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26 gennaio 2006
L'antisemitismo non risparmiò gli ebrei napoletani
segnalazione di Fulvio Del Deo

 

 


di Titti Marrone

Ci sono casi in cui la reputazione di tolleranza di cui gode Napoli rischia di tramutarsi in stereotipo fuorviante. Succede quando si parla di persecuzione antiebraica e di leggi razziali. È infatti convinzione diffusa che, non essendoci state a Napoli retate e deportazioni in massa verso i lager, cominciate in Italia con il rastrellamento del 16 ottobre 1943 nel ghetto di Roma quando a Sud era già avvenuto lo sbarco alleato, non ci sia stata nemmeno la discriminazione contro gli ebrei. E invece una quantità di vicende personali, non ancora raccolte organicamente in un unico studio ma affiorate solo da poco tempo in testimonanze, filmati, libri e tesi di laurea, raccontano i percorsi di sofferenza solitaria degli ebrei napoletani, finora scappati dalle maglie larghe della grande storia. Vale la pena raccoglierle, decifrarle, come faremo da qui al 27 gennaio, sessantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz: dicono, contro ogni luogo comune, quanto fu dura la vita vissuta dagli esponenti della comunità più a Sud della penisola, fondata nel 1862 da un Rotschild, dopo la promulgazione delle leggi del 1938. In quell'anno a Napoli gli ebrei si contavano in 714, più numerosi che in passato, ed erano assai integrati nella vita cittadina: era stato un ebreo, Giorgio Ascarelli, il primo presidente del Calcio Napoli. Molti di essi, come Aldo Sinigallia, avevano combattuto nella prima guerra mondiale, conservavano con fierezza la divisa e le decorazioni da ufficiali del Regio esercito italiano ed erano animati da spirito patriottico che li faceva sentire tutt'altro che estranei alla guerra di Mussolini. Poi arrivò, a Napoli come nel resto d'Italia, quel «corpus» legislativo che, privandoli del diritto al lavoro, alla proprietà, all'insegnamento, a frequentare le scuole e le università, cambiò il segno delle loro vite. Non contò più niente che l'economista napoletano Bruno Foà avesse divulgato in Italia le teorie di John Maynard Keynes e della Scuola di Cambridge: quando il suo nome comparve in quell'elenco, fece le valigie, salutò Napoli per l'ultima volta e partì per Londra. Di lì a poco, dalla «Federico II» furono cacciati cinque tra i più prestigiosi docenti: Anna Foà, Ugo Forti, Ezio Levi D'Ancona, Donato Ottolenghi, Alessandro Graziani. Il figlio di quest'ultimo, l'economista Augusto Graziani, allora bambino di 5 anni, non dimenticherà mai quel che ne seguì: la consapevolezza angosciosa e improvvisa di essere «un ebreo figlio di ebrei», il reddito familiare di colpo assottigliato, i lavori «arrangiati» cui l'ex titolare di Diritto della Navigazione si trovò costretto, redigendo atti per conto di studi legali senza che il suo nome comparisse. Come agli altri bambini ebrei, anche ad Augusto Graziani e alla sorella non fu possibile frequentare le scuole napoletane, e si pose il problema di un'istruzione a casa. Una delle tre eccezioni italiane a quella legge del 1938 si ebbe proprio a Napoli, e fu la storia dei dieci bambini per i quali la scuola elementare «Vanvitelli» istituì una sezione speciale, separata dagli altri alunni, con orari sfalsati per l'entrata e l'uscita e senza intervalli, in modo da impedire contatti con gli «ariani». Di quella classe, la cui vicenda è stata resa nota per la prima volta dal nostro giornale qualche anno fa, fece parte il piccolo Dino Assom, che nel 1940 sarebbe stato espulso dall'Italia con la famiglia e mandato a Salonicco, dove sarebbe stato deportato ad Auschwitz e gasato. E tra la scuola «Vanvitelli» e Salonicco si diparte l'altro doloroso destino di una famiglia ebraica napoletana, quella dei Bivasch: e se il piccolo Alberto, compagno di banco di Dino, riuscì a salvarsi, così non fu per il padre, catturato a Salonicco e sterminato nel lager. Dopo il 1938 tutte le famiglie ebraiche di Napoli, comprese quelle con uno dei due coniugi cattolici, ricevettero per posta la richiesta che una mattina arrivò a casa di Gisella Perlow: «documentazione dalla quale possa desumersi che da parte di ciascuno dei figli non concorre alcuna manifestazione di ebraismo». Quella lettera avrebbe indotto Gisella, sposata al cattolico Eduardo De Simone, a fuggire da Napoli a Fiume con il figlio Sergio, andando incontro alla deportazione che sarebbe costata la vita al bambino. A Napoli come altrove, l'ostilità cresceva intorno ai bambini ebrei: Tullio Foà ricorda i suoi compagni di giochi, improvvisamente nemici, che gli negavano la bibicletta perché «un ebreo, usandola, l'avrebbe sporcata». Bice Foà ha ancora in testa le raccomandazioni dei genitori: «Non salutare per prima, non dire mai il tuo nome». E David Schiffer, di origine ungherese, non dimenticherà mai quei manifesti improvvisamente affissi sui muri di Procida, dove si era trasferito dal Cuneese con la famiglia: raffiguravano ebrei con i nasi adunchi e occhi rapaci, intenti ad accarezzare sacchi di denaro. E come in un incubo i procidani, da gentili e ospitali, si trasformarono in ostili, catturarono suo zio, dirigente della Società Elettrica sospettato di aver fatto mancare l'audio della radio al momento dell'annuncio dell'entrata in guerra. Niente fu più come prima, né a Napoli né in altre parti d'Italia, dopo quelle leggi promulgate dallo Stato italiano, nell'indifferenza di tutti.

(da: Il Mattino)

 


     

Le riflessioni di Fulvio Del Deo

 

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