scuole
suoneranno per 1 minuto perche'
le nuove genrazioni sappiano.
Il dramma del ricordo "parlato",
diffuso dai media, finira',
quest'anno, il 25 aprile in Israele
quando le sirene ci strazieranno
il cuore, tutti si fermeranno,
usciranno dalle macchine,
scenderanno dagli autobus, si
alzeranno in piedi nei bar, nelle
case e un brivido di dolore e
paura attraversera' tutta Israele
ancora minacciata di distruzione da
altri nazisti.
Navigando su internet si leggono
pero' anche pareri diversi. Su un
sito ho letto "Ogni volta che sento
parlare di Shoa' mi girano..."
Altri protestano " mica solo gli
ebrei sono stati uccisi. E gli
armeni? e i nativi americani? e i
cambogiani? e gli zingari? Perche'
gli ebrei devono avere il monopolio
del dolore?"
Si, devono averlo! E' indiscutibile
che debbano averlo perche' in
Europa, 61 anni, fa sono stati
raccolti tutti gli ebrei esistenti ,
da ogni nazione europea, sono stati
separati dal resto delle
popolazioni, uccisi sul posto o
portati nei campi di sterminio per
venire eliminati fisicamente. Devono
averlo il monopolio perche' sono
morti ammazzati solo a causa del
millenario odio europeo diventato
improvvisamente delirio
inarrestabile.
Gli ebrei non erano delinquenti, non
avevano territori da conquistare,
non avevano pretese di territori,
erano cittadini fedelissimi dei
paesi in cui vivevano, avevano
combattuto per quei Paesi, facevano
parte della media e piccola
borghesia non di un mondo
sotterraneo di criminali da
eliminare.
Le risposte sono tante e
controverse ma la conclusione
tremenda e' sempre una sola: odiati
per niente.
Ammazzati nei secoli a causa della
crocifissione di Gesu'.
Ammazzati per secoli a causa del
loro senso di appartenenza.
Ma non e' un pregio essere attaccati
alle proprie radici
etnico/culturali ?
Ammazzati per secoli a causa del
loro rifiuto alla conversione.
Ma non e' anche questo un valore?
Ammazzati infine, dall'800 in poi,
non piu' solo per essere di fede
ebraica e "assassini" di Cristo , ma
a causa di appartenere alla "razza"
ebraica. Grande invenzione, la
razza, per avere la scusa di
perseguitare, scacciare, eliminare,
uccidere.
L'evoluzione dell'odio antiebraico,
la capacita' di cambiarlo a seconda
delle situazioni dell'epoca e'
spaventoso, ogni periodo storico ha
trovato un motivo per pilotare
l'odio della gente verso il Popolo
ebraico, perseguitarlo e
distruggerlo.
Ecco un elenco dei genocidi piu'
tristemente famosi del 900 che
coloro cui "girano" ci sbattono in
faccia per sminuire l'orrore della
Shoa':
BURUNDI 300.000 HUTU
MOTIVO : POLITICO-TERRIOTRIALE
RUANDA 1.000.000 TUTSI
MOTIVO: POLITICO TERRITORIALE
SUDAN 2.000.000 CIVILI
MOTIVO: RELIGIOSO/POLITICO
CAMBOGIA 2.000.000 VARI
MOTIVO: POLITICO CONTRO OPPOSITORI
REGIME
ARMENIA 2.000.000 CIVILI
MOTIVO: CONQUISTA E ANNESSIONE DEL
TERRITORIO
EUROPA 6.000.000 EBREI
MOTIVO: NESSUNO.
Non esiste un solo caso al mondo di
persone, uomini donne vecchi e
bambini, ammazzate in tale numero
senza un motivo se non
l'appartenenza a un'etnia.
Non esiste un solo caso di tentativo
di eliminare un popolo intero dalla
faccia della terra senza volergli
prendere qualcosa, in genere il
territorio. Gli ebrei non avevano
territorio, erano semplici cittadini
europei.
Non esiste nessun caso al mondo in
cui si fosse programmato, deciso a
tavolino dai ragionieri della morte,
tra l'indifferenza generale, la
distruzione scientifica di un intero
Popolo.
Non esiste un solo caso di genocidio
al mondo che qualcuno osi commentare
con un "mi girano" senza che qualcun
altro gli sputi in faccia. Eppure
sappiamo che a chi e' cosi' privo di
anima da poter dire che gli girano
le palle a sentir parlare di Shoa'
molti riponderanno "si, hai ragione,
non se ne puo' piu'".
E invece , signori, potete,
altroche' se potete e sentirete
ancora e ancora perche' la vergogna
e' incancellabile anche per chi e'
nato dopo. Questa vergogna, lo
sterminio di un popolo
innocente, non si esaurisce con le
colpe dei padri.
Un milione e mezzo di bambini
massacrati e dati, vivi, in pasto
ai cani non puo' essere commentato
con "non se ne puo' piu'".
Ehhh NO! Non vi sara' permesso
dimenticare!
6 Milioni 6 milioni 6 milioni 6
milioni 6 milioni 6 milioni 6
milioni 6 milioni 6 milioni 6
milioni.
Il 27 gennaio l'Europa si fermi e
ricordi. Il 27 gennaio l'Europa
pensi. Il 27 gennaio l'Europa
pianga.
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1. TESTIMONIANZA DI GOTI BAUER
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/x-tad-bigger>
Avevo 14 anni/x-tad-bigger>
Avevo 14 anni quando nel 1938 la
nostra vita che, fino ad allora era
stata perfettamente integrata nella
società, fu sconvolta dalle leggi
razziali. Leggi che ci privarono da
un giorno all'altro dei più
sacrosanti diritti civili, quelli
che consentono ai giovani di
frequentare le scuole, ai loro padri
di esercitare le loro professioni.
Vivevo a Fiume con i miei genitori e
un fratello di 12 anni. Fummo
emarginati: solo pochi ci
dimostrarono solidarietà mentre la
maggioranza della popolazione fu del
tutto indifferente al dramma che
stavamo vivendo. Per opportunismo o
per totale insensibilità era più
comodo far finta di non vedere
adeguarsi alle disperazioni
governative.
Nel 1943, quando dopo l'8 settembre
i tedeschi invasero l'Italia ed
estesero qui da noi le loro leggi
antiebraiche, la nostra condizione
divenne tragica. Si veniva arrestati
per strada, spesso denunciati da
ignobili individui che, pur di
intascare la squallida taglia che
c'era su ogni ebreo, non si ponevano
problemi di coscienza.
Intere famiglie, neonati, malati,
centenari inclusi venivano prelevati
di notte dalle case e sparivano nel
nulla. Disperatamente ognuno cercava
una qualsiasi via di scampo: pochi
fortunati trovavano ospitalità
presso generosi amici che
affrontavano il rischio di severe
punizioni pur di soccorrerli, c'è
chi trovò rifugio nei conventi,
altri, noi tra questi, cercarono di
mascherare la propria identità
attraverso documenti falsi. Una
copertura alquanto precaria in un
clima sospetto e di terrore qual era
quello di allora in cui in ogni
luogo e in ogni momento potevi
essere fermato e interrogato sui
dati che su quella carta figuravano.
E quando ogni minima esitazione
nella risposta equivaleva a un'autodenuncia.
Cercammo allora di trovar rifugio in
Svizzera dove, prima di noi, molti
erano riusciti a trasferirsi. Ci
rivolgemmo a un'organizzazione di
Milano che, dietro lauto compenso,
aiutava chi era in pericolo a
varcare clandestinamente il confine.
Purtroppo le cose andarono male: a
Varese fummo affidati a due guide,
contrabbandieri che conoscevano ogni
nascosto sentiero di montagna
attraverso il quale accompagnare i
fuggitivi. Ci portarono a Ghirla e
da lì, dopo ore di faticato cammino,
durante il quale, spudoratamente, ci
avevano rassicurati e illusi,
arrivammo a Cremenaga dove ci
tradirono. Sì, proprio lì, sul
confine, ci consegnarono ai militi
della Guardia di Finanza italiana.
