Faicchio
Giornata dedicata ai
problemi della malnutrizione
e del sottosviluppo
dei Paesi poveri del mondo
Organizzazione
ISTITUTO TECNICO PER IL TURISMO
“ Umberto Fragola”
IL DIRITTO AD UNA SANA ALIMENTAZIONE
L’art. 25 della Dichiarazione Universale dei
diritti umani riconosce ad ogni individuo il
diritto ad un tenore di vita sufficiente a
garantire la salute ed il benessere proprio e
della sua famiglia “con
particolare riguardo all’alimentazione,
al vestiario, all’abitazione…”.
L’alimentazione si
inserisce, pertanto, senza possibilità di
equivoci, tra i presupposti
ineludibili della
vita di ogni persona, costituendo la condizione
base di un diritto che, complessivamente, viene
indicato come buona salute, o, meglio, come
benessere dell’individuo; diritto che
praticamente ogni nazione dichiara di voler
assicurare ai propri cittadini.
Attualmente, infatti,
sono
110 i paesi del mondo che riconoscono il diritto
alla salute nelle rispettive leggi fondamentali
e ben 149 sono quelli che hanno ratificato il
Patto
internazionale sui diritti
economici, sociali e
culturali
ICESCR 1966,
Convenzione con cui, all’art. 12,
si
stabilisce che gli Stati membri riconoscono “il
diritto di ciascuno al raggiungimento del più
elevato standard di salute fisica e mentale
possibile”, enumerando poi le possibili “misure che gli Stati stessi devono adottare
….per conseguire la piena attuazione di questo
diritto” .
Per
poter parlare di alimentazione sana occorre,
pertanto, chiarirsi le idee su quel che
significa
diritto alla salute, un diritto di cui, per
la prima volta, si è parlato nella carta
costituzionale della Organizzazione mondiale
della sanità (World Health Organization, WHO,
1946), successivamente riaffermato nel 1978 con
la Dichiarazione di Alma Ata e quindi
nel 1998, con la
Dichiarazione
sulla salute
mondiale adottata dall’OMS.
Prima di approfondire tale nozione è bene
premettere, però, che il
diritto
alla salute fa parte di un
più
vasto gruppo di diritti umani nel quale
sono compresi sia diritti sociali, economici e
culturali (come il diritto al cibo, alla casa,
al lavoro, all’istruzione alla partecipazione, a
godere dei benefici del progresso scientifico),
sia diritti politici (come il diritto alla vita
ed alla non discriminazione, all’uguaglianza,
alla libertà di associazione, di movimento, di
accesso all’informazione ecc…..).
Ma cosa sono, in realtà,
i diritti umani?
Spesso, infatti, tendiamo
a parlare di DIRITTI, ed ancor più di DIRITTI
UMANI, come se si trattasse di concetti
univocamente noti e condivisi a livello
generale, dando per scontato un contesto di
riferimenti comuni che a tali diritti danno
sostegno. Ma ciò è soltanto frutto di una
convenzione,
in quanto il
concetto di “diritto umano” resta troppo spesso
sospeso in un’area di indeterminatezza
che
ne investe sia il contenuto che la
definizione degli obblighi correlati.
Chiediamoci, allora, prima
di tutto, se il termine
diritto
abbia un solo significato, indipendentemente
dall’aggettivazione che lo correda.
La
parola “diritto” contraddistingue, secondo
l’unanime accezione, una determinata esigenza
cui si attribuisce
la
qualifica di
“pretesa
giustificata”; occorre, però,
specificare che, all’interno di tale pretesa,
sono rinvenibili lemmi tra loro ben distinti,
quali quello dei “diritti
umani” e quello dei “diritti
fondamentali”. La categoria
giuridica, apparente riferimento per ambedue è,
invece, a ben vedere, applicabile solamente al
secondo di essi, mentre entrambi possono essere
ricondotti agevolmente ad una categoria comune,
quella morale.
Le
ragioni che li giustificano sono, infatti,
particolarmente incisive sotto il profilo
morale, ma solo i diritti fondamentali possono
giovarsi di un
riconoscimento,
operato da fonti di livello gerarchico
superiore, come la Costituzione, capace di
trasformare l’ideale morale, pur valido in sé e
per sé, ma non cogente,
in
concetto giuridico, cioè in una pretesa che può
essere concretamente fatta valere, perché
appositamente tutelata e garantita
dall’ordinamento giuridico.
