E' morto Giovanni Vivenzio

 

12 agosto 2004
Per Gianni
Gianluca Aceto

 

 

Caro Gianni, ti voglio presentare un po’ di persone. Anzi, sono parecchie, e molte di loro le conosci già. Ne sai i volti e i nomi. Ci sono quelli che ti hanno pianto e continuano a farlo. C’è la moltitudine che riempiva la chiesa e poi il camposanto. Ci sono quelli che hanno scritto e detto in tua memoria. E infine quelli che non riescono nemmeno a biascicare.

Perché, vedi, le parole possono farsi importanti, ma anche quelle più belle e magniloquenti raramente valgono quanto i silenzi. Soprattutto in certi momenti.

Io, purtroppo, non ce la faccio a tenermi, e così ti lascio in consegna questo «parolaio stinto e sfuggente, un moto pulsionale sottrattosi alla quotidianità» che reclama indulgenza.

L’altra sera mi hanno portato a vedere la “pioggia di stelle”. Era la notte di San Lorenzo. Io coi santi non ho molta dimestichezza, lo sai, ma il dieci di agosto non lo dimentico più: è il giorno in cui ho imparato quanto pesi la bara di un amico. Un carico insostenibile. Ed è il giorno in cui mi si è presentata una domanda struggente: cos’altro ancora ad attenderci dietro l’angolo? Dicono i dottori che si è trattato di una sequela impressionante di sfortune, di eventi rari. E mi viene un’altra domanda: quali colpe indicibili e oscene meritavano questa punizione?

Manco il tuo amatissimo Napoli varrà più a darti consolazione, quasi a significare che la speranza è un orizzonte definitivamente chiuso. Io, da juventino, ho sempre invidiato alla tua squadra la mascotte: l’asino è il vero re degli animali, ne sono sempre più persuaso. Arriva dove tutte le altre bestie non potrebbero, soprattutto se con in groppa cose e persone. Anche il comandante Guevara ebbe diversi asini al suo servizio, e a uno di essi diede finanche il proprio nome: Ernesto, lo chiamò. Ci avessi pensato prima, assieme alla foto del Che e alla maglietta rossa, sulla bara ti avrei lasciato una foto dell’asino Ernesto e una maglia del Napoli. Ti chiedo di scusarmi, ma davanti alla tua salma, per tutte quelle ore, non mi riusciva bene di essere lucido.

Mi rendo conto che questa è già l’età dei bilanci, il tempo in cui, più che scrutare l’orizzonte e badare ai passi che pure attendono alcuni di noi, si torce il busto all’indietro. Ma noi non siamo come quell’Angelo della Storia che tutto sa comprendere in sé. Se raccattiamo quello che abbiamo detto e fatto ne rimane un mucchietto a malapena, facile da ramazzare in un angolo o magari sotto il tappeto. I numeri delle vite sono oggettivi e inesorabili, ben diversi dalle panzane fittizie dell’economia, con cui pure i nostri governanti ci imboniscono. Per questo i conti non tornano quasi mai.

I numeri delle vite non sono un gioco tra gli altri.

Non ha più validità quello che scrisse Lucrezio duemila e passa anni fa nel De Rerum Natura: «Bello, quando sul mare si scontrano i venti/e la cupa vastità delle acque si turba,/guardare da terra il naufragio lontano:/non ti rallegra lo spettacolo dell’altrui rovina,/ma la distanza da una simile sorte». Oggi il naufragio non ha più spettatori, solo attori protagonisti. Siamo tutti alla deriva.

Sai, Gianni, c’è gente che già a vent’anni è più realista del re. Vendono il sedere per un piatto di lenticchie, cento euro sono pure troppi. È la legge del Mercato: denaro in cambio di merce. L’unica legge che riconoscono e che applicano puntigliosamente. La legge con cui vorrebbero rinchiuderci dietro le sbarre, nelle prigioni di mattoni e parole nelle quali metterci la mordacchia. Non ci riusciranno. Non ci sono riusciti con te, a cui pure la materialità del bisogno ha fatto sentire le sue fameliche grinfie. È l’esempio che lasci agli amici più giovani, che ancora ti piangono, ed è tanto. Ci lasci questo, insieme alla bontà del tuo animo, spontanea come solo il tuo sorriso.