Era un losco tranello in cui, notte
dopo notte, cadevano intere famiglie
in cerca di salvezza.
Cominciò allora il nostro calvario
finale: le SS che vennero a
prenderci e ci condussero da un
carcere all'altro. La locanda di
Ponte Tresa che fungeva da quartier
generale, poi Varese, Como e San
Vittore qui a Milano. Infine il
convoglio di vagoni bestiame
sprangati che da Fossoli partì il 16
maggio 1944 per destinazione ignota.
Una settimana di orribile viaggio,
di indescrivibile sofferenza, fisica
e morale, dopo la quale approdammo a
Birkenau, il lager di Auschwitz dove
erano state allestite le poderose
strutture di sterminio.
Goti Bauer
/x-tad-bigger>
(da "binario 21")/x-tad-bigger>
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2. TESTIMONIANZA DI LILIANA SEGRE
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/x-tad-bigger>A
tredici anni nel campo di sterminio/x-tad-bigger>
Avevo otto anni al momento delle
leggi razziali e mi ricordo come una
netta cesura nella mia vita quella
fine estate del 1938 quando mio papà
cercò di spiegarmi che, poiché ero
una bambina ebrea, non avrei più
potuto continuare ad andare a
scuola. Non posso dire di aver
capito allora quello che stava
succedendo, però mi sono sempre
ricordata, dopo, come mi ero sentita
quel giorno che ha diviso la mia
vita in un prima e in un dopo. La
mia era sempre stata una famiglia
laica e io non mi ero mai posta il
problema di che cosa volesse dire
essere una bambina ebrea. Lo avrei
ben capito in seguito, anno dopo
anno, giorno dopo giorno, man mano
che la persecuzione si è fatta più
dura, quando è scoppiata la guerra e
i nazisti sono diventati i padroni
dell'Italia del Nord. Nel 1943 ero
una ragazzina ormai tredicenne,
molto consapevole di quello che
avveniva intorno a lei.
Falliti altri tentativi di sfuggire
alla persecuzione, nel corso dei
quali dovetti abbandonare la mia
casa e dire addio ai miei nonni,
poco prima che venissero deportati e
uccisi ad Auschwitz, prima che ci
arrivassi io, anche per me e per mio
papà venne il momento di tentare la
fuga in Svizzera.
Anche per noi le cose andarono male,
non trovammo però, come Goti, dei
contrabbandieri che ci vendettero
per quattro soldi, ma un ufficiale
svizzero, di una piccola stazione di
polizia di frontiera del Canton
Ticino, che ci riconsegnò alle
autorità italiane dopo che eravamo
già riusciti a espatriare.
/x-tad-bigger>
Una bambina in carcere/x-tad-bigger>
Entrai così, a 13 anni, nel carcere
femminile di Varese ed ero da sola
nell'umiliante trafila della
fotografia e delle impronte
digitali, da sola a camminare in
quei corridoi dietro a una secondina
e a chiedermi per quale colpa mi
trovassi lì. Io le prigioni le avevo
viste solo al cinema, non sapevo
come erano fatte, non sapevo che
all'ora del tramonto le guardie
venivano a picchiare sulle sbarre
per controllare che non fossero
state segate da me o dalle altre
poverette prese come me sul confine!
Fu così a Varese, fu così a Como, fu
così a San Vittore, dove rimasi per
40 giorni. Ma lì ero contenta,
perché le famiglie erano state
riunite e io ero in cella con il mio
papà.
Due o tre volte alla settimana gli
agenti della GESTAPO portavano via
tutti gli uomini del raggio degli
ebrei per interrogarli. Io sapevo
che erano interrogatori terribili,
in cui si torturava e si picchiava,
e ci pensavo quando rimanevo sola
nella cella aspettando che tornasse
mio padre. Aspettavo un'ora, due
ore, tre ore; diventavo vecchia
leggendo le scritte di quelli che
erano passati prima di noi:
maledizioni, addii, benedizioni,
nomi, "ricordatevi di me". Poi lui
tornava: era pallido, la barba
lunga, gli occhi segnati, non mi
raccontava niente, ci abbracciavamo.
Mi svegliavo qualche volta di notte
nella branda che era quasi
rasoterra, una brandina di ferro, e
lo trovavo qualche volta
inginocchiato vicino a me che mi
chiedeva scusa per avermi messo al
mondo. Lui che avrebbe voluto darmi
il massimo.
Alla fine di gennaio,
nell'implacabile appello dei 650
nomi circa compresi nel successivo
trasporto, furono pronunciati anche
i nostri. Un vecchio cugino di mio
padre, che a gran fatica, da
Ravenna, aveva raggiunto la Svizzera
e da là era stato respinto, a
sentire il suo nome si uccise
buttandosi giù dall'ultimo piano del
raggio. Quel corpo scomposto,
grottesco, quel fagotto buttato sul
pavimento del carcere, fu il primo
morto che vidi nella mia vita.
Ci misero in fila e ci caricarono
sui camion per portarci alla
stazione centrale. Da lì cominciò il
nostro viaggio verso il nulla. Un
viaggio di gente che era alla
vigilia della morte, un viaggio in
cui non c'era più niente da dire, un
viaggio in cui tutti, dopo aver
pianto e i più fortunati pregato,
stavano in silenzio.
Arrivammo ad Auschwitz in pieno
inverno. Era stato un viaggio
inumano, ma inumano fu l'arrivo:
quando fummo scaricate a calci e
pugni su quella spianata enorme che
i nostri aguzzini avevano preparato
per noi nel lager di Birkenau, un
lager femminile enorme, una città di
disperazione. Fummo separati, uomini
e donne, e io nei miei tredici anni
spauriti, non conoscendo nessuna
lingua straniera, senza capire dove
mi trovavo e che cosa mi stava
succedendo, io, senza saperlo,
lasciai per sempre la mano del mio
papà. Lui è rimasto là quel 6
febbraio 1944.
/x-tad-bigger>
Noi sceglievamo la vita/x-tad-bigger>
Io passai la selezione senza sapere
che venivo scelta per la vita o per
la morte. Ero tra le più giovani,
anzi io non conobbi in campo nessuno
che fosse più giovane di me. Mi
scelsero perché ero grande e grossa
e dimostravo più anni di quelli che
avevo. Entrai nel campo e iniziò
anche per me quella vita, fondata
sulla più totale disumanizzazione in
cui la voglia di vivere, per noi che
siamo tornate, era l'unica cosa che
contasse. Anche nella situazione più
spaventosa noi sceglievamo la vita,
anche se ci volevano uccidere ogni
minuto per farci scontare la colpa
di essere nate.
Fui scelta per un lavoro che si
svolgeva per fortuna al coperto.
Dico sempre che sono viva per
quello. Rimasi un anno nella
fabbrica di munizioni Union, che
apparteneva alla Siemens. Eravamo
schiavi senza alcun diritto che
lavoravano fino all'esaurimento
delle forze.
Com'erano i rapporti fra di noi
prigioniere? I rapporti per me
furono difficilissimi: io mi
rinchiusi in quei mesi sempre di più
in un silenzio doloroso. Dapprima il
silenzio in cui mi aveva costretto
la separazione da tutti coloro che
avevo amato, poi il silenzio perché
non capivo le lingue che si
parlavano, poi il silenzio perché
avevo paura di attaccarmi a qualcuno
che mi sarebbe stato di nuovo
strappato. Ma era anche il silenzio
spaventoso che sentivamo intorno a
noi, il silenzio del mondo che non
si dava pensiero di quello che ci
stava succedendo. Era forse anche il
silenzio di Dio che in quel momento,
ad Auschwitz, si è distratto.
