Il
circuito espositivo napoletano, nonostante la
cronica carenza di turisti e la svogliata
partecipazione degli indigeni, si è arricchito
di un nuovo prezioso tassello con l’apertura del
nuovo museo dell’Opera di San Lorenzo: uno
sguardo sugli ultimi 2500 anni di storia della
città e sulle sue sbalorditive stratificazioni.
Prima agorà greca e foro romano, quindi basilica
paleocristiana, trasformata poi in gotico
francese, un luogo dove si è svolta frenetica la
vita sociale, artistica e civile, durante
molteplici dinastie dai Normanni e gli Svevi,
agli Angioini ed agli Aragonesi.
Un
percorso a ritroso nel tempo per ritornare al
punto di partenza, in un eterno presente, dal
suono melodioso del flauto di Antigenide ai
canti delle popolane, sostituiti negli ultimi
anni da nenie cingalesi e da violini zigani
provenienti dall’est.
Ci
troviamo nella piazza più antica di Napoli, dove
per 20 secoli si sono svolti i commerci, il
passeggio elegante e si sono decisi i destini
dei cittadini. A due passi cantava Nerone,
applaudito da folle oceaniche, Boccaccio
intravide la sua Fiammetta, che gli infiammò il
cuore, mentre austeri saggi, nel Parlamento
voluto da Alfonso d’Aragona, emanavano leggi tra
le sale della torre, che oggi ospita i reperti
del nuovo museo.
Sculture, affreschi, sarcofagi, ceramiche,
dipinti, paramenti sacri, pastori, ve ne è per
tutti i gusti nei 4 piani del museo e tutto il
materiale è corredato da pannelli esplicativi,
che conducono per mano il visitatore in questo
lungo viaggio, dissipando dubbi ed allietando
occhi e spirito.
Nella prima sezione sono esposti i reperti
recuperati nei sottostanti scavi archeologici,
che rappresentano da tempo uno dei percorsi più
affascinanti per il visitatore che voglia
esplorare le pulsanti viscere della città.
Segue poi una raccolta di anfore, puniche greco
italiche, corinzie che testimoniano la vivacità
dei traffici commerciali della città
nell’antichità con tutto il bacino mediterraneo.
Vino, olio, carne essiccata ed altre merci
transitavano per raggiungere località della
terraferma.
Al
secondo piano vi sono reperti provenienti dal
convento e dalla chiesa. Sono i pezzi più
interessanti per gli appassionati di arti
figurative. Si va da
una spettacolare tempera su tavola di Montano di
Arezzo, raffigurante la Madonna col Bambino in
trono ad un affresco staccato di ignoto
giottesco napoletano, che rappresenta san
Francesco che dà la regola ai Frati minori ed
alle Clarisse. Superba è la lastra tombale dei
componenti la famiglia Barrile, misteriosi i
sarcofagi dei Cavalieri dell’Ordine del Nodo.
Tra i dipinti segnaliamo una Madonna col Bambino
e san Francesco, proveniente da una cappella
della chiesa, di estenuante dolcezza, a lungo
riferita a Stanzione dalle antiche guide e,
viceversa, da assegnare al virtuoso pennello di
Giuseppe Marullo, un minore del secolo d’oro
ingiustamente dimenticato. Senza trascurare una
tavola di Francesco Curia, dai colori squillanti
ed una replica autografa di minori dimensioni
dell’Immacolata del Finoglio, che si può
ammirare in chiesa nella cappella Bonaiuto.
Infine al quarto piano sono conservati arredi e
paramenti religiosi. In eleganti e ben
illuminate vetrine si susseguono pissidi,
reliquari, ostensori e calici, alternati a
messali e cartegloria, mentre in altre sono
esposti i segni esteriori della Chiesa
trionfante post tridentina: pianete, mitrie,
stole e dalmatiche. Fa compagnia agli oggetti
sacri una nutrita collezione di pastori, del
Settecento e dell’Ottocento, tutti di legno e
terracotta e con glaciali quanto espressivi
occhi di vetro. Re magi e mendicanti, floride
contadine e vecchierelle gozzute, artigiani e
saraceni, una folla di volti e di atteggiamenti
che ritroveremo immutati una volta ridiscesi per
strada lungo il presepe vivente che da secoli
anima i decumani, gli stessi volti patibolari o
eduardiani, che erano in prima fila durante
l’assalto della torre al tempo di Masaniello o
tra le truppe sanfediste che impazzarono dopo il
1799. Un crogiuolo di popoli e di culture, ieri:
cartaginesi, greci, romani, spagnoli, austriaci
e francesi; oggi: cingalesi, ucraini,
capoverdiani, rumeni e nigeriani.
Achille della Ragione
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