C’è bisogno, allora, di fare
attenzione nell’uso di espressioni e
terminologie che vengono spesso utilizzate in
modo equivalente, ma che possono ingenerare non
poca confusione.
Diritti Fondamentali
sono, pertanto, solo quei diritti riconosciuti
da un ordinamento giuridico statale che li
enuncia nella sua norma gerarchicamente più
importante, la Costituzione, e che attengono al
cittadino dello Stato che quella
costituzione ha adottato.
Diritti umani
sono invece quei diritti la cui titolarità
spetta alla persona in quanto tale, quindi a
tutte le persone, indipendentemente dalla
appartenenza ad uno Stato, e che sono
riconosciuti da fonti consuetudinarie o pattizie
dell’ordinamento giuridico internazionale.
Diritti
fondamentali e diritti umani possono, di
conseguenza, avere contenuti simili, o
addirittura identici, ma la loro diversa natura
giuridica fa sì che la loro garanzia sia
profondamente difforme. I diritti fondamentali,
infatti, possono essere fatti valere in giudizio
per ottenerne il riconoscimento
in attuazione della
specifica garanzia costituzionale, i diritti
umani, invece, possono avvalersi soltanto dei
meccanismi di tutela internazionale che, mentre
per alcuni diritti civili sono ormai
sufficientemente efficaci, per quanto riguarda i
diritti sociali non hanno raggiunto una vera
incisività.
La conseguenza è che un
diritto umano può dirsi effettivamente
riconosciuto solo quando esso sia garantito da
norme giuridiche sia internazionali che interne.
Detto questo, torniamo alla
nozione di salute.
Quando ne rivendichiamo il
diritto, intendiamo riferirci ad una semplice
assenza di malattia oppure ad uno “stato
di completo benessere fisico e psichico”
dell’individuo (come la definisce la Conferenza
di Alma Ata del 1978) ?
E, una volta che ne stabiliamo il contenuto,
dobbiamo annoverare il relativo diritto ra
quelli fondamentali o tra quelli umani?
Nella nostra carta
Costituzionale esiste uno specifico diritto alla
salute.
Esso
è, infatti, espressamente garantito dall’art.
32, posto sotto il Titolo rapporti
etico-sociali, e che al primo comma dichiara che
la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo ed
interesse della collettività, garantendo cure
gratuite agli indigenti.
Il
diritto alla salute, dunque, è un bene protetto,
oltre che da fonti internazionali, anche da
norme interne del grado più elevato;
può
qualificarsi, perciò, oltre che come diritto
fondamentale anche come diritto umano.
Affermare questo significa
che ogni cittadino italiano può davvero
PRETENDERE
che la Repubblica
gli assicuri
la salute come
pieno benessere fisico e psichico?
L’art. 32 della
Costituzione va, indubbiamente, letto insieme
con gli articoli 2 e 3 della stessa, in un unico
contesto giuridico-interpretativo che
costituisce un sistema inscindibile, nel quale
diritti inviolabili, solidarietà politica
economica e sociale, pari dignità, libertà ed
eguaglianza debbono concorrere ad assicurare ad
ogni cittadino il pieno sviluppo della persona
umana. Ma questo sistema, così lusinghiero e
promettente all’apparenza, è affetto da una
debolezza intrinseca che ne mina la valenza sia
con la “programmaticità” dei principi
fondamentali, cui riconducono gli articoli 2 e
3, sia con la intitolazione ai
“rapporti-sociali” cui riconduce la collocazione
dell’art.
32.
Una qualificazione che ne
subordina l’attuazione concreta ad una specifica
volontà politica che intenda convogliare
adeguate risorse finanziarie allo scopo di
rendere concreto quel diritto.
In altre parole, dunque,
possiamo dire che il diritto alla salute esiste
solamente se i singoli Stati vogliono davvero
garantirne l’effettività. Perché non basta ad un
diritto essere
annoverato tra quelli fondamentali e quelli
umani per diventare automaticamente concreto.
Anche i diritti
fondamentali, infatti, si suddividono in diverse
categorie, per le quali i meccanismi di garanzia
scattano in modi ed in
tempi
difformi.
La principale distinzione che ci riguarda è
quella che divide i diritti civili dai diritti
sociali.