Tre volte passai la selezione nel
corso di quell'anno. Nude, perché la
nudità era un'altra umiliazione
costante della nostra vita di tutti
i giorni, passavamo davanti agli
ufficiali delle SS, elegantissimi
nelle loro uniformi. Noi, le
disgraziate ragazze della fabbrica
Union, ci specchiavamo le une nelle
altre con i nostri corpi scheletriti
mentre i nostri aguzzini, decidevano
chi era ancora in grado di lavorare
e chi no. Ragazzi, è difficile
attraversare un corridoio, dover
varcare una porta obbligata e sapere
che chi ti osserverà, nuda, davanti
e dietro, in bocca, dappertutto, poi
deciderà se tu continuerai a vivere
oppure no. Come bisogna atteggiarsi
davanti a un tribunale così,
composto di uomini che a casa
avevano una famiglia, delle figlie
forse della nostra età, e che ci
guardavano, sorridendo calmi,
tranquilli, senza una parola? Solo
un cenno del capo per dire "avanti".
E io ero felice quando mi facevano
quel cenno, perché ero ancora viva,
perché io volevo vivere. Io avevo 13
anni, e poi 14, e volevo vivere.
/x-tad-bigger>La
"marcia della morte"/x-tad-bigger>
Alla fine di gennaio del 1945,
quando era passato un anno dal mio
arrivo nel campo, cominciammo a
sentire da lontano rumore di
cannonate e di bombardamenti:
qualche cosa stava succedendo. Ed
ecco che dalla fabbrica Union arrivò
il comando di evacuare il campo. E,
così come eravamo, ci fecero alzare
da quei banchi, dove lavoravamo per
fare proiettili e munizioni, e
venimmo avviate per quella che
sarebbe stata chiamata la "marcia
della morte". Io, quando cominciai a
capire che dovevo camminare,
comandai al mio corpo: "Una gamba
davanti all'altra! Devi andare
avanti, devi andare avanti...".
Camminammo per giorni attraverso la
Germania, camminavamo soprattutto di
notte: città deserte, paesini
deserti e le nostre sentinelle
implacabili finivano con un colpo di
pistola quelle che cadevano. Io non
mi voltavo, non mi voltavo a vedere
quelle che cadevano, non mi voltavo
a vedere la neve sporca di sangue.
Io non mi voltavo neanche quando ero
nel campo e c'erano i mucchi di
cadaveri scomposti fuori dal
crematorio pronti per essere
bruciati. Io non mi voltavo per
guardare le compagne in punizione,
io non volevo sapere di torture, di
esperimenti, di racconti spaventosi,
Io non volevo sapere, io volevo
vivere e mi sdoppiavo in un'altra
personalità: non ero lì, non ero io
quella che faceva la marcia della
morte. Ci buttavamo come pazze sugli
immondezzai e raccoglievamo bucce di
patate, torsoli di cavolo marcio, un
osso già rosicchiato dal cane di
casa, e ci disputavamo questi orrori
io e le mie compagne, le bocche
sporche, scheletri orribili. Alzavo
la testa a vederle, le mie compagne,
e vedevo me stessa, la mia faccia
scheletrita, ferina, bestiale.
Eravamo le stesse a cui un anno o
due prima, intorno a una tavola ben
apparecchiata qualcuno aveva detto:
"Ho fatto per te la torta che ti
piace, ne vuoi ancora?". Ma lì non
c'era la tovaglia bianca, non c'era
il viso amato della nonna Olga
davanti a me. Rosicchiavo felice
quel pezzo di osso. Non importa se
poi avrei vomitato e avrei avuto la
diarrea: intanto mettevo qualcosa
nello stomaco.
Passammo così da un campo all'altro,
sempre più a Nord della Germania,
fino a quello di Malchow, l'ultimo
dove fui detenuta. Ci eravamo
arrivate con la forza della
disperazione, come non lo saprei più
dire; eravamo tanti chilometri
lontano da Auschwitz! Non lavoravamo
più in questo campo, non c'era più
quella disciplina dell'orario, della
fabbrica. Passavamo delle giornate
infinite, quasi più nessuno si
alzava da quei giacigli su cui
stavamo ammucchiate. Ma eravamo
ancora vive. C'erano dei ragazzi,
dei prigionieri francesi, che
passavano fuori dal campo e ci
dicevano: "Non morite! La guerra sta
per finire. I nostri aguzzini la
stanno perdendo, arrivano i russi da
una parte e gli americani
dall'altra." Noi rientravamo nelle
baracche e dicevamo a quelle che
veramente erano ormai alla fine: "Ci
hanno detto: non morite! Noi lo
ripetiamo a voi: non morite! La
guerra sta per finire."
Era una gioia troppo grande, noi che
eravamo abituate alla fame al
freddo, alle botte, all'aver perduto
tutto, alla paura costante, non
eravamo preparate a una gioia così
grande come quella. Era vero: gli
aguzzini stavano perdendo la guerra
e nel giro di pochi giorni portarono
via tutto da quel campo. Portavano
via scrivanie, macchine da scrivere,
soprattutto portavano via documenti
compromettenti su quegli orrori che
avevano perpetrato per anni e dei
quali non volevano lasciare tracce.
E, ancora una volta, ci comandarono
di evacuare il campo. Noi eravamo
ormai dei fantasmi e non ce
l'avremmo più fatta a fare una
marcia, ma quasi tutte ci alzammo da
quei giacigli, anche quelle in punto
di morte. E però, nel giro di
pochissime ore fummo testimoni della
storia che cambiava: i vincitori
diventavano vinti e i nostri
aguzzini buttavano le divise nei
fossi sul lato della strada,
buttavano le armi, scioglievano i
cani. I civili scappavano dalle case
trascinando dietro tutti i loro
valori. E noi, attonite, ci
guardavamo attorno e ci chiedevamo
che cosa stava succedendo. Vedevamo
i soldati tedeschi mettersi in
borghese, li guardavamo e li
immaginavamo tornare alle loro case:
affettuosi padri, solerti maestri,
coscienziosi impiegati di banca.
Poi, nel giro di pochissimo tempo,
arrivarono prima i camion dei
soldati americani che ci buttavano
tavolette di cioccolato, frutta
secca, sigarette. Poi le truppe
dell'Armata Rossa, gente di tutte le
etnie: mongoli, circassi, russi
bianchi. Un esercito disordinato,
con pochi mezzi, ma che aveva tenuto
in scacco l'esercito nazista per
molto tempo sul fronte russo. Erano
loro i vincitori.
A noi restava questa grande,
straordinaria, terribile esperienza:
il dolore, che non passerà mai, di
aver avuto Auschwitz nella nostra
vita. E il dovere di testimoniare di
quello che è stato, noi che abbiamo
avuto salva la vita, per tutti
quelli che non possono più parlare.
Liliana Segre
/x-tad-bigger>
(da "presentepassato")/x-tad-bigger>
~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~
3. INTERVISTA A LILIANA SEGRE
~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~
L'obiettivo dei nazisti era
cancellare dal mondo gli ebrei,
uomini o donne che fossero, e tutti,
nell'indicibile orrore dello
sterminio, seguirono lo stesso
percorso di fame, sfruttamento e
morte. Tuttavia riflettere sulla
peculiarità delle sofferenze e delle
sopraffazioni patite da uomini e
donne può aiutarci a superare il
neutro della testimonianza e a
comprendere le differenti
traiettorie esistenziali di
individui segnati da una diversa
educazione, da diversi ruoli
sociali, da diversi modi di
percepire e affrontare la
separazione, l'umiliazione, la
perdita. "Nel Lager ho sentito con
molta forza il pudore violato, il
disprezzo dei nazisti maschi verso
donne umiliate. Non credo
assolutamente che gli uomini
provassero la stessa cosa" dice
Liliana Segre, deportata nel Lager
femminile di Auschwitz-Birkenau
all'età di tredici anni. "Qualunque
delinquente comune aveva diritto di
vita e di morte su noi donne ebree,
generatrici di un popolo odioso. E
tuttavia noi di questo, allora, non
eravamo consapevoli. Sapevamo la
sopraffazione, la vergogna, la
brutale umiliazione che ci spogliava
della nostra umanità, e con essa
anche della nostra femminilità."
