Una cosa buona, da
questa storia giocata tra inceneritori e
biomasse, forse ne può venir fuori: finalmente
anche dalle nostre parti si può parlare del
ciclo dei rifiuti. È questo il senso
dell’intervento di Luciano Frittelli, che pone
argomenti e domande giuste, a cui è il caso di
prestare la dovuta attenzione.
C’è differenza tra
una centrale a biomasse e un inceneritore? Si,
ed è una bella differenza. In realtà anche le
biomasse sono molto variegate: una cosa sono
quelle cosiddette vergini (ad esempio la paglia
e legname non lavorato), una cosa gli scarti
della lavorazione agricola (vinaccia, pomodori,
ecc.), altra ancora gli scarti delle lavorazioni
industriali (ad esempio il legno, in cui possono
esserci anche colle e vernici).
Credo sia poi
necessaria un’operazione di igiene semantica:
aboliamo il termine “termovalorizzatore”, che sa
tanto di pubblicità ingannevole, ed utilizziamo
quello più adatto, che per l’appunto è
“inceneritore”.
Un piccolo esempio,
direttamente dal progetto di San Salvatore. La
ditta proponente elenca gli effetti negativi
della centrale: la combustione di 365 tonnellate
giornaliere di rifiuti produrrebbe 45 tonnellate
di scorie, da stoccare in discarica, e 6
tonnellate di polveri, che in parte si propagano
nell'aria e in parte vanno anch’esse stoccate;
l'abbassamento della falda acquifera di circa
10-12 metri (l'acqua è necessaria per
raffreddare l'impianto); l'accumulo di sostanze
tossiche al suolo; l'emissione di calore in
atmosfera. È lecito pensare che, trattandosi di
dichiarazioni della ditta che propone l’impianto
(la Vocem), questi dati siano edulcorati e
minimizzati. Così come occorre precisare che
nella sua programmazione la Provincia di
Benevento prevede la combustione non di 365 ma
solo di 75 tonnellate al giorno di residuo non
recuperabile dei rifiuti prodotti nel Sannio. La
differenza è facile da calcolare: 290 tonnellate
al giorno, da moltiplicare per 330 giorni di
attività all’anno. È così peregrino concluderne
che la cospicua differenza arriverà da fuori
provincia? In questo modo sarebbe vanificato lo
stesso principio di provincializzazione del
ciclo dei rifiuti giustamente perorato dal
Presidente Nardone.
A questo punto mi si
potrebbe obiettare: ma chi lo dice che
verrebbero bruciati i rifiuti, e segnatamente il
CDR (le balle, tanto per intenderci)? Lo dice la
stessa Vocem. Nella lettera indirizzata a
Nardone e datata 16/05/2005 (prot. N. 1765/05),
la dottoressa Bruna Valli scrive testualmente:
«1. L’impianto Vocem,
come attualmente dimensionato e progettato,
potrebbe essere alimentato integrando il
materiale organico a matrice vegetale con il
quantitativo di CDR prodotto in provincia di
Benevento; 2. in alternativa, l’impianto
Vocem, come attualmente dimensionato e
progettato, potrebbe essere integrato con una
linea dedicata alla termovalorizzazione del CDR,
aumentando così la produzione di energia
elettrica e termica di circa il 50%». Nero
su bianco.
Sono confortato in
questa analisi dagli esiti dell’audizione alla
regione Campania dello scorso 5 settembre e
dalle parole scambiate a latere con i
funzionari regionali, che hanno confermato che
per l’impianto Vocem le autorizzazioni fanno
inequivocabilmente riferimento allo smaltimento
dei rifiuti.
E allora parliamo di
rifiuti, più che di biomasse, su cui non sono
pregiudizialmente contrario. Dietro le
ambiguità terminologiche ci sono, in regione
Campania, quasi quattordici anni di malaffare e
cattiva gestione del territorio e delle
istituzioni. Come è potuto accadere il disastro
rifiuti in Campania? È successo che la logica
del profitto ha travolto la politica e le
istituzioni, capovolgendo l’ordine delle cose.