Noi, al contrario, siamo gente a cui raramente riesce di vincere. Ma giochiamo bene, dannatamente bene, anche se la partita è truccata dall’inizio. Prima o poi, lo so, faremo saltare le regole che i più forti hanno stabilito a proprio uso e consumo. Ma è così difficile (impossibile?) rivoluzionare il quotidiano… Talvolta, rovistando nello zaino che ci trasciniamo nel nostro assalto al cielo, sembra quasi di trovarci solo zavorra e solitudine, «una solitudine troppo rumorosa».

Soltanto se riusciamo a giocare facendoci domande possiamo riempire di senso il nostro cammino, scardinare lo sgomento del nulla, vincere il vuoto della solitudine.

Continueremo a provarci anche per te, pure se ci hai fatto un brutto tiro. Ci hai prosciugato tutte le lacrime e ce ne hai tirate altre ancora. Cullo la speranza di saper essere interprete fedele dei pensieri e delle emozioni di ogni tuo amico: in fondo, il sale dà al pianto di noi tutti l’identico sapore.

In questi giorni verrò a portarti una rosa, sempre quella, la rosa del bene comune. Il suo colore è il rosso, e non potrebbe essere altrimenti. È il testimone che ci passiamo quando da soli non ce la facciamo a reggerne il peso incredibile. Te la lascio in custodia, sarà nelle mani migliori. Ma ti prometto che presto mi tornerà la forza di reggerla ancora.

Non so se esistono dei luoghi altri, delle dimensioni ultraterrene. Ho una mia idea, sono piuttosto scettico ma magari mi sbaglio. Non so se tu ci sei ancora e in quale forma. In tal caso, se oggi dovessi scegliere, sceglierei di affidare a te la cura della mia anima brigantesca e un po’ giacobina, sicuramente molto partigiana.

Ricordo sempre quel che diceva un francese di nome Roland Barthes: «Per me la politica inizia quando mi fa male il mondo». Per tutto il male che questo mondo ci ha fatto e continua a farci, gli abbiamo reso voglia di lottare, allegria e un’idea forte di libertà e di liberazione.

Noi non ci arrendiamo. Tu però non dimenticarci, perché noi non ti dimenticheremo.

Salud, compà, addio per sempre.


Per Gianni

Estenua il caldo dell’ultima estate

carogna e incarognente,

grumo soffocante di sangue e lacrime

e afa e sudore.

 

Siamo di quella fiera schiatta

dei solitari, briganti e fuori-d’ogni-legge.

Alla nostra condizione recan disturbo

talvolta

le incursioni devianti di quei rari

che è d’uso chiamare amici.

Talaltra

il dettato di finte effemeridi,

effimere meteore d’affetti,

che reputiamo ambasciatrici di Eros.

 

Presto brinderemo per te

e ci accorgeremo che sarà

vano levar di calici.

Moriremo di sete

ma non berremo più alla fonte del Lete.

 

Non cadrai, amico caduto,

nell’eterno oblio,

non sarai pura dimenticanza.

Questo possiamo,

non altro.

Lo dicono anche i poeti sommi:

la forza dei vivi cede all’abbraccio di Tanatos.

E le cose confermano:

qui si muore un po’ per giorno.

 

Siamo aggrappati all’unica zattera,

la memoria,

prima di andare a fondo.

Sciaborda impetuoso e grottesco il legno

- trama e legame di valori e fatti –

nell’irrevocabile naufragio senza spettatore.

 

Sono i solitari

il cielo bruno della notte,

la tenebra muta che tiene

le infinite stelle del firmamento.

 

Croce del Sud e Polare.

 

Solitudine ma con memoria:

questo raccattiamo

nel mesto camminare e silente

che ancora ci è dato in sorte.

 

    

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