/x-tad-bigger>Mi
ha sempre colpito l'immagine usata
da Primo Levi quando paragona le
donne di Auschwitz a rane d'inverno./x-tad-bigger>
Sì, il secondo passo del celebre
comando con cui Primo Levi si
rivolge ai lettori di /x-tad-bigger>
Se questo è un
uomo/x-tad-bigger>:
"Considerate se questa è una donna/
senza capelli e senza nome/ Senza
più forza di ricordare/ Vuoti gli
occhi e freddo il grembo/ Come una
rana d'inverno." Una rana d'inverno
fa pensare a una bestiolina che
rabbrividisce nuda.
Mettere nudo un uomo davanti a un
altro uomo è senz'altro una cosa
umiliante e terribile. L'uno è
vestito, magari in divisa, con le
armi; l'altro è nudo, inerme, in
stato di completa debolezza. Eppure
mi pare che la donna nuda davanti
all'uomo armato sia sottoposta a un
oltraggio ancora maggiore. Ti
insegnano a stare sempre composta, a
vestire accollata, a provare pudore
del corpo. Poi, di colpo, nello
stesso giorno in cui ti strappano ai
tuoi familiari, nello stesso giorno
in cui scendi da un treno della
deportazione e arrivi in un posto
che non conosci, che non sai nemmeno
collocare geograficamente su una
cartina, ti ritrovi nuda insieme ad
altre disgraziate che, come te, non
capiscono niente di quello che sta
succedendo. Non c'è nulla, lì
attorno, che non faccia paura. Sei
terrorizzata, e intanto i soldati
passano sghignazzando, oppure si
mettono in un angolo discosto a
osservare la scena di queste donne
che vengono rasate, tatuate, già
umiliate, torturate per il solo
fatto di essere lì, nude.
/x-tad-bigger>
Una tortura che continuava nelle
continue selezioni./x-tad-bigger>
Quando c'erano le selezioni, le
donne sfilavano per essere lasciate
in vita o per essere messe a morte,
sempre nude, tra i soldati in
divisa. Era una persecuzione
talmente grave, talmente umiliante,
che per me è rimasta indimenticabile
tra i milioni di cose che non ho mai
dimenticato. Spesso mi capita di
raccontare nelle scuole che l'anno
prima, quando ero ancora una
persona, ero stata operata di
appendicite. Alla prima selezione
che passai, tra le SS c'era un
medico che mi mise un dito sulla
pancia, dove avevo la cicatrice. In
quel momento il mio cuore si fermò.
Pensai che quello mi mandasse a
morire. Invece no. Compiaciuto,
spiegava ai colleghi che il chirurgo
italiano era un cane, perché quella
cicatrice sarebbe rimasta visibile
per sempre, anche quando fossi stata
una donna adulta. Non mi guardavano
come una donna, ma come un capo di
bestiame di cui andassero esaminati
i quarti. Quando facevo la doccia
con le mie compagne, all'uscita dal
turno nella fabbrica di munizioni
Union, dovevamo tenere con un
braccio i nostri vestiti perché
nessuno li rubasse e con l'altro
lavarci sotto uno sgocciolio d'acqua
di volta in volta bollente o
ghiacciata, con un pezzetto di
sapone che non bisognava perdere,
altrimenti non ce ne sarebbe più
stato dato un altro. Poi uscivamo
nel gelo della notte, grondanti,
rimettendoci addosso i nostri
stracci. Durante tutto quel nostro
balletto grottesco sotto la doccia,
passavano i soldati. Non c'era un
solo momento in cui venisse
rispettata anche minimamente la
dignità della persona. E credo che
questo fosse ancora più doloroso per
una donna. Gli uomini normalmente
andavano a fare il militare, erano
abituati a una certa promiscuità in
cui la nudità non era sconvolgente
come lo era per noi. Non ho mai
sentito che avvenissero stupri o
violenze di quel genere, anche se
sicuramente ce ne saranno stati: le
leggi di Norimberga proibivano agli
ariani di accoppiarsi con le donne
delle razze cosiddette inferiori. Ma
era questo sprezzo a essere
intollerabile, questo ridere di noi,
questo punire ogni minima
disobbedienza facendoci stare
inginocchiate nude per delle ore. La
nudità è stata una costante e io
l'ho vissuta come una grande
persecuzione morale, aggiunta a una
situazione che era già di per sé
terribile.
/x-tad-bigger>
Alcune superstiti raccontano della
vergogna della nudità provata dalle
madri davanti alle proprie figlie.
/x-tad-bigger>
Mi è difficile rispondere a questa
domanda, perché una costante della
mia prigionia è stata la grande
solitudine. Mia madre è morta poco
dopo la mia nascita e il rapporto
fondamentale che ho avuto è stato
quello con mio padre. Ho visto pochi
gruppi familiari, nel Lager.
Sicuramente i legami familiari, se
da un lato potevano costituire un
grandissimo conforto, potevano
trasformarsi in un dolore
insostenibile, qualora all'altra,
sorella, madre, o peggio ancora,
figlia, succedesse qualcosa di
irreparabile. Non dico che fossi
contenta di essere sola, perché ho
sofferto tantissimo di solitudine,
però forse è stato meglio.
/x-tad-bigger>La
spoliazione della femminilità, la
rasatura, la perdita delle
mestruazioni, sono state un percorso
comune a tutte le donne./x-tad-bigger>
Sì, ne abbiamo risentito tutte
moltissimo. Io soffrivo parecchio
per le mestruazioni e ricordo che
uno dei primi pensieri arrivando lì
dentro era stato: e quando
arriveranno le mestruazioni come
farò? Non c'è stato questo problema
perché, vuoi per lo spavento, vuoi
per l'assoluta mancanza di cibo,
vuoi perché nell'orribile zuppa
mettevano, come si diceva, del
bismuto, a quasi nessuna vennero più
le mestruazioni, man mano che il
corpo perdeva le sue forme originali
e si trasformava in uno scheletro di
vecchia. D'un tratto, là dove c'era
il seno non c'è più niente o, in
certe donne, solo un po' di pelle
cascante. Le ossa delle anche ti
bucano la pelle, premendo come
spunzoni sul tavolaccio dove sei
costretta a dormire senza poterti
voltare, incuneata nei corpi delle
altre. Ti guardi le gambe e ti
sembra impossibile che ti possano
sorreggere. Hai la testa rasata, non
hai uno specchio, non hai nulla. Sei
una persona che non ha più nulla.
Non possiedi altro che quei pochi
stracci che ti metti addosso.
Ricordo che avevo una giacca con la
fodera mezzo strappata, e quella
fodera l'ho usata tutta per andare
in gabinetto. Anche queste cose,
giorno dopo giorno, vanno tutte a
scapito della tua femminilità, del
tuo essere una donna che lotta per
non abbrutirsi completamente. Quando
non hai un fazzoletto, come fai a
soffiarti il naso? Erano tutti
passaggi che portavano via un pezzo
di te.
/x-tad-bigger>
Come si poteva, in quelle
condizioni, tentare di mantenere una
sorta di integrità?
/x-tad-bigger>
Ti racconto di quando mi hanno
rasato i capelli. E' una storia che
racconto molto raramente. Come si
vede nell'unica fotografia che è
rimasta di me a tredici anni,
qualche mese prima dell'arresto,
avevo una massa enorme di capelli
neri, ricci, ribelli, proprio come
mia figlia oggi. Quando sono stata
deportata ad Auschwitz erano già due
mesi che non potevo lavarmi la
testa, però avevo un pettine e una
spazzola e cercavo di tenerli
ravviati. Il giorno del nostro
arrivo a Birkenau vedo le altre che
venivano rasate, ed ero già pronta
con la testa giù, rassegnata al
fatto che anche i miei capelli
sarebbero caduti lì, su quel
pavimento. Passa una sorvegliante SS
e dice alla prigioniera addetta alla
rasatura di non tagliarmi i capelli,
perché erano così belli che sarebbe
stato un peccato. Mi danno un
fazzoletto da legarmi in testa. Di
tutto il gruppetto sceso dal treno,
in quel gelo di Birkenau, eravamo
rimaste trenta ragazze non mandate a
morte; tutte le altre rasate, e io
con i miei capelli. Non più un
pettine, non più una spazzola, non
più una doccia per tutto il tempo
della quarantena. Avere i capelli
era un segno distintivo. Tutte le
kapò, tutte le prigioniere più
anziane che evidentemente avevano
dei meriti, tutte le politiche
avevano i capelli; eravamo noi a non
averli. Dopo quindici giorni mi
scelgono per lavorare nella fabbrica
Union, e intanto la testa mi prudeva
sempre di più. Erano due o tre
giorni che andavo in fabbrica, e mi
grattavo mentre ero al tavolo - mi
avevano appena insegnato che cosa
dovevo fare con certi pezzi di
munizioni - quando mi sento
camminare qualcosa sulla faccia,
proprio sulla guancia. Tocco, prendo
in mano, è un pidocchio, quell'immondo
insetto che è il pidocchio e che io
non avevo mai visto nella mia vita.