E si tratta di una distinzione di non poco peso,
perché, mentre per i diritti civili
l’effettività della tutela consiste
essenzialmente in un obbligo negativo
(astensione da condotte lesive), i diritti
sociali implicano necessariamente l’agire. E’
soltanto l’iniziativa politica, perciò, che
obbliga lo Stato a porre in essere un sistema
sanitario
efficiente e di
accesso generalizzato. La Costituzione resta,
infatti, indifferente rispetto all’effettività
di questa iniziativa, come indifferenti restano
le fonti internazionali, poiché la questione
della giustizia distributiva è affidata al
singolo Stato, come questione di mero diritto
interno.
Fino a
qualche tempo fa, infatti, la ripartizione
classica degli affari riguardanti l’attività di
uno Stato distingueva le materie riguardanti il
profilo nazionale da quelle con rilievo anche
estero.
Dobbiamo chiederci, allora,
che impatto ha avuto la globalizzazione su
questo assetto tradizionale, in quanto, ormai,
il problema della giustizia distributiva è sia
statale che globale e configura la dimensione
essenziale dello stesso diritto alla
sussistenza, in un’ottica di più equa
ripartizione, di più diffusa solidarietà, di più
razionale utilizzo delle risorse naturali.
La
risposta che affiora da una qualsiasi verifica è
che, purtroppo, il cammino in direzione di una
globalizzazione che riguardi anche i diritti è
tutt’altro che spedito e lineare; la
globalizzazione più avanzata è infatti solo
quella della finanza e dell’economia mentre
stiamo assistendo, senza reagire,
ad
una sostituzione progressiva della Banca
Mondiale all’organizzazione Mondiale della
Sanità.
La
conseguenza più immediata è che la salute,
invece che affermarsi sempre maggiormente come
diritto fondamentale della persona, si è
trasformata in bene di consumo, servizio, merce;
tanto è vero chele politiche della salute
sono decise
principalmente dall’Organizzazione
Internazionale del Commercio ed oggetto di
trattative tra governi ed imprese
multinazionali.
E l’alimentazione?
Anche il cibo ha seguito la
stessa sorte.
Un
famoso sociologo, Raj Patel, spiega in un suo
libro molto di moda, “Stuffed & Straved”
(rimpinzàti ed affamàti), uscito in Italia da
Feltrinelli con il titolo
“I
padroni
del cibo”, che per ogni dollaro speso per
promuovere alimenti naturali se ne spendono 500
per pubblicizzare lo “junk
food “, ossia il cibo di bassissima
qualità.
Patel
insegna all’Università di Berkeley, in
California ed il suo pensiero è diventato il
riferimento più autorevole di quanti ritengono –
e non sono pochi – che la chiave del potere
(economico,
culturale e politico) del XXI secolo risieda
proprio nel cibo, nonché che la crisi, se non il
fallimento, dell’economia tradizionale derivi
dalla mancata considerazione che esso non è una
merce come le altre ma è, prima di tutto, un
fattore culturale. Non può, pertanto, essere
soggetto alle leggi del mercato.
Al
cibo, infatti, sono legate tradizioni, sapori ed
odori che fanno parte dell’identità e della
stessa geografia di un popolo, assimilati dalla
nascita, spesso inconsciamente, da quanti ne
fanno parte, e che sono destinati a
riconoscersi, rinnegando di colpo una cultura
alimentare più attenta alla chimica che alla
qualità, in un guizzo di profumo che si
sprigiona da una pentola messa sul fuoco .
Sta di fatto che
l’inquietante realtà degli obesi dei paesi
ricchi e degli affamati del terzo mondo ci
avverte come
il maggior
benessere non abbia certo saputo produrre un
approccio corretto con il cibo.
E’,
questa,
una realtà che
parrebbe anacronistica rispetto alla
tecnologia così
avanzata della nostra epoca
che
avrebbe dovuto,
ormai, consentire a tutti di mangiare
correttamente, pur mantenendo la propria
identità. Si è verificata, al contrario, una
generale corsa all’uniformità di un cibo facile
da trovare, scelto per suggestione
pubblicitaria, prodotto in zone anonime e che
nulla ha a che fare con la storia di un
territorio.