Lo scopo della programmazione è diventato il
business, a cui piegare il bene comune e il
futuro stesso. La partita della munnezza,
in Campania, avrebbe dovuto fruttare
all’Impregilo (con le due controllate FIBE e
FISIA) qualcosa come 10 mila miliardi delle
vecchie lire. La cifra è astronomica, molto
superiore addirittura a quella necessaria per il
famigerato ponte sullo stretto di Messina. Ed
era destinata a lievitare, come è sempre
accaduto in Italia per gli investimenti
pubblici.
Lo scopo non era
quello di risolvere il problema dei rifiuti, ma
di fare soldi, e poco importava se poi una buona
parte del bottino andava direttamente nelle mani
della camorra: forse era considerata una partner
necessaria del sistema… Come si concretizzava
questo nefando disegno? Partendo dalla
costruzione degli inceneritori e dal
mantenimento di un permanente stato di
emergenza, grazie all’opera della criminalità
organizzata e di funzionari pubblici corrotti
fino alle ossa e recentemente finiti in galera.
Altro che raccolta differenziata, altro che
riciclaggio dei rifiuti, altro che riduzione
degli imballaggi: dovevano invece essere
costruiti megaimpianti di incenerimento (Acerra
ha una capacità di 750.000 tonnellate all’anno),
indipendentemente dall’utilità degli stessi e
dalla loro sicurezza.
Si giunge così ad un
altro paradosso: stiamo costruendo impianti che
non serviranno né a risolvere l’emergenza (le
balle che giacciono in Campania non sono
bruciabili) né a garantire una tecnologia sicura
ed innovativa, tale da farci guardare
serenamente al futuro. Anzi, gli inceneritori
rischiano di rappresentare il cane che si morde
la coda: per giustificare gli “investimenti”
essi dovranno funzionare a pieno regime, e
quindi dovranno bruciare tutto il bruciabile.
Pensiamo alla carta e al cartone puliti: invece
di essere avviati al riciclaggio dovranno essere
inceneriti. Sennò a che servirebbero gli
inceneritori? Appunto: non servono a un fico
secco. O perlomeno, dovrebbero servire ad
una quota davvero residuale dei rifiuti (dal 10
al 20% massimo), poiché tutto il resto dovrebbe
essere recuperato, come succede nei paesi
civili.
Lo dico ancora più
chiaramente: il sistema basato
sull’incenerimento è inconciliabile con quello
basato su riduzione degli imballaggi, recupero,
riuso e riciclaggio dei materiali. Il secondo
sistema è preferibile, di gran lunga, al primo,
poiché guarda alla sostenibilità delle risorse
ambientali ed energetiche. Il primo è figlio
della subcultura dell’usa e getta, è
antieconomico e distruttivo, e si tiene in piedi
solo grazie alle truffe legislative che finora
gli hanno consentito di prendere fior fiori di
finanziamenti pubblici. L’incenerimento è un
processo semplicemente folle: costa più di
quello che rende. Con buona pace di Rutelli,
inoltre, l’incenerimento dei rifiuti produce
sostanze pericolosissime come diossine e furani,
oltre che residui di metalli pesanti che non
possono essere distrutti. Quanto più è efficace
un inceneritore, tanto più piccoli sono le
particelle volatili prodotte. Ormai abbiamo
familiarità con i pm 10, le sostanze che
provocano il blocco della circolazione stradale
nei centri urbani. Ma ci sono particelle ancora
più piccole, i pm 2,5 o addirittura 0,1, che PER
LEGGE NON SONO SOTTOPOSTE A MISURAZIONE.
Schematizzando:
-
un inceneritore efficace produce molte
nanoparticelle, che i filtri non sono in
grado di trattenere;
-
tali particelle sono di difficile
rilevazione;
-
a scanso di equivoci, la legge non ne
prevede la misurazione;
-
più piccole sono, tanto più le
nanoparticelle risultano pericolose e
invasive.