La prigioniera vicino a me - non era
italiana, non so chi fosse - rapata,
come ha visto il pidocchio ha
chiamato la kapò e questa mi ha
fatto subito uscire, prendendomi il
numero. Non sapevo che cosa mi
sarebbe successo. La mattina dopo mi
hanno mandato in una baracca che si
chiamava la Sauna, dove mi hanno
rapato a zero. La mia testa
completamente glabra era tremenda
solo da toccare. Sono stata lì tutto
il giorno. Non so se posso dire che
sia stato il giorno più brutto della
mia vita, perché ce ne sono stati
tanti, ma certamente uno dei
peggiori. Sono rimasta da sola per
ore, nuda, aggrappata a una piccola
stufa in quella stanza gelida,
enorme, con una finestra rotta.
Fuori c'era una tormenta di neve.
Era febbraio. Non c'era da sedersi,
non c'era da mangiare, nessuno che
mi dicesse una parola. Ero veramente
a un punto di non ritorno psichico
quando è entrata un'altra ragazza,
anche lei nella mia stessa
situazione, appena rapata, in attesa
che le disinfestassero i vestiti.
Poteva essere cecoslovacca, o
polacca. Certamente non ci capivamo,
perché nessuna delle due aveva
ancora imparato il tedesco. Poteva
avere sedici anni. E volevamo così
tanto comunicare, che ci facevamo
dei segni, ci salutavamo, ma non
sapevamo come rivolgerci l'una
all'altra. Alla fine abbiamo trovato
il latino. Mea familia pulchra est.
Mea patria pulchra est. E poi non so
cos'altro ci dicessimo: il mio cuore
è triste… bello che tu sia qui…
Pochissime frasi imbastite a fatica
in quella specie di esperanto dei
colti, che abbiamo continuato a
ripetere infinite volte, perché dire
la mia casa è lontana, la famiglia è
bella, il mio cuore è triste, in
quel contesto, nella nostra nudità -
lì sì, proprio rane, mentre
continuavano a passare i soldati che
si sganasciavano dalle risate, che
ci prendevano in giro - ci dava una
grande gioia.
/x-tad-bigger>
Ti sei mai data una spiegazione
riguardo a questo episodio?
Lasciarti i capelli è stato un
semplice arbitrio?
/x-tad-bigger>
La spiegazione al momento non l'ho
capita, ma poi dopo, ripensandoci,
era semplice: in quello che avveniva
non c'era assolutamente mai una
logica, anche se all'apparenza tutto
era preordinato. Nei giacigli dove
dormivamo in cinque o sei, si
agitavano gli insetti più schifosi.
Erano sui nostri corpi, nelle
cuciture dei vestiti. E nel campo
passavano dei topi spaventosi,
enormi, che si nutrivano di rifiuti,
di morti, di tutto. C'era una
sporcizia profonda, incredibile, ma
noi dovevamo ricoprire questi
giacigli a suon di bastonate, con
un'unica coperta in ottimo stato,
che doveva avere la piega fatta in
un certo modo, perfettamente
geometrico. Quando ho capito tutto
questo, e cioè che sotto la coperta
ci poteva essere qualunque
schifezza, ma che sopra tutto doveva
avere un aspetto perfetto, ho
trovato la risposta a un sacco di
cose. Entrando nella baracca, subito
all'ingresso, c'era la stanzina
della capo baracca, con le tendine
con i volant. Dentro si intravedeva
il divanoletto coperto di cinz. Poi
andavi più avanti e c'era una
carriola che di notte si riempiva
degli escrementi, e più oltre i
giacigli a tre piani, luridi, pieni
di gente piagata, malata, urlante.
Noi, nelle condizioni psicofisiche
in cui eravamo, per andare al lavoro
dovevamo marciare cantando, e
passare davanti all'orchestrina
delle donne violiniste sulla porta
del Lager, sia che si andasse a
morte, sia che si andasse a
lavorare. Vedi che è un po' tutto la
stessa cosa?
/x-tad-bigger>
Quali strategie di sopravvivenza hai
adottato?
/x-tad-bigger>
Adesso che sono nonna e che mi
rivedo lì come ero allora, mi dico:
quante scelte ho fatto da sola, come
sono stata triste, come sono stata
matura, come sono stata ingenua,
come ho sfidato determinati pericoli
senza neanche capirli. Nessuna mi ha
suggerito come comportarmi, ho
capito da sola di dover fare tutto
quello che stava in me per non farmi
notare, soprattutto quando non ho
più avuto i capelli e sono diventata
molto più uguale alle altre. Anche
se avere i capelli era uno status
symbol, non averli mi rendeva ancora
più invisibile. D'altra parte non
avrei avuto alcuna capacità di
mantenere uno status symbol, perché
non capivo cosa mi dicevano, ed ero
così assolutamente giovane… e poi io
sono una mite, non avrei mai potuto
prevaricare nessuno. Una nullità
sono stata sempre, e una nullità
sono rimasta, però ho sempre fatto
in modo di non essere nessuno. Non
piangere, non ridere, non star male.
Ho avuto degli ascessi, la febbre,
ma non sono mai andata a dire a
nessuno che stavo male, e a tredici
anni non è stato facile. Qualche
anno fa ho incontrato un politico
che era stato anche lui ad Auschwitz
e mi ha detto, ti ricordi la
Vistola? La Vistola? Io non l'ho mai
vista, la Vistola. A parte il fatto
che noi facevamo un percorso in cui
non si andava vicino al fiume, ma se
anche ci fossi stata, io la Vistola
non l'avrei neanche guardata, perché
mi guardavo sempre i piedi. Avevo
un'idea perfetta di come erano fatti
i miei zoccoli, ma quello che mi
circondava era talmente orribile che
io non guardavo. Avevo sempre paura
di non ritrovare la mia baracca
quando uscivo dalla doccia, che era
in un'altra baracca un po' discosta.
Andavo dietro a qualcun'altra,
perché anche dopo mesi, soprattutto
d'inverno, quando c'era la neve, non
riconoscevo i posti. Era tutto
uguale, baracche uguali, nessuno ti
dava una risposta, non si poteva
stare in giro. Andavo a testa bassa
dietro a un'altra. Era troppo per
me, capisci? Volevo mantenere il mio
cervello funzionante, pensavo sempre
ad altre cose, lungo la strada
magari ripercorrevo tutta la trama
di un film che avevo visto. Mi
toglievo da lì, non so come dirti.
/x-tad-bigger>
Una volta hai raccontato che
immaginavi di essere una stella, e
che questo ti ha salvato la vita.
/x-tad-bigger>
Sì, la stellina è stata importante.
Infatti io ho sempre delle stelline,
come questo ciondolo che porto al
collo, perché me le regalano. Quando
c'era sereno la ritrovavo nel cielo,
e pensavo di essere quella stellina,
di non essere lì, di essere libera.
Non avevo certo dei manuali di
sopravvivenza, né mai avrei pensato
che ne avrei avuto bisogno, però i
metodi per sopravvivere mentalmente
li ho sperimentati tutti. Quando,
molti anni dopo, ho letto Bettelheim,
in certe cose non mi sono
assolutamente riconosciuta,
soprattutto nella violenza che
sostiene si sviluppi in chi è
passato attraverso queste
esperienze. Io sono assolutamente il
contrario di una persona violenta.