L’elemento di disturbo, quello che ha impedito
uno sviluppo più regolare è stata, allora, forse
una globalizzazione sbagliata e che, proprio nel
settore dell’alimentazione, ha prodotto una
tragica babele alimentare che ha disorientato
sia i supersazi che gli affamati e che trova
origine, con buona probabilità, nell’intervento
di una politica distorta. Quest’ultima intende
regolare su scala mondiale la
disponibilità di
cibo
con le leggi del
libero mercato, acuendo le dispendiose
contraddizioni che caratterizzano il nostro
tempo. Per tale ragione, ad esempio, in nazioni
africane nelle quali attualmente non ci sono
guerre, non ci sono né siccità né carestie, la
gente muore lo stesso di fame perché non ha i
soldi per comprarsi da mangiare, costringendo
gli aiuti internazionali ad intervenire con il
loro costoso programma di sostegno e con
alimenti ovviamente prodotti altrove, mentre le
derrate alimentari del paese vanno a male,
perché nessuno è in grado di acquistarle.
Non a
caso, il predominio mondiale nel settore
alimentare appartiene ad un paese che non ha una
tradizione gastronomica propria
e che, in genere,
considera un’assurdità sprecare il tempo a
tavola, nutrendosi nei fast food di alimenti di
scarsa qualità, magari serviti addirittura in
automobile. Un paese dove quattro multinazionali
dell’alimentazione controllano il 50 % del
mercato alimentare e dove gli obesi aumentano in
maniera vertiginosa.
Il
cibo, invece, almeno per noi italiani, è
identità, è cultura; è sapore del
vivere. Paolo
Massobrio nota, in una sua rubrica, che il gusto
non è né una cosa da ricchi, né una cosa da
poveri, non è né di destra, né di sinistra; c’è
o non c’è; io aggiungo che esiste fin dalla
nascita e che resiste fino alla morte; che è la
sola cosa che, noi fortunati cittadini di un
paese industrializzato, utilizziamo almeno tre
volte al giorno, tutti i giorni, la sola
di
farci immediatamente percepire i connotati
decisivi della nostra origine.
Un
apposito programma quadro dell’U.E. ha posto,
tra le priorità principali, la crescita di una
Comunità di Ricerca e sviluppo sul tema “Qualità
della sicurezza e Salute alimentare”, da
attuarsi mediante la crescita del sapere
individuale e collettivo sulla qualità totale
dell’intero processo di produzione e commercio
della catena alimentare; lo slogan che lo
contraddistingue è, com’è noto, “Dalla
Fattoria alla Forchetta”.
Ma che succede, quando proprio dalla fattoria
esce un cibo avvelenato?
Di appena ieri è la notizia
del maiale alla diossina; ma ci sono anche, come
chiunque ricorda, la mucca pazza, il pollame
malato di aviaria, le pecore dalla lingua blu,
il vino al metanolo, gli OGM….. e potrei
continuare molto a lungo.
Carlo
Rubbia, presentando un master in diritto
dell’ambiente alla Sapienza romana, ricordava
pochi giorni orsono
come
educazione e scienza debbano procedere di pari
passo, tanto è vero che la definizione dei
diritti e dei doveri delle nazioni non può non
coinvolgere la comunità scientifica (v.
Dichiarazione di Erice sull’equità ed il diritto
alla salute del 2001)
Condividendo in pieno questa
affermazione, mi permetto di sottolineare che,
se davvero il cibo è cultura, esso non può che
essere oggetto di studio e, quindi, passare
necessariamente attraverso la scuola.
La nostra scuola che deve
farsi protagonista, allora, di una vera e
propria “guerra della salute”
che consenta
finalmente di far diventare effettivo questo
diritto.
La Commissione Agricoltura
del Parlamento europeo ha proposto di triplicare
il finanziamento del programma di distribuzione
gratuita di frutta e verdura fresca nelle scuole
per gli anni scolastici 2009-2010.
Un’indicazione che tende ad incoraggiare i
giovani a consumare prodotti salubri come la
frutta e la verdura, abbandonando
quell’alimentazione spazzatura che ha rovinato
la salute di tante persone.
Bisogna abituare i bambini a
mangiare in modo corretto e la scuola è il luogo
dove insegnare le buone abitudini alimentari. A
cominciare dalla mensa scolastica. Roma si pone
come modello per molte città europee: cibo buono
e sano, ogni giorno, con almeno 400 gr. di
frutta e verdura fresche a testa; non è
impossibile, non costa di più.
Ma,
prima di tutto, bisogna persuadersi, una volta
per tutte,
che
il primo medico, dopo essere passato dal campo,
abita in cucina: ed è sempre meglio curarsi a
tavola che aver bisogno di un dottore.
Lidia
Ciabattini
> torna al servizio
|