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di
/x-tad-bigger>Titti Marrone /x-tad-bigger>
Ci sono casi in cui la reputazione di
tolleranza di cui gode Napoli rischia di
tramutarsi in stereotipo fuorviante. Succede
quando si parla di persecuzione antiebraica
e di leggi razziali. È infatti convinzione
diffusa che, non essendoci state a Napoli
retate e deportazioni in massa verso i
lager, cominciate in Italia con il
rastrellamento del 16 ottobre 1943 nel
ghetto di Roma quando a Sud era già avvenuto
lo sbarco alleato, non ci sia stata nemmeno
la discriminazione contro gli ebrei. E
invece una quantità di vicende personali,
non ancora raccolte organicamente in un
unico studio ma affiorate solo da poco tempo
in testimonanze, filmati, libri e tesi di
laurea, raccontano i percorsi di sofferenza
solitaria degli ebrei napoletani, finora
scappati dalle maglie larghe della grande
storia. Vale la pena raccoglierle,
decifrarle, come faremo da qui al 27
gennaio, sessantesimo anniversario della
liberazione di Auschwitz: dicono, contro
ogni luogo comune, quanto fu dura la vita
vissuta dagli esponenti della comunità più a
Sud della penisola, fondata nel 1862 da un
Rotschild, dopo la promulgazione delle leggi
del 1938. In quell'anno a Napoli gli ebrei
si contavano in 714, più numerosi che in
passato, ed erano assai integrati nella vita
cittadina: era stato un ebreo, Giorgio
Ascarelli, il primo presidente del Calcio
Napoli. Molti di essi, come Aldo Sinigallia,
avevano combattuto nella prima guerra
mondiale, conservavano con fierezza la
divisa e le decorazioni da ufficiali del
Regio esercito italiano ed erano animati da
spirito patriottico che li faceva sentire
tutt'altro che estranei alla guerra di
Mussolini. Poi arrivò, a Napoli come nel
resto d'Italia, quel «corpus» legislativo
che, privandoli del diritto al lavoro, alla
proprietà, all'insegnamento, a frequentare
le scuole e le università, cambiò il segno
delle loro vite. Non contò più niente che
l'economista napoletano Bruno Foà avesse
divulgato in Italia le teorie di John
Maynard Keynes e della Scuola di Cambridge:
quando il suo nome comparve in quell'elenco,
fece le valigie, salutò Napoli per l'ultima
volta e partì per Londra. Di lì a poco,
dalla «Federico II» furono cacciati cinque
tra i più prestigiosi docenti: Anna Foà, Ugo
Forti, Ezio Levi D'Ancona, Donato Ottolenghi,
Alessandro Graziani. Il figlio di quest'ultimo,
l'economista Augusto Graziani, allora
bambino di 5 anni, non dimenticherà mai quel
che ne seguì: la consapevolezza angosciosa e
improvvisa di essere «un ebreo figlio di
ebrei», il reddito familiare di colpo
assottigliato, i lavori «arrangiati» cui
l'ex titolare di Diritto della Navigazione
si trovò costretto, redigendo atti per conto
di studi legali senza che il suo nome
comparisse. Come agli altri bambini ebrei,
anche ad Augusto Graziani e alla sorella non
fu possibile frequentare le scuole
napoletane, e si pose il problema di
un'istruzione a casa. Una delle tre
eccezioni italiane a quella legge del 1938
si ebbe proprio a Napoli, e fu la storia dei
dieci bambini per i quali la scuola
elementare «Vanvitelli» istituì una sezione
speciale, separata dagli altri alunni, con
orari sfalsati per l'entrata e l'uscita e
senza intervalli, in modo da impedire
contatti con gli «ariani». Di quella classe,
la cui vicenda è stata resa nota per la
prima volta dal nostro giornale qualche anno
fa, fece parte il piccolo Dino Assom, che
nel 1940 sarebbe stato espulso dall'Italia
con la famiglia e mandato a Salonicco, dove
sarebbe stato deportato ad Auschwitz e
gasato. E tra la scuola «Vanvitelli» e
Salonicco si diparte l'altro doloroso
destino di una famiglia ebraica napoletana,
quella dei Bivasch: e se il piccolo Alberto,
compagno di banco di Dino, riuscì a
salvarsi, così non fu per il padre,
catturato a Salonicco e sterminato nel
lager. Dopo il 1938 tutte le famiglie
ebraiche di Napoli, comprese quelle con uno
dei due coniugi cattolici, ricevettero per
posta la richiesta che una mattina arrivò a
casa di Gisella Perlow: «documentazione
dalla quale possa desumersi che da parte di
ciascuno dei figli non concorre alcuna
manifestazione di ebraismo». Quella lettera
avrebbe indotto Gisella, sposata al
cattolico Eduardo De Simone, a fuggire da
Napoli a Fiume con il figlio Sergio, andando
incontro alla deportazione che sarebbe
costata la vita al bambino. A Napoli come
altrove, l'ostilità cresceva intorno ai
bambini ebrei: Tullio Foà ricorda i suoi
compagni di giochi, improvvisamente nemici,
che gli negavano la bibicletta perché «un
ebreo, usandola, l'avrebbe sporcata». Bice
Foà ha ancora in testa le raccomandazioni
dei genitori: «Non salutare per prima, non
dire mai il tuo nome». E David Schiffer, di
origine ungherese, non dimenticherà mai quei
manifesti improvvisamente affissi sui muri
di Procida, dove si era trasferito dal
Cuneese con la famiglia: raffiguravano ebrei
con i nasi adunchi e occhi rapaci, intenti
ad accarezzare sacchi di denaro. E come in
un incubo i procidani, da gentili e
ospitali, si trasformarono in ostili,
catturarono suo zio, dirigente della Società
Elettrica sospettato di aver fatto mancare
l'audio della radio al momento dell'annuncio
dell'entrata in guerra. Niente fu più come
prima, né a Napoli né in altre parti
d'Italia, dopo quelle leggi promulgate dallo
Stato italiano, nell'indifferenza di tutti.
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(da: Il
Mattino)
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