Caro Gianni, ti voglio presentare un po’ di
persone. Anzi, sono parecchie, e molte di loro
le conosci già. Ne sai i volti e i nomi. Ci sono
quelli che ti hanno pianto e continuano a farlo.
C’è la moltitudine che riempiva la chiesa e poi
il camposanto. Ci sono quelli che hanno scritto
e detto in tua memoria. E infine quelli che non
riescono nemmeno a biascicare.
Perché, vedi, le parole possono farsi
importanti, ma anche quelle più belle e
magniloquenti raramente valgono quanto i
silenzi. Soprattutto in certi momenti.
Io, purtroppo, non ce la faccio a tenermi, e
così ti lascio in consegna questo «parolaio
stinto e sfuggente, un moto pulsionale
sottrattosi alla quotidianità» che reclama
indulgenza.
L’altra sera mi hanno portato a vedere la
“pioggia di stelle”. Era la notte di San
Lorenzo. Io coi santi non ho molta
dimestichezza, lo sai, ma il dieci di agosto non
lo dimentico più: è il giorno in cui ho imparato
quanto pesi la bara di un amico. Un carico
insostenibile. Ed è il giorno in cui mi si è
presentata una domanda struggente: cos’altro
ancora ad attenderci dietro l’angolo? Dicono i
dottori che si è trattato di una sequela
impressionante di sfortune, di eventi rari. E mi
viene un’altra domanda: quali colpe indicibili e
oscene meritavano questa punizione?
Manco il tuo amatissimo Napoli varrà più a darti
consolazione, quasi a significare che la
speranza è un orizzonte definitivamente chiuso.
Io, da juventino, ho sempre invidiato alla tua
squadra la mascotte: l’asino è il vero re degli
animali, ne sono sempre più persuaso. Arriva
dove tutte le altre bestie non potrebbero,
soprattutto se con in groppa cose e persone.
Anche il comandante Guevara ebbe diversi asini
al suo servizio, e a uno di essi diede finanche
il proprio nome: Ernesto, lo chiamò. Ci avessi
pensato prima, assieme alla foto del Che e alla
maglietta rossa, sulla bara ti avrei lasciato
una foto dell’asino Ernesto e una maglia del
Napoli. Ti chiedo di scusarmi, ma davanti alla
tua salma, per tutte quelle ore, non mi riusciva
bene di essere lucido.
Mi
rendo conto che questa è già l’età dei bilanci,
il tempo in cui, più che scrutare l’orizzonte e
badare ai passi che pure attendono alcuni di
noi, si torce il busto all’indietro. Ma noi non
siamo come quell’Angelo della Storia che tutto
sa comprendere in sé. Se raccattiamo quello che
abbiamo detto e fatto ne rimane un mucchietto a
malapena, facile da ramazzare in un angolo o
magari sotto il tappeto. I numeri delle vite
sono oggettivi e inesorabili, ben diversi dalle
panzane fittizie dell’economia, con cui pure i
nostri governanti ci imboniscono. Per questo i
conti non tornano quasi mai.
I
numeri delle vite non sono un gioco tra gli
altri.
Non ha più validità quello che scrisse Lucrezio
duemila e passa anni fa nel De Rerum Natura:
«Bello, quando sul mare si scontrano i venti/e
la cupa vastità delle acque si turba,/guardare
da terra il naufragio lontano:/non ti rallegra
lo spettacolo dell’altrui rovina,/ma la distanza
da una simile sorte». Oggi il naufragio non ha
più spettatori, solo attori protagonisti. Siamo
tutti alla deriva.
Sai, Gianni, c’è gente che già a vent’anni è più
realista del re. Vendono il sedere per un piatto
di lenticchie, cento euro sono pure troppi. È la
legge del Mercato: denaro in cambio di merce.
L’unica legge che riconoscono e che applicano
puntigliosamente. La legge con cui vorrebbero
rinchiuderci dietro le sbarre, nelle prigioni di
mattoni e parole nelle quali metterci la
mordacchia. Non ci riusciranno. Non ci sono
riusciti con te, a cui pure la materialità del
bisogno ha fatto sentire le sue fameliche
grinfie. È l’esempio che lasci agli amici più
giovani, che ancora ti piangono, ed è tanto. Ci
lasci questo, insieme alla bontà del tuo animo,
spontanea come solo il tuo sorriso.