Sono una persona di pace, non ho mai
cercato vendette, non sarei mai
stata capace di fare nulla di
violento neanche contro il mio
carnefice. Non ho sviluppato questi
meccanismi di autodifesa
psicologica, però tanti altri sì.
Proibirmi i ricordi, soprattutto.
Dopo sì, dopo i ricordi mi hanno
aggredito per tutta la vita, ma
appena arrivata lì dentro avevo già
capito che non potevo permettermeli.
La nostalgia era un'arma terribile
nei nostri confronti, perché come si
fa a ricordare e a sopravvivere
senza impazzire?
/x-tad-bigger>
Vi scambiavate delle ricette.
/x-tad-bigger>
Spesso i ragazzi delle scuole mi
domandano di che cosa parlassimo nel
Lager. Credono che tra noi
prigioniere facessimo discorsi molto
elevati, che analizzassimo la nostra
situazione, che cercassimo di capire
i meccanismi dell'odio contro gli
ebrei, e io mi sono sempre resa
conto di deluderli nella mia
risposta, ma le prigioniere non
facevano discorsi aulici. Ci sarà
certamente stata qualcuna che li
avrà fatti, ma non quelle
disgraziate con cui stavo io. Quello
che racconto sempre è che, man mano
che i corpi diventavano scheletri,
man mano che i crampi si facevano
più forti, immaginavamo di mangiare,
e facevamo una specie di gara in cui
ognuna inventava il pranzo più
buono, ed era tutto un immaginarsi,
a seconda del luogo di provenienza,
montagne di spaghetti, di crauti, di
palacinche. Soprattutto i dolci.
Nella nostra fantasia creavamo torte
ricchissime, piramidi di bignè con
la crema, la panna, il cioccolato,
ci aggiungevamo qualunque cosa.
Oppure dicevamo: se riusciremo a
tornare, io ti invito. Questa era
una cosa ricorrente: io ti invito a
casa mia e ti faccio questo e poi
quello e poi quell'altro… Adesso che
siamo vecchie, io e Luciana
Sacerdote, che sta a Genova e che
era con me ad Auschwitz, qualche
volta ci incontriamo e andiamo a
mangiare al ristorante insieme, e
ogni volta ci diciamo: io ti invito,
e mangiamo questo e quell'altro. E
poi una ha mal di stomaco, l'altra
sta attenta a non ingrassare. Siamo
vecchie e la fame non è quella di
allora, però ce lo ricordiamo
sempre.
/x-tad-bigger>
Quindi, pur nella solitudine di cui
parlavi prima, ci sono state delle
relazioni significative.
/x-tad-bigger>
Guarda, lei era con sua sorella,
erano un duo autosufficiente. La
sorella aveva dieci anni più di me,
poverina, è morta subito dopo la
liberazione. Certamente, essendo tre
ragazze abbastanza giovani che
provenivano da famiglie agnostiche,
borghesi, tutte e tre con lo stesso
tipo di educazione, ci siamo trovate
più che con altre, e poi abbiamo
lavorato nella stessa fabbrica.
Altre italiane che sono arrivate
insieme a noi sono state mandate
altrove. C'era anche Graziella Cohen,
una ragazza di Roma, analfabeta, che
veniva da una famiglia di ambulanti.
E' rimasto un discreto legame ma,
devo dire la verità, io ero molto
più giovane di loro eppure ero
estremamente più matura. Loro erano
più vaghe, in un certo senso anche
più incoscienti, e poi io non mi
volevo attaccare. Volevo bene anche
a Laura, poverina, che si è ammalata
molto presto di cuore, era uno
scheletro gonfio, le caviglie
gonfie, il collo gonfio… Ma quello
era uno dei miei meccanismi di
sopravvivenza: i distacchi non li
potevo sopportare, e allora temevo i
legami stretti. Sicuramente se
avessi incontrato una Goti Bauer
sarebbe stato diverso… Goti era una
spalla su cui piangere. Goti è una
persona assolutamente eccezionale in
qualunque contesto. Che la si
incontri in cima al Monte Bianco o
all'inferno - com'era quello - lei è
un dono. Le persone assolutamente
eccezionali, anche in quella
situazione, ti potevano dare, ma gli
altri, noi comuni mortali, noi che
non abbiamo la ricchezza spirituale
che ha una Goti, o che hanno avuto
altre, come si capisce da diari come
quelli di Etty Hillesum o di Anna
Frank… Là dove sei un essere
qualunque con altri esseri qualunque
a cui capita una cosa di questo
genere, pretendere di trovare la
grande umanità, la generosità, la
disponibilità per l'altro sarebbe
chiedere molto. Io non l'ho chiesta,
ma neanche l'ho data. Eravamo delle
isole, capisci? Proprio delle isole…
Sai, quelle isole che ci sono in
mezzo agli oceani, attorno alle
quali, per paura che le onde
spazzino via il faro, si
costruiscono delle muraglie, dei
contrafforti. Così eravamo noi. Io
me l'immagino così la mia mente, la
mia anima, com'era allora. Per non
farmela portar via, forse.
/x-tad-bigger>
Parliamo invece delle donne
dall'altra parte.
/x-tad-bigger>
Non so perché, avevo sempre visto
l'uomo come carnefice. Mio padre era
stato arrestato da uomini. Quando
ero stata in prigione, i secondini
erano uomini. Solo nel carcere di
Varese e di Como era stata una donna
carceriera a buttarmi nella cella,
ma per il resto nella mia testa
erano sempre gli uomini quelli che
esercitavano violenza. Invece nel
Lager femminile di Birkenau, dove
erano rinchiuse sessantamila donne,
c'erano tutte le gerarchie
femminili. Per me è stato terribile
vedere che le efferatezze più
straordinarie venivano compiute da
donne su altre donne. Erano forse
peggio degli uomini, per quello che
ho visto. Non per nulla alcune SS
donne sono state condannate a morte
dopo la guerra. Qualcuna di loro me
la ricordavo perché l'avevo vista ad
Auschwitz. Eravamo le pariah del
campo, noi triangoli gialli. Le
altre categorie di prigioniere -
delinquenti comuni, prostitute, non
parliamo delle politiche - avevano
qualunque diritto su di noi,
potevano farci qualsiasi cosa. Le
kapò erano prese tra le assassine
delle carceri, tra quelle che
avevano fatto le cose più atroci, in
modo che potessero tranquillamente
bastonare a morte una prigioniera
che non obbedisse ciecamente agli
ordini. Al di sopra delle kapò
c'erano le SS donne, che avevano
stivaloni con un puntale di ferro,
ufficialmente per non consumare la
suola, ma in realtà per sferrare
calci più violenti. Quando tornavamo
dal lavoro, vedevamo ai lati della
strada principale del campo donne
prigioniere scheletrite che dovevano
tenere alto un masso, per ore.
Questa era tra le punizioni più
consuete. E se il masso cadeva,
allora raddoppiava il tempo.
Venivamo trattate con una violenza
infinita. Ho preso tanti schiaffi e
pugni senza sapere neanche perché.
Passavi e ti tiravano un ceffone da
voltarti la faccia. E poi, d'un
tratto, queste sorveglianti tedesche
si trasformavano davanti ai maschi
SS in femmine che sbattevano gli
occhi, sorridenti. A quei tempi
l'approccio col maschio era
assolutamente più sottile, ma
inequivocabile, e questa doppia
faccia era impressionante. Erano
degli studi che non avevo la
maturità, la cultura, e neanche il
tempo di fare. Non sto parlando del
tempo scandito dalle ore,
ovviamente. Non avevo il tempo
perché dovevo sopravvivere. Eppure
erano dei personaggi da studiare a
fondo. Nella donna devo dire che
questo comportamento mi faceva molto
effetto, così come mi ha fatto molto
effetto sapere che ci sono state -
io non le ho conosciute
personalmente, ma Goti sì - anche
delle kapò ebree. E Goti, che ha
questa nobiltà d'animo eccezionale
di cui parlavo prima, diceva, sai,
anche condannare una persona è molto
difficile, perché quando una invece
di stare lì dentro sei mesi, un
anno, come siamo state noi, ce ne
sta cinque, come si deve trasformare
per sopravvivere giorno dopo giorno?