Lo dico ancora una
volta, a chiare lettere: l’incenerimento è
quanto di più idiota possa esistere nel ciclo
dei rifiuti. Mi spiace per l’on. Rutelli, che
afferma che l’inceneritore se lo metterebbe
anche sotto la finestra di casa: sta prendendo
un granchio, è rimasto lui indietro coi tempi.
Del resto, se mi è permessa una battuta
polemica, il grado di consapevolezza del
vicepresidente del Consiglio è proprio nel
termine di paragone da lui tirato dentro: quando
afferma che noi siamo rimasti al Medioevo
dimostra di non sospettare nemmeno che la più
accorta storiografia del Novecento ha corretto
l’indirizzo precedente, dimostrando che quel
periodo “buio” della storia poi così buio non lo
è stato. Rutelli, insomma, parla per luoghi
comuni. Non è una gran novità…
Esistono alternative?
Certo che esistono, anzi in alcuni paesi sono
già praticate da tempo con ottimi risultati. Mi
riferisco alla strategia “rifiuti zero”. Alcune
metropoli (si pensi a San Francisco, USA) hanno
avviato un sistema di trattamento dei rifiuti
che nel 2020 dovrebbe portarli a raggiungere
questo ambizioso obiettivo. La “filosofia”
dell’opzione rifiuti zero è molto semplice:
-
riduzione drastica degli imballaggi, che
spesso sono assolutamente inutili, e dei
materiali usa e getta;
-
riuso, riutilizzo e riciclaggio dei
materiali;
-
sistema di raccolta porta a porta, fondato
sulla separazione tra secco, umido e residui
non riutilizzabili. Il secco è destinato al
riciclaggio e al riutilizzo, l’umido al
compost o all’inertizzazione (per poi
divenire riempitivo di cave e sedi
stradali), la parte residuale (un’inezia,
sia dal punto di vista volumetrico che
quantitativo) allo smaltimento in discarica.
Non si tratta di una fantasticheria, ma di
una realtà già presente. Anche in questo caso
alcune linee di azione possono aiutare:
-
bandire le buste di plastica per la
spesa e utilizzare sacchi in tela;
-
vendere l’acqua in bottiglie di plastica
pesante, da riutilizzare almeno 25-30
volte, e poi da restituire con il
meccanismo obbligatorio del vuoto a
rendere. Quelle bottiglie vanno poi
riciclate;
-
vietare tutti gli imballaggi inutili,
che servono solo per la pubblicità.
Si tratta di semplice
buon senso, che tuttavia si scontra con
fortissime resistenze non solo da parte dei
cittadini, abituati all’usa e getta, ma anche
delle imprese. Ma mentre i cittadini possono
essere aiutati con mirate campagne di
sensibilizzazione e coinvolgimento, che li
rendano attori di un cambiamento concreto e
radicale, le imprese probabilmente continueranno
a remare contro, se non si mette mano ad un
rovesciamento delle priorità. E qui torno
all’esempio semplice semplice delle bottiglie di
plastica: i supermercati dovrebbero essere
obbligati a raccoglierle presso i propri punti
vendita, evitando tante noie ai clienti. In
Norvegia, ad esempio, fanno così.
Un’ultima notizia. Il
combinato disposto della Finanziaria 2007 e
dell’ultimo decreto legge sull’emergenza rifiuti
in Campania prevede il commissariamento ad
acta per i comuni che non raggiungono i
previsti livelli di differenziata. È una buona
cosa, che sperabilmente può imprimere la tanto
attesa svolta. Se le cose andranno bene, se cioè
diminuiranno i rifiuti prodotti, ben presto
potremo non avere bisogno degli inceneritori. Né
nei nostri meravigliosi orti e giardini, né
negli orti e giardini della già martoriata
Acerra. Quel mostro contro cui alcuni di noi si
sono battuti sarà l’ennesimo, ciclopico
monumento allo spreco e alla follia.
31 agosto 2007
Gianluca Aceto
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