Noi, al contrario, siamo gente a cui raramente
riesce di vincere. Ma giochiamo bene,
dannatamente bene, anche se la partita è
truccata dall’inizio. Prima o poi, lo so, faremo
saltare le regole che i più forti hanno
stabilito a proprio uso e consumo. Ma è così
difficile (impossibile?) rivoluzionare il
quotidiano… Talvolta, rovistando nello zaino che
ci trasciniamo nel nostro assalto al cielo,
sembra quasi di trovarci solo zavorra e
solitudine, «una solitudine troppo rumorosa».
Soltanto se riusciamo a giocare facendoci
domande possiamo riempire di senso il nostro
cammino, scardinare lo sgomento del nulla,
vincere il vuoto della solitudine.
Continueremo a provarci anche per te, pure se ci
hai fatto un brutto tiro. Ci hai prosciugato
tutte le lacrime e ce ne hai tirate altre
ancora. Cullo la speranza di saper essere
interprete fedele dei pensieri e delle emozioni
di ogni tuo amico: in fondo, il sale dà al
pianto di noi tutti l’identico sapore.
In
questi giorni verrò a portarti una rosa, sempre
quella, la rosa del bene comune. Il suo colore è
il rosso, e non potrebbe essere altrimenti. È il
testimone che ci passiamo quando da soli non ce
la facciamo a reggerne il peso incredibile. Te
la lascio in custodia, sarà nelle mani migliori.
Ma ti prometto che presto mi tornerà la forza di
reggerla ancora.
Non so se esistono dei luoghi altri, delle
dimensioni ultraterrene. Ho una mia idea, sono
piuttosto scettico ma magari mi sbaglio. Non so
se tu ci sei ancora e in quale forma. In tal
caso, se oggi dovessi scegliere, sceglierei di
affidare a te la cura della mia anima
brigantesca e un po’ giacobina, sicuramente
molto partigiana.
Ricordo sempre quel che diceva un francese di
nome Roland Barthes: «Per me la politica inizia
quando mi fa male il mondo». Per tutto il male
che questo mondo ci ha fatto e continua a farci,
gli abbiamo reso voglia di lottare, allegria e
un’idea forte di libertà e di liberazione.
Noi non ci arrendiamo. Tu però non dimenticarci,
perché noi non ti dimenticheremo.
Salud, compà, addio per sempre.
Per Gianni
Estenua il caldo dell’ultima estate
carogna e incarognente,
grumo soffocante di sangue e lacrime
e
afa e sudore.
Siamo di quella fiera schiatta
dei solitari, briganti e fuori-d’ogni-legge.
Alla nostra condizione recan disturbo
talvolta
le
incursioni devianti di quei rari
che è d’uso chiamare amici.
Talaltra
il
dettato di finte effemeridi,
effimere meteore d’affetti,
che reputiamo ambasciatrici di Eros.
Presto brinderemo per te
e
ci accorgeremo che sarà
vano levar di calici.
Moriremo di sete
ma
non berremo più alla fonte del Lete.
Non cadrai, amico caduto,
nell’eterno oblio,
non sarai pura dimenticanza.
Questo possiamo,
non altro.
Lo
dicono anche i poeti sommi:
la
forza dei vivi cede all’abbraccio di Tanatos.
E
le cose confermano:
qui si muore un po’ per giorno.
Siamo aggrappati all’unica zattera,
la
memoria,
prima di andare a fondo.
Sciaborda impetuoso e grottesco il legno
- trama
e legame di valori e fatti –
nell’irrevocabile naufragio senza spettatore.
Sono i solitari
il
cielo bruno della notte,
la
tenebra muta che tiene
le
infinite stelle del firmamento.
Croce del Sud e Polare.
Solitudine ma con memoria:
questo raccattiamo
nel mesto camminare e silente
che ancora ci è dato in sorte. |