Per me è difficile giudicare, perché
allora, in un certo senso, anche la
prigioniera che rubava i vestiti
all'altra, o le scarpe, avendo
necessità di scambiarli con una
fetta di pane, non era colpevole. E
invece era estremamente colpevole.
Una che in quella situazione ti ruba
una cosa senza la quale non puoi
sopravvivere è estremamente
colpevole. Andare senza scarpe nella
neve poteva significare morire di
polmonite. Non lo so, non lo posso
neanche immaginare, perché a me non
hanno mai rubato nulla.
/x-tad-bigger>
Ci sono persone che ti tornano in
mente?
/x-tad-bigger>
Quando ero a San Vittore entravano
continuamente nuove persone prese
con le retate, parlo sempre del
quinto raggio in cui c'erano gli
ebrei. Un giorno arriva un certo
Peppino Levi di Milano, un amico di
mio papà. Era un bellissimo uomo,
trentottenne. Io non l'avevo mai
visto, o perlomeno non me lo
ricordavo. Forse lo avevano preso in
montagna, perché era abbronzato, il
ritratto della salute, muscoloso,
sportivo, aitante. Avevo tredici
anni, l'età in cui si cominciano a
guardare i ragazzi con un occhio
diverso. Questo era un uomo, ma
sentivo che mi piaceva, anche se in
un modo assolutamente infantile.
Entra e dice subito a mio papà,
Alberto, mica ci faremo portare via
da qui come pecore, dobbiamo
assolutamente fuggire. Ogni giorno
prendeva appunti sugli orari delle
sentinelle, calcolava l'altezza del
muro, rimuginava su come rompere il
vetro e saltare giù dal muro, e ogni
giorno veniva con un foglio a
spiegare i suoi piani a mio padre, e
mio padre rispondeva sempre, ancora
ancora fossi solo, lo farei, ma con
la bambina… Credo che ci avrebbero
sparato sul muro, intendiamoci, ma
Peppino Levi rimase tanto male.
Arriva il giorno della deportazione
e ci portano via. Ci caricano su
vagoni diversi. Non l'ho più visto,
neanche all'arrivo. Passa un anno.
Viene gennaio, l'evacuazione dal
Lager, la Marcia della Morte che
abbiamo fatto in 56mila. Pochissimi
sono arrivati a destinazione e io,
non so come, sono stata tra questi.
In uno spostamento tra un Lager e
un'altro, forse eravamo partite da
Ravensbrück, ci fanno entrare in una
struttura di passaggio. Eravamo in
uno stato di sporcizia inenarrabile
e, sempre per quelle cose di cui era
incomprensibile il motivo, decidono
che tutte dovevamo passare alla
disinfestazione prima di entrare
nell'altro Lager. Ci fanno entrare
in una costruzione molto grande in
cui c'erano degli uomini
prigionieri, vestiti a righe, con
quella pompa del fleet, quella per
dare il disinfettante sulle viti.
Dovevano disinfettarci la testa, le
ascelle e il pube, dove nel
frattempo erano cresciuti un po' di
peli. Chi mi ha fatto questo lavoro?
Io nuda, scheletro, e lui ridotto da
non dire, tanto che poi è morto?
Peppino Levi. Peppino Levi era il
prigioniero adibito alla fila dove
mi trovavo io. Era il febbraio del
'45, era passato più di un anno. Ci
siamo riconosciuti. Mi vengono
ancora i brividi a pensarci. Mi
aveva visto con i miei ricci,
vestita ancora normale, e adesso ero
uno scheletro con un fagotto
penzolante dal braccio. E lui, da
quell'uomo muscoloso che era, uno
scheletro, anche lui. Obbligato a
farmi quel lavoro. Quei tre spruzzi
di disinfettante. Ci siamo guardati,
solo un attimo. Liliana. Peppino.
Sarebbe stato meglio se avessimo
saltato quel muro. Tutto qui. Sono
passata oltre. Non l'ho più visto.
Qualcuno mi ha detto che è morto a
Mauthausen.
/x-tad-bigger>
Ti senti di raccontarmi il dopo, il
ritorno?
/x-tad-bigger>
Il ritorno per me è stata una pagina
molto pesante. Sono passati quattro
mesi prima che tornassi a Milano,
dopo la liberazione, perché gli
americani avevano organizzato il
rimpatrio di tutti, anche di quei
seicentomila soldati italiani di cui
non si parla mai, quei seicentomila
che non hanno aderito alla
Repubblica Sociale Italiana e che
avrebbero potuto uscire dai campi e
tornare in Italia, se avessero
scelto di combattere a fianco dei
nazi-fascisti. Sono storie eroiche
di cui si è parlato poco o niente,
ma io li ho conosciuti, questi
ragazzi. Sono stata liberata il
primo maggio ma sono stata
rimpatriata in agosto. In quei
quattro mesi io, che ero trentadue
chili, pesata dagli inglesi, sono
ingrassata di quaranta chili, dieci
chili al mese. Sono tornata che ero
grossa, gonfia, mi sono tornate le
mestruazioni nel mese di luglio. I
miei parenti, che erano i nonni
materni che si erano salvati a Roma,
e mio zio, il fratello di mio papà,
che si era salvato in Valsesia in
una zona di partigiani, quando mi
hanno visto, cosa ti posso dire? si
aspettavano lo scheletro e hanno
trovato questa ragazzona selvaggia,
brutta, malmessa, goffa. Non hanno
celato sufficientemente quanto gli
dispiacessi, perché era così, io lo
capivo. Mentre alla ragazza
scheletro avrebbero fatto un certo
tipo di accoglienza, di questo
personaggio quasi irriconoscibile,
così diverso dalla ragazzina bene
che era uscita da casa, non sapevano
che farsene. Sono stata ingombrante
da subito. Baci, abbracci, io stavo
lì come un pupazzo. E' stato
tremendo. Ero andata alla mia casa
di un tempo, abitavo in corso
Magenta. Finestre chiuse. Gli altri
coinquilini sono venuti giù, chi mi
ha fatto lavare nella vasca, chi mi
ha dato i vestiti, e intanto il
portinaio ha telefonato a mio zio
che era già passato varie volte per
sentire se c'erano notizie di suo
fratello, dei suoi genitori, e di
me, naturalmente. Dopo un po' che
ero lì sono arrivati questi
poveretti, commossi, stupiti di
vedermi. Ero un personaggio
selvaggio, abituata da quattro mesi
a stare con i soldati, dicevo
parolacce. Tutto da rifare, e tutto
da rifare in tutti i sensi, perché
non avevo più la mia famiglia, non
avevo più la mia casa. Ero
profondamente cambiata, certo, e me
l'ero cavata da sola. Pensa che al
ritorno, quando la tradotta militare
ci ha riportati indietro e ha
passato il confine al Brennero per
poi fermarsi a Bolzano, ho visto un
foglio affisso in una bacheca dove
c'era scritto che per sei mesi
avrebbero dato vitto, alloggio e un
minimo stipendio a chi non avesse
ritrovato casa e lavoro. Sono andata
immediatamente a mettere il mio
nome, cognome e l'indirizzo di certi
amici cattolici, che quindi speravo
esistessero ancora, perché, mi sono
detta, se io non trovo nessuno cosa
faccio? torno qua per sei mesi e
qualche cosa succederà. Non avevo
ancora quindici anni. Li ho compiuti
dopo.
/x-tad-bigger>
Secondo te il reinserimento è stato
più difficile, per le donne?
/x-tad-bigger>
Ho incontrato all'Aned le famose
operaie della Franco Tosi, e ricordo
che una di loro mi raccontava che,
tornata a casa, i genitori l'avevano
apostrofata: cosa hai fatto, te?
Cosa hai fatto per cavartela? Si
dava per scontato che la donna fosse
andata a letto con tutti, per
cavarsela, mentre a nessuno veniva
in mente di chiedere a un uomo se si
fosse prostituito, per cavarsela.
L'altro sospetto nei confronti delle
donne che tornavano dal Lager era:
sei diventata una kapò? Io ero di
un'ingenuità tale, nonostante la
vita con i soldati, che è stata una
mia cugina, al ritorno, a
raccontarmi come funzionava la vita
sessuale tra uomo e donna. Poi,
quando sono entrata sotto la tutela
dei miei parenti, sono iniziati anni
tremendi: non uscire se non sei
accompagnata, vai a lavarti le mani,
saluta educatamente, adesso non
pensare più alle brutte cose, è
tutto passato. Io ero un animale
ferito e veramente mi sono sentita
di una solitudine… non posso dire
maggiore che nel Lager, perché,
certo, avevo un bel letto, potevo
fare un bagno ogni volta che lo
desideravo, potevo mangiare quanto
volevo. Erano cose che valutavo
molto, che non davo per scontate,
perché avevo provato a stare
completamente senza. Ho cominciato
ad andare dal parrucchiere, non
avevo più pidocchi. I vantaggi erano
tantissimi, ma la solitudine era
maggiore, perché non c'era la
condivisione con le altre
prigioniere. Anche se non andavo
d'accordo con loro, se parlavano una
lingua che non capivo, se le
condizioni di vita erano così
orripilanti da farci essere
guardinghe l'una nei confronti
dell'altra, però eravamo tutte
prigioniere, eravamo tutte oppresse
dallo stesso dolore. Qui io non ero
più niente. Le mie coetanee, che
cosa avevano a che fare con me,
interessate com'erano ai vestiti, ai
ragazzi? Io che sono una persona
molto socievole, che ho sempre avuto
tante amiche, e ne ho tuttora,
allora ero… cerco una parola più
forte di solitudine. Era proprio
un'unicità della Shoah che si
rifletteva in me. Non avevo un
referente di nessun tipo, non avevo
nessuno che mi amasse così tanto da
dire non ti capisco ma ti accetto
come sei, ti amo come sei, sono
comunque felice che tu sia qui, fai
quello che vuoi ma sei qui. Anche i
miei nonni materni, mia nonna
soprattutto, che ho molto amato,
soffriva per come ero, ribelle,
maleducata. Diseducata, più che
maleducata. Non accettavo i
discorsi, mi dava fastidio tutto. Mi
tenevo male. Il fatto di essere
lavata e coperta mi bastava. Ricordo
che una volta, dopo pochi giorni,
sono uscita con un mio zio, un
fratello di mia mamma che si era
salvato in Svizzera e che mi
accompagnava forse al cinema… Mi ha
guardato e mi ha detto come sei
conciata? Sei brutta. Stai
malissimo. Io volevo essere
accettata, bella o brutta che fossi.
Il desiderio di essere decente è
venuto dopo. Al momento ero viva, ed
era già una cosa così straordinaria.
Che cosa mi importava di essere mal
vestita? Avrei voluto essere morta,
veramente. Avevo tanto lottato per
essere viva, per tornare, per non
essere uccisa, per sperare, sperare,
sperare. Tutte le mie difese erano
cadute, e niente e nessuno era come
me lo immaginavo. Non avevo più la
mia casa, non avevo più i miei
oggetti, non avevo più quelle
persone di cui non posso neanche
parlare da quanto la sofferenza è
acuta, anche dopo tanti anni. Tutto
un mondo che mi doveva accettare.
Non avevo neanche il conforto di
appartenere a una famiglia che mi
avesse trasmesso dei valori
religiosi. Ero un essere disgraziato
che voleva morire, che riteneva una
gran disgrazia non essere morta là.
Sono stati degli anni molto duri in
cui non so che cosa avrei potuto
diventare, forse una disadattata
mentale. Poi invece, piano piano,
prima di tutto lo studio, e poi la
fortuna immensa di incontrare mio
marito, che ha dieci anni più di me
e che era uno di quei seicentomila
soldati che hanno detto no. Un
cattolico che era stato preso dopo
l'8 settembre in Grecia, portato in
Germania dove ha fatto sette campi -
che non sono stati di sterminio,
sono stati di concentramento - ma
sapeva bene che cosa voleva dire, e
che è uno di quelli che sono rimasti
volontariamente nel campo per non
aver aderito alla Repubblica. Ci
siamo innamorati, e quando ho avuto
vent'anni ci siamo sposati. Ho avuto
la fortuna di diventare mamma, non
una ma tre volte. Sono diventata
all'apparenza una donna normale, e
in fondo anche abbastanza nella
sostanza, perché io mi sento
normale. Sì, ci sono delle cose che
anche adesso mi fanno molta
impressione, proprio a livello
visivo, il fuoco, certi odori, la
ciminiera, il treno merci. Ci sono
tante cose di questo tipo, però nel
complesso faccio una vita normale e
la continuo a fare. Adesso poi, da
dieci, undici anni sono diventata
una donna pubblica, tra virgolette,
perché mi sono messa a fare la
testimone, ma prima ero una donna
normale che lavora, che ha una sua
casa, una sua famiglia. Una donna di
pace.
/x-tad-bigger>
Com'è il rapporto con tua figlia?
/x-tad-bigger>
E' splendido, perché mia figlia è
splendida. Tutti e tre i miei figli
hanno molto risentito di avere una
madre con questo bagaglio di
passato, ma lei che è l'ultima e
che, essendo femmina, sta molto più
con me, a un certo punto ha molto
sofferto della consapevolezza di ciò
che ho passato. E' stata sette anni
in analisi, ha dovuto fare un duro
lavoro per arginare la sua enorme
sensibilità. D'altra parte molti
psicanalisti sanno che cosa
significhi aiutare i sopravvissuti,
i loro figli e anche quelli di terza
generazione; sanno benissimo che
cosa significhi essere figli
dell'Olocausto. Significa essere
segnati da una ferita non
rimarginabile, anche senza aver
vissuto in prima persona lo
sterminio. Ci sono tanti modi di
rispondere a queste storie
familiari: c'è il rifiuto, c'è
l'identificazione, c'è il volere a
tutti i costi compensare il tuo
amato di quello che non ha avuto.
Mia figlia mi vorrebbe proteggere
anche da un moscerino, è sempre
pronta: ci sono io, ci sono io, ci
sono io, mi dice sempre.
/x-tad-bigger>
Hai raccontato ai tuoi figli ciò che
ti è accaduto, oppure c'è una
trasmissione che passa per altre vie
che non sono la parola?
/x-tad-bigger>
Credevo di non aver mai parlato di
questo argomento con loro, però
quello che ho vissuto è venuto fuori
mille volte, in mille modi, dal mio
numero sul braccio al fatto che a
tavola non si doveva mai dire questo
non mi piace. Ho paura di tante
cose, del buio, di stare da sola.
Evidentemente le ferite non si
trasmettono solo con le parole. Mia
figlia è tra i fondatori
dell'associazione Figli della Shoah,
che ha proprio questo scopo,
trasmettere la memoria della Shoah,
ma anche dare sostegno alle persone
segnate da uno stesso dolore: essere
figli di noi sopravvissuti. Tutti e
tre i miei figli si sono
documentati, hanno approfondito, e
sono dei grandi difensori, dei
grandi paladini della loro madre, ma
con lei c'è questa straordinaria
unione. Non che io ami meno i miei
figli maschi, ma è che con mia
figlia condivido molte più cose. Sì,
devo dire che in linea femminile c'è
una grande identificazione, una
solidarietà, una vicinanza che io
non ho conosciuto, avendo perso così
presto la mamma. Avevo una nonna, la
mamma di mia mamma, che ho molto
amato, ma sono sempre stata io a
proteggerla, non è lei che ha
protetto me. Non è stata una spalla
su cui piangere. Questo mi è molto
mancato nella vita. Però l'amore ha
sostituito la spalla, perché con mio
marito volevo ridere, non volevo
piangere.
Daniela Padoan
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(da "Donne e conoscenza storica")/x-tad-bigger>
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INDIRIZZI INTERNET
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Storia dell'Olocausto/x-tad-bigger>
http://www.olokaustos.org/
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binario 21/x-tad-bigger>
http://www.binario21.org/
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